Basta con l’ANPI. Parola del patriota Igino Bertoldi, della Divisione Osoppo Friuli

Perché fare assieme le manifestazioni dell’Associazione Osoppo con l’ANPI? Se lo chiede Igino Bertoldi, detto Ercole, Bogomiro o Ragamir, nato a Tavagnacco (UD) il 29 agosto 1926. È stato un patriota delle Brigate Osoppo, di area cattolica, azionista, monarchica e laico-socialista. Poi Volontario della libertà, per il periodo 1945-1948, in contatto con gli angloamericani. Dal 1948 al 1954, Igino ha fatto parte dei ‘Volontari Difesa Confini Italiani VIII’, col nome di ‘Bogomiro’, oppure ‘Ragamir’. “Se non ci fossimo stati noi adesso qui ci sarebbe un’altra nazione – ripete come un ritornello – ora sono dall’Associazione Partigiani Osoppo-Friuli (APO) di Udine”. Non gli piacciono i “miscugli ANPI – APO”, come li chiama lui. È che l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI), secondo lui, è schierata con i comunisti e certi suoi dirigenti sono giustificazionisti dell’eccidio di Porzûs e negazionisti della tragedia delle foibe istriane.

Gli strali di Bogomiro sono contenuti in una lettera, del 18 ottobre 2023. Sostiene che ci sia “una grave responsabilità nei confronti di noi combattenti ed in particolare dei nostri martiri dell’eccidio di Porzûs e delle foibe trucidati per creare il terrore nella popolazione” (Lettera al Presidente dell’APO 2023 : 2).

Vero è che certi storici descrivono la soppressione di un partigiano osovano effettuata dai partigiani garibaldini comunisti di Tavagnacco genericamente in questo modo: “Stella Arrigo (Robur). Classe 1923. Partigiano 3^ Brg. Osoppo Friuli. Ucciso a Laipacco il 28.4.1945 da forze partigiane” (Angeli 1994, pp. 139, 167-168).

Per Igino Bertoldi l’ANPI filo-comunista è la discendente ideologica dei partigiani dei Gap, i Gruppi di Azione Patriottica, creati dal Partito comunista, che dal 7 febbraio 1945 a Porzûs, in Comune di Attimis (UD), oltre che al Bosco Romagno (Cividale del Friuli) e Drenchia passarono per le armi il Comando partigiano della Osoppo, che si opponeva alle annessioni territoriali jugoslave e non volle sottostare al comando del IX Corpus di Tito.

Gorizia, 11 giugno 2023 – È stato inaugurato il nuovo Lapidario con i nomi di altre 97 vittime, oltre alle già 600 deportazioni ricordate col monumento del 1985. Fotografia dell’ANVGD

Pochi studiosi spiegano che i titini, oltre ad occupare Fiume, Pola, Trieste e Gorizia, sono giunti sino a Monfalcone, Muggia, Romans d’Isonzo, Cividale del Friuli, Aquileia e Cervignano del Friuli, nella Bassa friulana, arrestando e ammazzando a destra e a manca. Una jeep di artificieri iugoslavi fu vista da partigiani della Osoppo sulle rive del Tagliamento, vicino ad un ponte. Come ha scritto Maria Grazia Ziberna a Gorizia “il periodo dell’occupazione titina, dal 2 maggio al 12 giugno 1945, vide la costituzione nella Venezia Giulia dello Slovensko Primorje, cioè il Litorale Sloveno, che aveva come capoluogo Trieste e comprendeva anche il circondario di Gorizia, diviso in sedici distretti e composto anche dai comuni di Cividale del Friuli, Tarvisio e Tarcento [in provincia di Udine], considerati slavofoni” (Ziberna 2013 : 83). Proprio da Gorizia e da Trieste ricevette l’ordine di allontanarsi, nel Natale del 1944, dai comandi del IX Corpus titino la Divisione Garibaldi Natisone, formata da comunisti italiani. Così si poteva meglio annettere quelle terre alla Jugoslavia a fine conflitto, magari fino al fiume Tagliamento. Solo quelli delle Brigate Osoppo rifiutarono l’ordine slavo, così furono sterminati i comandi alle maghe di Porzûs e nel Bosco Romagno (Moretti 1987 : 193). Altre eliminazioni avvennero a Premariacco (UD), come emerso nel 2016 dall’archivio di quel comune.

Durante i 40 giorni di occupazione titina a Gorizia avvennero molti arresti di italiani contrari al nuovo regime jugoslavo, con l’aiuto dei miliziani comunisti della Divisione Garibaldi. Sono riusciti sicuramente a salvarsi sei militari italiani nei primi giorni dell’occupazione del IX Corpus sloveno, avvenuta tra il 2 maggio e l’11 giugno 1945. È stato Sergio Pacori a nasconderli in una stanza di casa. “Quando sono arrivati i partigiani titini per controllare le abitazioni – ha detto Pacori – conoscendo lo sloveno, li ho intrattenuti e portati in giro per la casa, senza farli entrare, ovviamente, nel vano degli sbandati, finito il controllo, i titini se ne sono andati soddisfatti e io avevo salvato quei sei soldati italiani dalla deportazione in Jugoslavia”.

C’è poi la vicenda di Arrigo Secco, nato a Faedis nel 1916, nome di battaglia Secondo. È uno di quelli che riuscì a salvarsi dall’eccidio di Porzus, messo in atto dai partigiani comunisti garibaldini il 7 febbraio 1945, per uccidere 17 partigiani osovani, compresa una donna, con la scusa di essere “fascisti, monarchici, traditori”. A raccontare l’episodio, tramandato nelle vicende familiari è una sua discendente: Monica Secco, insegnante di matematica a Udine. “Zio Arrigo era sposato con la partigiana Vania – ha detto la professoressa Monica Secco – e scampò ai fatti di Porzus, poiché incaricato di recarsi in paese in missione, così mi hanno raccontato i famiglia”. Arrigo Secco morì a Udine nel 1968 e, per la sua attività nella Resistenza, fu insignito della medaglia di bronzo. Fin qui i ricordi familiari.

L’attività partigiana di Arrigo Secco, detto Secondo, è documentata pure in un libro di Giampaolo Gallo sulla Resistenza in Friuli. Prima ancora che nascessero le Brigate Osoppo Friuli (Bof), egli combatté dalla metà di settembre 1943 nel battaglione “Rosselli”, composto da un numero variabile di uomini che andava da 40 a 70 elementi. Fu il primo distaccamento “Giustizia e Libertà”, sorto ad opera del Partito d’Azione al comando di Carlo Comessatti, nome di battaglia Spartaco. Il vice-comandante era Alberto Cosattini, detto Cosimo, mentre il commissario politico era Fermo Solari, Somma.

Pensare che “i primi patrioti di Udine, dopo l’8 settembre 1943 – ha detto G.P.F. – si ritrovarono all’Osteria Alla Ghiacciaia, una sorta di tempio degli Irredentisti nella Grande guerra”. Avevano uno spirito di solidarietà cristiana. Erano anti-tedeschi e col vessillo del tricolore senza altri emblemi. Alcuni erano monarchici, perciò chiamati: traditori badogliani. Rifiutavano la divisa tedesca o della R.S.I. Non volevano egemonie di partigiani garibaldini rossi e nemmeno di partigiani comunisti sloveni di Tito che erano, secondo A. B.: “i più tremendi e sanguinari”. Nel Comune di Premariacco (UD), Roberto Trentin ha detto: “ricordo una frase di mio padre, quando si parlava della guerra, lui diceva: ‘Pôre dai partisans, mai dai todescs!’ [Paura dei partigiani sì, mai dei tedeschi!]”.

Igino Bertoldi, detto Ercole, Bogomiro o Ragamir. Fotografia di Elio Varutti 2023

Ritorniamo alle parole di Bogomiro. “Terminata la guerra, i compagni insediarono il tribunale del popolo – aggiunge nella Lettera citata – io ero lì, quando iniziarono la tosatura delle ragazze che operavano nella centrale telefonica. Solo le più ingenue si lasciarono tagliare i capelli [per spregio; NdR] perché le più astute alzarono la voce: ‘Non toccateci, altrimenti parleremo’. L’indomani mandarono a prelevare un semplice uomo che operava nella centrale telefonica a Tavagnacco e proveniva da Amaro. Cominciato l’interrogatorio, la giuria non trovò nessuna colpa. Lo consegnarono, in seguito, alle donne comuniste che, senza pietà lo torturarono. Si sentirono le urla fino a grandi distanze. La mattina dopo fu trovato [morto] in un fosso a Torreano di Martignacco, ma era già programmato un altro processo a danno di un mio coetaneo. I fratelli Clocchiatti, osovani, approfittando di Berto che era sceso da Subit [frazione di Attimis, UD] e alloggiato nelle scuole elementari di Tavagnacco, andarono a chiedere rinforzi per ottenere il rilascio dell’accusato, che avvenne immediatamente. Da tener presente che il grosso dei combattenti Diavoli Rossi, IX Corpus e Garibaldini erano trasferiti a Gorizia a infoibare” (Lettera al Presidente dell’APO 2023 : 1). Tra l’altro, sul tribunale del popolo di Udine ha scritto Fabio Verardo, nel 2018.

Si ricorda che gli arresti e le deportazioni di italiani a Gorizia seguirono l’occupazione militare della città per 40 giorni da parte dei partigiani del IX Corpus sloveno. Si toccò l’apice fra il 2 e il 20 maggio 1945 a guerra conclusa. Si contarono 332 scomparsi, dei quali 182 civili e 150 militari, nel goriziano, dato arrivato a oltre 665 persone a disamina storica conclusa.

Passata l’invasione titina di Gorizia “un amico mi riferì che Mario e Lino, due fratelli del GAP di Tavagnacco – ha ricordato Igino Bertoldi – ormai morti, ritornando dalle eliminazioni di Gorizia, furono intercettati dalla ronda inglese di confine, così spararono uccidendo due soldati britannici, che oggi riposano nel Cimitero del Commonwealth a Adegliacco di Tavagnacco. Gli uccisori poi emigrarono uno in Germania e l’altro nella Legione straniera per non farsi prendere. Erano tempi così. Chi non la pensasse come loro, era già finito. Mio padre Giuseppe, del 1894 e mancato nel 1972, era come me ed altri 80 paesani di Tavagnacco sulla lista di quelli da impiccare secondo quelli del GAP”.

Cimitero del Commonwealth a Adegliacco di Tavagnacco. Fotografia dal sito web del Comune di Tavagnacco

Da ultimo si ricorda che tra i martiri delle malghe di Porzûs c’è pure Guido Pasolini, fratello del noto poeta e regista Pier Paolo. In considerazione del modo “orrendo” con il quale venne finito, essendo stato solo ferito nella concitata iniziale fucilazione nel Bosco Romagno, c’è chi lo paragona alla morte di Cristo (Castenetto 2023 : 182). È per tale motivo che si è scelta per copertina l’opera di Sergio Pacori intitolata Crocifissione... C’era il piccone per il colpo di grazia sul cranio, oltre alle pugnalate e alla decapitazione (tecnica, quest’ultima, usata nell’eccidio di Stremiz di Faedis, UD, scoperto nel 1997). Ecco come avvenne, nel febbraio 1945, il massacro di certe vittime osovane ad opera dei gappisti comunisti agli ordini di Mario Toffanin, detto Giacca. Essi agirono “prima colpendole con il calcio del mitra, eppoi, quando caddero rantolando, infierendo sui corpi con i tacchi degli scarponi” (Cresta 1969 : 124). Il signor C. Fe. ha confermato: “Gli osovani uccisi al Bosco Romagno sono stati colpiti a randellate dai filo-titini, lo so perché ho parlato con chi nell’APO ha visto le fotografie dei loro corpi martoriati”.

Fonti orali – Le interviste (int.) sono state condotte a Udine da Elio Varutti con penna, taccuino e macchina fotografica, se non altrimenti indicato.

 – Igino Bertoldi, detto Ercole, Bogomiro o Ragamir, nato a Tavagnacco (UD) il 29 agosto 1926, int. del 21 novembre 2023 a Tavagnacco.

– A. B., San Giovanni al Natisone (UD), int. del 22 giugno 2015.

– C.  Fe., Codroipo (UD), int. al telefono del 27 novembre 2023.

– G.P.F., Gemona del Friuli 1938, int. a Udine del 7 luglio 2023.

– Monica Secco (Udine, 1963), int. del 31 maggio 2009 e 19 novembre 2014.

– Sergio Pacori, Gargaro (ex provincia di Gorizia, oggi Slovenia) 1933, esule a Gorizia, int. del 17 maggio 2023 ed e-mail del 22 luglio 2023.

– Roberto Trentin, Premariacco, comunicazione a Cividale del Friuli del 9 settembre 2017.

Documenti originali

Comune di Premariacco, Anpi, gioie e dolori, registro anagrafe con 60 nominativi di persone abbattute dai partigiani, perché ritenute spie o collaborazionisti. Vedi: “Le carte di Premariacco: ecco i nomi dei morti”, «Messaggero Veneto», 3 maggio 2016.

– Igino Bertoldi, Lettera al Presidente dell’APO, testo in WORD, Tavagnacco 18 ottobre 2023, pp. 2.

Collezioni private

– Giorgio Secco, Udine, fotografia, lettere e cartoline, ms.

Interventi di Igino Bertoldi già pubblicati nel web

– E. Varutti, Arduino di Fiume scampato ai fucili titini e varie trame jugoslave al confine orientale, 1943-1954, on line dal 30 aprile 2023 su evarutti.wixsite.com

– E. Varutti, 25 aprile 2023: Patrioti o Partigiani. Igino Bertoldi denuncia, on line dal 2 giugno 2023 su eliovarutti.blogspot.com.

– E. Varutti, Strage di Porzûs programmata e misteri jugoslavi al confine orientale italiano, on line dal giorno 11 luglio 2023 su varutti-elio3.webnode.it

– E. Varutti, Le fucilazioni facili dei partigiani comunisti in Friuli. L’osovano “Ercole” rivela, 1945, on line dal 31 luglio 2023 su evarutti.wixsite.com

– E. Varutti, I rapporti coi comunisti dei GAP per il patriota Igino Bertoldi, delle Brigate Osoppo Friuli, on line dal 20 settembre 2023 su evarutti.wixsite.com

Bibliografia

– Giannino Angeli, Viva l’Italia libera! (1943-1945). (Storia, memorie, testimonianze dei tempi di guerra nel Comune di Tavagnacco), Comune di Tavagnacco (UD), Comitato per il 50° anniversario della Liberazione, 1994.

– Roberto Castenetto, “Pier Paolo Pasolini e la morte del fratello Guido ‘Martire Cristo”, in: Roberto Volpetti, I Pasolini Guido e Pier Paolo resistenza e libertà, Udine, Associazione Partigiani Osoppo, 2023.

– Primo Cresta, Un partigiano dell’Osoppo al confine orientale, Udine, Del Bianco, 1969.

– Giampaolo Gallo, La Resistenza in Friuli 1943-1945, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine, 1988.

– Aldo Moretti, “La ‘questione nazionale’ del Goriziano nell’esperienza osovana (1943-1945)”, in: Aa. Vv., I cattolici isontini nel XX secolo. il Goriziano fra guerra, resistenza e ripresa democratica (1940-1947), Gorizia 1987, pp. 187-199.

– Fabio Verardo, I processi per collaborazionismo in Friuli. La Corte d’Assise Straordinaria di Udine (1945-1947), Milano, Franco Angeli, 2018.

– Maria Grazia Ziberna, Storia della Venezia Giulia da Gorizia all’Istria dalle origini ai nostri giorni, Gorizia, Lega nazionale, 2013.

Modifiche del 2.12.2023Saggio di: Elio Varutti, Docente di “Sociologia del ricordo. Esodo giuliano dalmata” – Università della Terza Età, Udine. Networking a cura di Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Bruno Bonetti, Sergio Satti (ANVGD di Udine), Enzo Faidutti e il professore Stefano Meroi. Per i suggerimenti bibliografici si ringrazia l’architetto Franco Pischiutti (ANVGD di Udine). Grazie a Giuseppe Bertoldi, figlio di Igino. Copertina: Sergio Pacori, Crocifissione con la Madonna e Maria di Cleofa, scultura con residuati bellici, cm 140 x 70,  peso 80 kg, 2011 ca. Collezione dell’Artista, che si ringrazia per la gentile concessione alla pubblicazione del 24 novembre 2023. Immagine qui sotto.

Fotografie dalle fonti citate. Adesioni al progetto: Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine, ANVGD di Arezzo. Per la cortese collaborazione riservata si ringraziano gli operatori e le direzioni delle seguenti biblioteche di Udine: Civica “Vincenzo Joppi”; Biblioteca del Seminario Arcivescovile “Pietro Bertolla”; Biblioteca dell’ANVGD; Biblioteca della Società Filologica Friulana e Biblioteca “Renato Del Din” dell’Associazione Partigiani Osoppo-Friuli; Biblioteca dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione.

Parlano le maestre Carmignani e Stoppielli, delle scuole elementari al Centro profughi di Laterina, 1956

Era tutto un modo diverso di fare scuola – ha raccontato la maestra Emilia Carmignani – avevo bambini dell’Istria, Fiume e Dalmazia, che parlavano in dialetto, se non in croato e ricordo che ho avuto degli scolari che parlavano arabo, poiché le loro famiglie erano state espulse dalla Libia, tutti destinati al Centro raccolta profughi di Laterina (Crp)”. Ricorda qualche collega di lavoro?

Certo, oltre alla maestra Giuliana Stoppielli, che è qui vicino a me, venuta a farmi visita – ha risposto – in questa giornata dei ricordi organizzata da Claudio Ausilio, esule di Fiume e delegato provinciale dell’Associazione degli esuli in Arezzo, poi c’era il Direttore didattico Scala e con grande affetto ricordo la maestra Pasqua Sponza Benvegnù e la sua famiglia di Rovigno”.

Nella foto qui sotto: la maestra Emilia Carmignani, a sinistra, suo marito, Impero Nocentini e la maestra Giuliana Stoppielli, collega della Carmignani al Crp di Laterina. Foto di Claudio Ausilio, 25 ottobre 2022.

Cosa pensa dei suoi scolari al Crp di Laterina? “Ho insegnato per tre anni scolastici nel Campo profughi – ha replicato la Carmignani – era dura, ma se la sono cavata, avevamo i banchi e pochi materiali scolastici, del resto ‘sti bambini con gli jugoslavi che c’avevano a che fare?”. Come si recava al lavoro fino nel Crp?

Con il treno da Montevarchi fino a Laterina stazione – ha aggiunto – poi con un pullman, oppure a piedi”.

Chiedo ora al signor Impero Nocentini di raccontare la sua storia. “Oltre che marito della maestra Emilia Carmignani – ha detto Nocentini – nella provincia di Arezzo ero l’unico titolare di azienda di fotografia a 16 anni”. È vero che faceva le fotografie nel Campo profughi?

Sì, per le prime comunioni, per le visite delle autorità civili o religiose – ha aggiunto Nocentini – ho lavorato dal 1954 al 1977; l’intestazione della mia ditta era: Foto Impero. Arrivavo con la motocicletta in Campo profughi, facevo un bel po’ di scatti fotografici, sviluppavo in studio e stampavo le fotografie, che portavo nel Crp dandole al signor Duca, titolare dello spaccio interno, così lui che conosceva molti profughi, provvedeva a consegnarle per una giusta somma. Poi mi sono diplomato in Ottica ad Arcetri (FI). Così dal 1978 al 2005 ero titolare del negozio di “Ottica Impero” a Terranuova Bracciolini (AR), poi è arrivata la pensione”.

Si ricorda che Giuliana Stoppielli, insegnante aretina della 3^ classe elementare nel Crp di Laterina, scrive nel suo registro nell’anno scolastico 1956-1957: “Sono piccoli uomini e brave donnine, che guardano già all’avvenire con una certa serietà e che, per la loro esperienza o per l’esperienza dei genitori, mostrano di valutare in pieno quel senso di italianità per il quale hanno accettato di vivere miseramente al campo”. Verso la metà di febbraio la classe deve fare lezione nel pomeriggio, poiché ci sono troppi iscritti nella scuola del Crp; bisogna fare i turni. A marzo molti pargoli si ammalano di morbillo. Poi si legge che: “Ancora una volta durante il mese di aprile 1957 abbiamo dovuto abbandonare la nostra aula, ci siamo trasferiti in quella del M.o [Maestro] Alfieri, poiché la nostra ha dovuto accogliere i bambini della signora Stifanich che stanno diventando molto numerosi” (p. 21).

Foto sotto: disegno e dettato di Emilia Ussich, scolara al Crp di Laterina, con la firma della maestra Pasqua Sponza in Benvegnù. Collezione Privata, Arezzo.

La classe 4^ elementare della maestra Carmignani

Dal Registro della classe 4^ traspaiono analoghi commenti a quelli riportati poco sopra. È la maestra Emilia Carmignani, di Terranuova Bracciolini (AR), a scrivere che i suoi alunni sono “pieni di entusiasmo e di buona volontà” (p. 17 del Registro). Hanno poche suppellettili scolastiche. Il libro arriva il 27 gennaio 1957 e “i ragazzi sono tanto contenti e vorrebbero studiarlo tutto insieme”. Il disagio vissuto dai profughi assiepati nelle baracche di Laterina, tuttavia, si fa sentire. Il 22 febbraio la maestra scrive di dolersi per l’assenza di un suo alunno, il cui babbo ubriacatosi, ha picchiato la moglie e, poi, ha tentato il suicidio; conclude così: “chiederò consiglio all’assistente sociale”. Il 15 marzo c’è il visto dell’Ispettrice Olga Raffaelli. Alla fine dell’anno sono 17 gli ammessi all’esame, dei quali 9 sono le femmine, in maggioranza; evidentemente vari scolari sono stati trasferiti.

L’elenco dei 23 alunni della classe 4^ risulta da due registri didattici, a causa dei nuovi arrivi e dei trasferimenti di alunni; si è effettuato inoltre un confronto con l’Elenco alfabetico profughi giuliani e con altre fonti per l’assegnazione della località dal nominativo di Basso in poi, considerata la carenza di dati nei registri scolastici. Ecco la classe 4^: Brachitta Stella, Tripoli, trasferita a Perugia; Benci Maria Luisa, Pola, trasferita a Roma; Bertoldi Benito, Asmara (Eritrea), trasferito; Cernaz Virgilio, Dignano d’Istria (PL), trasferito a Cremona; Minissale Mario, Neresine (PL), trasferito a Firenze; Moisei Giuseppe, Visinada (PL), trasferito a Novara; Sauer Mirella, Pola, trasferita a Serravalle Sesia (VC); Scocco Liliana, Pola, trasferita a Ravenna; Trillo Domenico, Tripoli, trasferito a Monteverdi Marittimo (PI); Trillo Giovanni, Tripoli, trasferito a Monteverdi Marittimo (PI); Vescovi Maria, Pola, trasferita a Genova; Vescovi Paolo, Pola, trasferito a Genova; Basso Claudio, Pola; Creglia Gian Pietro, Barbana (PL) trasferito a Roma; Priletti Anna Maria, s.l.; Ghini Antonio, s.l., ma cognome di Capodistria; Marcetta Bruna, Fiume, trasferita a Bergamo; Brenco Nadia, trasferita a Firenze (cognome di Pola); Bulessi Claudio, Pola; Blecich Liliana, Fiume; Isera Albino, Sanvincenti (PL); Valle Graziella, Castelnuovo d’Istria (FM); Visintini Santina, Torre di Parenzo (PL). Come si può notare la maggioranza degli scolari è della provincia di Pola (65,2%), seguiti da quelli di Fiume (13%), di Tripoli (13%) ed altro.

Qui sotto: Dettato e disegno di Violetta Canaletti, scolara al Crp di Laterina, Collezione privata, Arezzo.

Commenti di Claudio Ausilio

Durante l’intervista collettiva – ha detto Claudio Ausilio – voglio segnalare che, fra i tanti loro ricordi emersi alle maestre Carmignani e Stoppielli, ce n’era uno molto affettuoso per la maestra Sponza Pasqua in Benvegnù con la sua famiglia, che ho portato a conoscenza a Pier Michele Benvegnù, suo figlio che abita a Firenze e che è rimasto piacevolmente colpito. Poi mi dispiace molto che l’archivio fotografico di Impero Nocentini non sia stato conservato, sarebbe stato assai importante per la storia del Crp di Laterina”. C’è qualcos’altro da aggiungere?

Certo, il signor Giovanni Trillo, già scolaro in Crp, che oggi vive in provincia di Pisa, come da suo desiderio – ha concluso Claudio Ausilio – ha tenuto un lungo colloquio telefonicamente con la sua maestra degli anni ‘50 Emilia Carmignani, è stato molto commovente assistere a quell’incontro tra uno scolaro oggi ultrasettantenne e la sua insegnante del tempo”.

Fonti orali – L’intervista telefonica collettiva alle seguenti persone si è svolta il 25 ottobre 2022 con contatti preparatori di Claudio Ausilio. Ringrazio tutti gli interessati.

– Claudio Ausilio, Fiume 1948, esule a Montevarchi (AR), messaggi e-mail del 26 ottobre 2022.

– Emilia Carmignami, Terranuova Bracciolini (AR) 1935, vive a Loro Ciuffenna (AR).

– Impero Luigi Nocentini, San Giustino Valdarno, frazione di Loro Ciuffenna (AR) 1938.

– Giuliana Stoppielli, Terranuova Bracciolini (AR) 1933.

Fonti archivistiche

Premesso che potrebbero esserci alcuni errori materiali di scrittura, ecco i testi della ricerca presente; i materiali sono stati raccolti da Claudio Ausilio, dell’ANVGD di Arezzo.

– Comune di Laterina (AR), Elenco alfabetico profughi giuliani, 1949-1961, ms.

Presso l’Istituto Comprensivo “Francesco Mochi” di Levane (AR) da Claudio Ausilio sono stati consultati i seguenti documenti:

– Provveditorato agli studi di Arezzo, Comune di Laterina, Circolo Didattico di Montevarchi, Frazione C.R.P., Scuola Elementare Laterina C.R.P., Registro della classe 4^ mista, insegnante Emilia Carmignani, anno scolastico 1956-1957, pp. 23+10, stampato e ms.

– Provveditorato agli studi di Arezzo, Comune di Laterina, Scuole elementari, Circolo Didattico di Montevarchi, Scuola Elementare C.R.P., Registro della classe 3^ mista, insegnante Giuliana Stoppielli, anno scolastico [1956-1957], pp. 30, stampato e ms.

Collezioni familiari

  • Claudio Ausilio e Archivio ANVGD di Arezzo, fotografie.
  • Emilia Carmignani, Loro Ciuffenna (AR), fotografia.
  • Collezione privata, Arezzo, disegni e temi di scolari.

Foto sopra: Emilia Carmignani e Impero Nocentini negli anni ’50. Collezione di Emilia Carmignani.

Bibliografia

– GIULIANA PESCA – SERENA DOMENICI – GIOVANNI RUGGIERO, Tracce d’esilio. Il C.R.P. di Laterina 1948-1963. Tra esuli istriano-giuliano-dalmati, rimpatriati e profuganze d’Africa, Città di Castello (PG), Biblioteca del Centro Studi “Mario Pancrazi”, Edizioni NuovaPrhomos, 2021.

– ELIO VARUTTI, La patria perduta. Vita quotidiana e testimonianze sul Centro raccolta profughi Giuliano Dalmati di Laterina 1946-1963, Firenze, Aska, 2021. Dal mese di ottobre 2022 anche in formato e-book.

Ringraziamenti

La redazione del blog per l’articolo presente è riconoscente al signor Claudio Ausilio, esule da Fiume a Montevarchi (AR), socio dell’ANVGD provinciale di Arezzo, per aver fornito con la consueta cortesia i materiali per la ricerca presso l’Archivio del Comune di Laterina e di Levane (AR), andando a incrementare una tradizionale e collaudata collaborazione con l’ANVGD di Udine. Oltre alle fonti orali, si ringraziano gli operatori e le autorità del Comune di Laterina e dell’Istituto Comprensivo “Francesco Mochi” di Levane (AR), per la collaborazione riservata all’indagine storica.

Testi di Elio Varutti. Ricerche di Claudio Ausilio e E. Varutti. Networking a cura di Girolamo Jacobson, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio, Marco Birin. Copertina: Il seminatore, disegno di Renata Blasich, scolara al Crp di Laterina, 1957, Collezione privata, Arezzo. Altre fotografie da collezioni citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede via Aquileia, 29 – primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine.  – orario: da lunedì a venerdì ore 9,30-12,30.  Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. Vicepresidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Sito web:  https://anvgdud.it/

Arrivo dei titini a Fiume senza colpo ferire, 2-3 maggio 1945, di Rodolfo Decleva

Come finisce la seconda guerra mondiale a Fiume? Quante vittime ci sono l’ultimo giorno prima dell’armistizio? Proponiamo in lettura un originale contributo scritto di Rodolfo Decleva, da lui intitolato: 2 – 3 maggio 1945. L’occupazione jugoslava di Fiume. Testimonianza depositata in data 01 Ottobre 2020 presso la Società di Studi Fiumani in Roma, Via A. Cippico 10. La redazione del blog presente ringrazia vivamente l’Autore per la cortese concessione alla pubblicazione. Allo stesso tempo ci permettiamo di aggiungere qualche frase di contesto degli ultimi giorni di una città italiana bombardata dall’aviazione angloamericana, dall’artiglieria titina e minata nel porto dai nazisti , dove non c’è più cibo, né collegamenti ferroviari, postali o d’altro genere.

Ecco le parole dal Diario dell’ingegnere Carlo Alessandro Conighi “3.V [1945] Giornate grandemente burrascose. La città / è stata giorno e notte continuamente intronata [meglio: rintronata] / di poderosi scoppi di mine, di cannonate. Parecchie / granate caddero in città e alcune fecero vittime. / Di faccia a casa nostra dalla parte del cortile fu colpita / una testa di camino. Di tutto ciò non si conosce la / provenienza [neanche si immaginavano certi fiumani che i partigiani di Tito sparassero da Tersatto coi cannoni sulla città, come riportato nelle interviste sull’esodo da Fiume curate dallo scrivente in altri articoli, NdR] e chi siano realmente i combattenti. / Pare che durante la scorsa notte tutti i tedeschi se ne sieno andati. Noi di famiglia stiamo tutti / bene, tranne Amalia molto debole. Io personalmente sono stato e sono perfettamente / tranquillo. Divenni fatalista, quasi indifferente a tutto, / né mi lascio impressionare, lasciando correre e / dicendomi: sarà quel che sarà. Pensiamo sempre ai / lontani, incerti di quando e di come ne avremo notizie…” (Collezione famiglia Conighi, esule da Fiume a Udine). Autore del diario è l’ingegnere Carlo Alessandro Conighi, nato a Trieste il 26 febbraio 1853, costruttore di Fiume e Abbazia, morto esule a Udine il 5 agosto 1950.

Il porto di Fiume, anni ’20 ca., bombardato dagli angloamericani 1944-’45 e minato dai nazisti dalla fine di aprile 1945; Collezione Aldo Tardivelli

Così ha scritto Rodolfo Decleva nel 2020. “In questi giorni [settembre 2020, NdR] sono avvenute a Fiume-Rijeka delle manifestazioni contrarie alla iniziativa presa dall’Amministrazione cittadina di installare in cima al Grattacielo della ex Piazza Regina Elena una grande Stella Rossa formata da 2800 pezzi di vetro di colore rosso rappresentanti 2.800 Caduti Partigiani nella Battaglia per la Liberazione di Fiume. Io sottoscritto Dr. Rodolfo DECLEVA nato a Fiume l’8 Gennaio 1929, residente in quell’epoca a Fiume, in Calle del Barbacane 19, rendo la seguente testimonianza resa ‘Pour servir et valoir ce que de droit’. – – –

Dal 15 aprile al 3 maggio 1945 – Dalla metà di Aprile, ai bombardamenti aerei su Fiume si erano aggiunti lanci isolati di schrapnell [proiettile cavo, riempito di sfere di piombo, o di acciaio, e munito di una carica di scoppio collegata ad una spoletta a tempo] da parte dei Partigiani sulla nostra città che provenivano dalle alture di Tersatto. Perciò la gente si era portata i materassi nel rifugio antiaereo di Via Roma a 120 metri dal confine con Sussak e la Fiumera e vi dormiva. La nostra famiglia  continuò a dormire in casa essendo distanti dal rifugio solo un quarantina di passi. Di giorno la vita in città – occupata da tedeschi e repubblichini – era normale.

Ancora in Aprile io prendevo regolarmente il treno alle ore 7 del mattino per andare al Lager di Mattuglie per firmare la presenza e poi recarmi a piedi a Giordani dove – essendo state chiuse le scuole – ero stato precettato dalla Organizzazione TODT per la costruzione di Bunker sotto la direzione di un militare Gruppfuehrer austriaco. Nella mia squadra di 10 elementi faceva parte anche il signor Stabellini, Bidello della Scuola di Avviamento Commerciale. Rientravamo a Fiume con il treno delle ore 17.

Fiume 1945 – Bruno Tardivelli precettato al lavoro per la Todt. Collezione Aldo Tardivelli

Una settimana prima della fine del mese di Aprile, i tedeschi mi ordinarono di recarmi a lavorare ai Bunker a Santa Caterina, sulle alture sopra Fiume dove erano posizionate le difese italo-tedesche che rispondevano alle provocazioni partigiane che ho descritto sopra, dove già lavorava il mio amico Massimo Gustincich. I schrapnel continuavano a cadere ma ogni tanto uno e non a pioggia, e l’impressione era che si fosse ormai giunti alla fine. Perciò mio padre non mi lasciò andare al lavoro e quindi non feci nemmeno una giornata di lavoro a Santa Caterina. Per paura che i tedeschi mi venissero a cercare, mi fece vivere e dormire nella nostra cantina (fondo) alla quale si entrava dalla Calle dei Facchini n. 9.

Fu proprio in quei giorni – una settimana prima della fine – che i tedeschi fecero brillare le mine che avevano predisposto nei Moli e nella Diga per la distruzione del bacino portuale che richiese 4-5 giornate. Inspiegabilmente i Partigiani di Sussak restarono insensibili a tanto sfacelo senza intervenire.

Affermo che in città non c’era panico. Alle 7,30 del giorno 3 Maggio 1945 venni svegliato da una vicina – la Signora Giuditta Barbalich, la cui famiglia aderiva al movimento partigiano – abitante in Calle del Barbacane n. 23, ultima casa di questa Calle prima della Via Roma – che gridò: “Siamo liberi! I tedeschi sono andati via.”

Così è finita la guerra a Fiume con i Partigiani fermi e passivi a Sussak. Va dato atto all’Esercito jugoslavo, nato dalla lotta partigiana iniziata sin dal 1941, di aver sconfitto gli Eserciti italiano e tedesco da Belgrado a Trieste. Su «La Vedetta d’Italia», quotidiano di Fiume, seguivamo attraverso le poche righe riservate alle brutte notizie della guerra le battaglie ed i ripiegamenti delle nostre truppe da Sebenico, e poi da Bihac’ e Knin già nel Dicembre 1944.

L’ordine ai tedeschi era di difendere ogni palmo di terra per tenere lontana la guerra dalla Germania in attesa che gli scienziati producessero l’arma segreta – dopo le micidiali V1, V2 e V3 che stavano piovendo su Londra – dalla quale sarebbero cambiate le sorti del conflitto mondiale. Perciò ci vollero 4 mesi di combattimenti accaniti dell’Esercito di Tito per guadagnare i 200 km. di distanza tra Fiume e Bihac’, per cui i 2800 Caduti dichiarati recentemente in Croazia possono riguardare questo percorso raggiungendo, e insediandosi a Sussak verso la fine di Aprile.

Ma è ormai generalmente noto che la conquista di Fiume fu rinviata e il grosso dell’Armata si allargò passando a nord della nostra  città perché l’obbiettivo finale era diventato Trieste e il territorio sino all’Isonzo allo scopo di realizzare il fatto compiuto dell’occupazione militare e quindi ottenere l’assegnazione alla Jugoslavia del territorio occupato, in sede di Trattato di Pace. E in effetti con questo espediente l’Esercito di Tito vinse la storica ‘Corsa per Trieste’ giungendo in città il giorno 1° Maggio 1945 con un giorno di anticipo sui Neozelandesi fermi in attesa di ordini a Monfalcone.

A Fiume l’esercito partigiano entrò solo dopo che i tedeschi l’abbandonarono nella notte tra il 2-3 Maggio. La presero senza sparare un colpo, senza un morto, senza entusiasmi e nella freddezza del popolo fiumano.

Entrarono in città passando il Ponte sull’Eneo verso le ore 9,30 del 3 Maggio arrestando soldati italiani che stavano prendendo possesso della città. Personalmente assistetti all’arresto di tre Finanzieri di cui un Ufficiale, che erano in Via Roma a guardia di due mine anticarro lasciate dai tedeschi sulla strada a 20 metri dell’imboccatura del rifugio vis-à-vis la Caserma dei Carabinieri, oggi ancora in piedi. Probabilmente i nostri facevano parte del Gruppo di Don Luigi Polano, purtroppo bloccato dagli eventi in Italia, per cui non poté personalmente guidare il ritorno alla normalità.

In conclusione ripeto: – Nell’ultima settimana di Aprile fino al 3 Maggio 1945 la vita  a Fiume scorreva nella consueta normalità di stato di guerra con il timore di eventuali bombardamenti aerei, qualche isolato schrapnel che cadesse su qualche tetto, e il rumore delle Batterie di Santa Caterina e Drenova che rispondevano ai colpi delle postazioni partigiane a Sussak e Tersatto. ll mio amico Massimo Gustincich ha lavorato al Bunker Streiffen 3/B della TODT a Santa Caterina regolarmente fino a tutto il 29 Aprile 1945, situato nel dirupo a strapiombo sull’Eneo in fronte ai partigiani posizionati nella collina di Tersatto. Nel giorno 30 Aprile, il Gruppo di cui faceva parte venne spostato in zona meno esposta. Quindi, fino ancora due giorni dall’occupazione titina egli si recava a piedi dal Centro della città sino a Santa Caterina senza incontrare problemi o pericoli durante il tragitto.

Il porto saltava a pezzi tra l’indifferenza della gente in strada, preoccupata solo di non esserne    colpita, e consapevole che si era ormai alla fine. – La popolazione dormiva nei rifugi antiaerei o nelle abitazioni. – Non ci furono assolutamente sparatorie strada per strada o battaglie casa per casa, etc. da provocare morti né italiani né jugoslavi. – Alle 8 del mattino del 3 Maggio 1945 nella città di Fiume c’erano soldati italiani imboscati e Forze di polizia italiane al lavoro in servizio d’ordine.

– I Partigiani che da giorni erano stabiliti a Sussak, passarono il Ponte sull’Eneo verso le 9,30 a piedi entrando nel Centro della città dalla Via Roma e dalla Via Fiumara come già descritto in narrativa. Così occuparono la città. In fede. F.to  Dr. Rodolfo Decleva. Fatto in Genova, il 1° Ottobre 2020”.

Cartolina con borgo di Sussak; Collezione Aldo Tardivelli

Nel 1944, Fiume tra guerra e teatri – Sono le parole di Aldo Tardivelli quelle che seguono. È un altro fiumano patoco. Aldo Tardivelli, nato a Fiume il 20 settembre 1925, è deceduto a Genova il 19 novembre 2020 a causa del Corona virus. Ecco il suo racconto, scritto agli inizi del 2000. “La passione per la recitazione aveva spinto mio fratello Bruno ad allestire, insieme con altri amici, una compagnia di recitazione ‘filodrammatica’, come aveva fatto nostro padre, quando frequentava il circolo degli impiegati la Filodrammatica del Dopolavoro Ferroviario, con gran successo. ‘Lo Smemorato. Le Baruffe Chioggiotte. I Gatti Selvatici, L’Antenato. I fallimenti del curatore, Tre Rusteghi, Il medico e la pazza’. Commedie brillanti e di successo nel Teatro Fenice e Teatro Giuseppe Verdi nel 1944.

Fiume, 15.6.1944 – Il medico e la pazza. Compagnia teatrale filodrammatica. Collezione Aldo Tardivelli

Non c’erano grandi occasioni mondane in quel tempo. Se per caso suonava durante la recita l’allarme, correvano tutti nel rifugio, e poi…il successo era stato garantito, ma fra questi ‘bravi e novelli teatranti’ c’erano alcuni militanti e simpatizzanti collegati politicamente alle cellule clandestine del ‘Movimento Antifascista di Liberazione’. Alla fine la maggioranza di questi attori hanno optato e partirono per l’Italia nel 1947-48. In corso di un rastrellamento, durante la notte, le ‘forze di sicurezza naziste delle SS’ avevano arrestato gran parte della compagnia teatrale e condotta, con la forza, nelle carceri di Via Roma, mentre altri che non erano presenti in casa erano riusciti a sfuggire alla cattura.

Su tutti i detenuti del carcere persistevano per i diversi capi d’imputazione, l’incubo di una ìmorte certa’. Il dramma di questi condannati, non era diverso da quello di diventare, anche, ‘ostaggi di se stessi’ in seguito a qualche inutile attentato od omicidio di uno o più soldati Tedeschi, commesso dai loro ‘Compagni di lotta’.

Con uno stratagemma Aldo Tardivelli, tuttavia, riuscì a far liberare il fratello Bruno, che si salvò dalle grinfie naziste. Col 3 maggio 1945 la città fu invasa dagli iugoslavi ed iniziarono gli arresti di italiani da parte dei titini.

Fonti originali – Rodolfo Decleva, 2 – 3 maggio 1945, L’occupazione jugoslava di Fiume. Testimonianza depositata in data 1° Ottobre 2020 presso la Società di Studi Fiumani in Roma, Via A. Cippico 10, testo in Word, pp. 2; Collezione Elio Varutti, ANVGD di Udine.

Dalla Collezione di Claudio Ausilio, esule da Fiume a Montevarchi, ANVGD di Arezzo: – Aldo Tardivelli, Una vita in pericolo (1944-1945), testo in Word, s.d. [2003?] pagg. 15. – A. Tardivelli, Fiume, 3 maggio 1945, testo in Word, s.d. [2003?] pp. 12.

Collezione famiglia Conighi, esule da Fiume a Udine, ms.

Collezione Aldo Tardivelli, esule da Fiume a Genova, cartoline e testi in Word

Sitologia – E. Varutti, Diario di Carlo Conighi, Fiume aprile-maggio 1945, on line dal 7 giugno 2016.

Ricerca di Claudio Ausilio (ANVGD di Arezzo) e Elio Varutti (ANVGD di Udine). Autore principale: Rodolfo Decleva. Altri testi e Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio, Rodolfo Decleva e Sebastiano Pio Zucchiatti. Copertina: Cartolina del Ponte sull’Eneo tra Fiume e Sussak/Sussa, anni ‘40; Collezione Aldo Tardivelli. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia, 29 – I piano, c/o ACLI – 33100 Udine; orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Memorial Aldo Tardivelli, esuli scaraventati nei Campi profughi

Aldo Tardivelli, nato a Fiume il 20 settembre 1925, è deceduto a Genova il 19 novembre 2020 a causa del Corona virus. Con queste righe vogliamo ricordarlo, per la passione con cui scriveva vari interventi sulla sua città e poi li inviava ai suoi corrispondenti di posta elettronica. Siccome nel suo esodo è passato al Centro smistamento profughi di Udine, per finire al Centro Raccolta profughi (Crp) di Laterina (AR), poi a Genova, ecco le sue parole, a volte pittoresche. Omaggio a un novantacinquenne fiumano! La redazione del blog.

Udine! Centro Smistamento Profughi – Il giorno seguente siamo arrivati nella città di Udine. All’arrivo nel  Centro di Smistamento Profughi le famiglie erano divise: gli uomini ed i ragazzi dormivano separati dalle donne e dai fanciulli; durante il giorno però i mariti raggiungevano le mogli ed i figli nella loro camerata e vi rimanevano tutto il giorno, consumandovi pure i pasti distribuiti da un cuoco obeso, scherzoso e prepotente che ci trattava come se il cibo che ci versava con un mestolo nella gavetta militare fosse di sua proprietà e ce lo concedeva soltanto grazie al suo buon cuore.

Ebbi l’impressione che fummo trattati con sufficienza come appartenenti ad una casta di paria e dipendessimo in tutto soltanto dalla buona grazia di coloro che ci sorvegliavano ed accudivano ai servizi. Non ci sognavamo di reclamare, ma tanto nessuno ci avrebbe dato retta, dovevamo esprimere solo gratitudine e sottomissione, ogni cosa ci doveva andare bene, altrimenti potevamo tornarcene al luogo dal quale eravamo venuti: in Jugoslavia.

Finale Ligure, Natale 2011 – Aldo e la figlia Adriana Tardivelli. Collezione Tardivelli, Genova

Era sera, con un istriano, già lì da qualche giorno, andai a gironzolare nei paraggi dell’edificio che ci ospitava e doveva essere una ex Casa del Fascio o della GIL [Era della GIL]. Mi fecero impressione l’opulenza, le abbaglianti luci con cui erano illuminati i negozi e le vetrine stracolme di ogni ben di dio. Ci soffermammo davanti ad una salumeria e rimasi incantato davanti all’abbondanza e alla varietà dei generi alimentari che vi erano esposti; in vita mia non ricordavo di avere mai visto un simile spettacolo: la dovizia delle merci esposte mi fece pensare che avevamo ben ragione di scappare da Fiume, l’Italia mi appariva il Paradiso della Prosperità (ed eravamo appena nel 1948) rimpiangevo che la mia Graziella non fosse con me, la porterò per prima cosa davanti a questa vetrina di salumiere per farla stupire.

Seguii il mio accompagnatore nel negozio; che profumo sconosciuto di leccornie prelibate c’era lì dentro, mi sembrava di sognare. Si vedeva da lontano un miglio che eravamo dei profughi per il vestito dimesso e l’aria spaesata. Ritornammo commentando alle nostre brande, aprii a metà le rosette, ci misi dentro la mortadella anche per Graziella, mi leccai le dita unte e sentimmo per la prima volta il sapore dell’Italia: buono, appetitoso, invitante, gustoso, indimenticabile.

Per noi che volessimo rimanere nella Nostra Italia si sarebbe presentato e iniziato un vero dramma. Fummo convocati nell’ufficio da quelli che gestivano questo traffico umano sperando che ci mandassero in qualche Campo Profughi vicino alla città di Genova. Insistemmo e supplicammo a calde lacrime affinché la nostra destinazione fosse la Liguria, poiché nella città di Genova (come avevamo ripetutamente spiegato), risiedevano diversi parenti di mio padre che avrebbero potuto darci degli aiuti sicuri. Pensavamo sinceramente che avrebbero tenuto conto delle nostre suppliche, ma non vollero sentire ragioni, furono irremovibili, ci trattarono come ‘stranieri’ e ci spedirono… in un paesino al centro della Bella terra di Toscana – Laterina, Arezzo, distante 320 km. da Genova.

Aldo Tardivelli e Graziella Superina. Anniversario delle Nozze d’oro, 1997

Al Crp di Laterina – Mi caddero le braccia davanti a tale mentalità burocratica, ma dovemmo sottostare, altrimenti non avremmo avuto dove alloggiare e ricevere un po’ di cibo; in tasca avevo i pochissimi soldi che mi avevano dato: poche decine di ‘AmLire’ che avevo stabilito di non spendere ulteriormente, dopo essermi tolto la voglia della mortadella, se non per motivi gravi. Fummo muniti di biglietto ferroviario speciale riservato ai profughi e di un ‘foglio di via’ munito del quale potevo entrare nel Campo Profughi di Laterina con l’obbligo di presentarmi entro tre giorni dal nostro arrivo alla Questura dalla quale dovevamo essere registrati.

Un tale che s’aggirava per il Campo Profughi di Udine mi soffiò all’orecchio che ci avrebbero preso le impronte digitali: e fu proprio così, andavamo proprio bene; in Italia ci prendevano per individui poco raccomandabili e ci stavano schedando. Non ne fui risentito, ormai ero abituato a subire ogni sorta di vessazioni morali, una più una meno non mi facevano né caldo né freddo, alla peggiore delle ipotesi dall’Italia ce ne saremmo andati altrove a casa del diavolo, l’importante era essere usciti dalla Jugoslavia di Tito, peggio di lì non saremmo stati da nessuna parte!

Durante il viaggio, infatti, avevo scambiato alcuni discorsi con i viaggiatori che mi facevano delle domande strane sul mio stato, ma ebbi l’impressione che molti non comprendessero il motivo per cui ce ne stavamo andando da Fiume, dove c’era Tito, a loro dire, un benefattore del popolo e nemico dei fascisti: almeno fosse venuto pure in Italia! Qualcuno, senza mezzi termini, espresse il pensiero che da Fiume ci cacciavano perché eravamo fascisti e lì ormai comandava il popolo. Ma tutti noi avevamo poco da stare allegri, il Comunismo sarebbe presto giunto a liberare anche l’Italia. Ero disorientato, non capivano nulla questi italiani! Per noi derelitti che più di tutti avevamo pagato il prezzo della sconfitta ed avevamo cercato rifugio nel grembo della Madre Patria, questa ci stava trattando da perfida matrigna, quali ospiti indesiderati.

Col passare degli anni ho visto che l’Italia ha relegato i suoi figli più sfortunati, quelli che presso di lei hanno cercato rifugio ed hanno pagato per tutti lo scotto della sconfitta, in modo disumano e vergognoso. Io vorrei chiedere a quei signori, nostri connazionali e, ahimè, anche concittadini che dissertano sulla ‘scelta giusta’ di coloro che hanno scelto la via dell’esilio e quelli che invece non se ne sono andati dalla Nostra Terra, di coloro che dicono di condividere o non condividere la scelta che la Nostra Gente ha fatto, se avessero il coraggio di provare quelle esperienze almeno per un giorno solo.

A questo stato ci aveva condotto l’Esodo dalla nostra Terra Natia, al termine della guerra. Non c’è stata per noi Esuli la Liberazione, non abbiamo nulla da festeggiare noi perché non l’abbiamo vissuta, ne siamo stati defraudati. Noi siamo passati da un’oppressione ad un’altra oppressione e da questa ad un totale smarrimento della nostra identità. Questo fu solo l’inizio dell’avventura italiana che scaraventò gli esuli nei Campi Profughi. Uno scenario spoglio di vita nei campi governati da dirigenti ladri che gli amministravano. Nei fatti non ci furono atti di protesta, ma di rassegnazione e sconforto per quanto stava accadendo, mentre le vie dell’infelicità erano già state percorse tutte!

 Tutti fummo sgomenti nel vedere la nostra nuova dimora – ha scritto Aldo – Un vero e proprio campo di concentramento che dopo lo sgombero degli ultimi reclusi aveva cambiato solo nome. Ambienti freddi e umidi. Dove malandate coperte appese ai fili nascondevano pudicamente l’intimità. Appena giunti a destinazione fummo circondati da centinaia di persone che provenivano dalla terra Istriana e che per tornare ad essere cittadini italiani, per rimanere fedeli alla cultura italiana e alla sua gente, avevano abbandonato tutto. Ma il resto del paese non aveva compreso il motivo per cui avevamo lasciato le nostre città”.

Un contributo importante per l’integrazione dei profughi all’interno della comunità lo ha fornito anche la chiesa di Laterina, in particolare don Bruno Bernini, complice in prima persona della realizzazione di una scuola pubblica nel territorio.  Quando venne effettuato un corso per muratori e carpentieri, il parroco propose, sulla base di un contributo statale, una sorta di esperienza pratica da far fare agli apprendisti: è nata così la scuola elementare di Casanova.

Fiume, Corso e Torre civica; collez. Tardivelli, Genova

Fonte orale e digitale – Aldo Tardivelli (Fiume, 20 settembre 1925 – Genova, 19 novembre 2020), int. telefonica e per e-mail nel periodo 20-24 gennaio 2017, con la collaborazione di Claudio Ausilio, dell’ANVGD di Arezzo.

Cenni bibliografici, del web e collezioni private

Genny Pasquino, I ricordi e le testimonianze dei profughi istriani, accolti da un filo spinato, on line su http://www.valdarnopost.it dall’8.2.2012.

Aldo Tardivelli, Un filo spinato… non ancora rimosso, testo videoscritto in Word, s.d. [ma: post 2004?], p. 1-7, Collez. Varutti.

Aldo Tardivelli, …, «La Voce di Fiume», dicembre 2015.

A. Tardivelli, Era un tempo di guerra, 1944 – 1945. Bombardieri anglo americani sulla città di Fiume, dattiloscritto in formato Word, 30 giugno 2018, Collez. Varutti.

E. Varutti, Esodo disgraziato dei Tardivelli, da Fiume a Laterina 1948, pubblicato su eliovarutti.blogspot.com  il 22 gennaio 2017.

Progetto di Claudio Ausilio. Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e Elio Varutti. Collezione famiglia Tardivelli, Genova. Copertina: cartolina di Fiume. Lettore: Claudio Ausilio. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine, – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Esuli d’Istria, Fiume e Dalmazia si associano in Friuli col presidente Conighi, 1946-1954

Quando nasce l’ANVGD a Udine? E come si chiamava? Col presente articolo si cercherà di dare una risposta all’alba dell’associazionismo giuliano dalmata in Friuli dopo la Seconda guerra mondiale. È interessante capire come gli esuli d’Istria, Fiume e Dalmazia si associano in Friuli per ricevere aiuto, per darsi coraggio e per rivendicare i propri diritti verso l’Italia matrigna, dopo la fuga e l’abbandono delle terre degli avi a causa delle prevaricazioni e delle violenze titine.

La prima notizia riguardo all’associazionismo dei profughi giuliano dalmati a Udine è del 16 gennaio 1946. In una lettera scritta dalla zona di Trieste a Renato Vittadini, prefetto di Udine, il partigiano col nome di battaglia Furio menziona il “Comitato Esuli Istriani Dalmati e Fiumani”. In particolare il capo partigiano scrive riguardo al “nulla osta e appoggio alla costituzione” di detto Comitato. Ho reperito tale dato presso l’Archivio di Stato di Udine (ASUd), Prefettura, b 55, f 190, ms. Nulla osta significa che: niente osteggia. È solo una presa d’atto. Non altro, come invece si deduce dal pur interessante sito web, in lingua croata, sulla figura di Carlo Leopoldo Conighi a cura di Nenad Labus.

Sussidio a Corinna De Cecco firmato da Conighi, 1947; Aanvgd b B, Contributi

Il prefetto di Udine Vittadini si attiva sul tema dei profughi perché il 6 gennaio 1946 viene istituito, con decreto ministeriale, l’Ufficio della Venezia Giulia, alle dipendenze del Ministero dell’Interno. Esso ha il fine di “promuovere, coordinare e vigilare le iniziative in favore dei connazionali profughi della regione giuliana”, come scrive la Colummi (a pag. 309), utilizzando le fonti dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma e alcune note del prefetto Micali.

Sul giornale «Libertà» che esce a Udine, sotto il controllo angloamericano e del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), il 10 maggio 1946 si legge una notizia circa la “Sezione di Udine del Comitato Alta Italia per la Venezia Giulia e Zara”. In sigla è il CAIVGZ. Il neonato organismo dell’associazionismo giuliano dalmata informa che c’è “l’esonero del pagamento delle tasse scolastiche per gli studenti medi giuliani che abbiano dovuto abbandonare la propria residenza per gli eventi bellici” secondo una nota del Ministero della Pubblica Istruzione, in base ad un provvedimento del Consiglio dei Ministri. Si sa, inoltre, che la sezione di Udine del Comitato Alta Italia per la Venezia Giulia e Zara ha sede in Via Liruti n. 12, con orario dalle ore 9 alle 12,30 e dalle 14,30 alle 17,30.

Domenica 23 giugno 1946, come si legge sulla stampa locale («Libertà» del 21 giugno 1946 e «Messaggero Veneto» del 25 giugno 1946) si celebra a Udine la “Giornata della solidarietà istriana”. L’evento è volto a “raccogliere fondi per l’assistenza a favore dei profughi istriani residenti nella provincia e per ricordare alle genti del Friuli questi nostri fratelli costretti a vivere in esilio nella loro stessa Patria per non sottostare ad un regime straniero tanto inviso”. L’ente organizzatore è la sezione di Udine del Comitato Alta Italia per la Venezia Giulia e Zara (CAIVGZ) che, nel frattempo, ha cambiato sede dato che si trova “in Via Belloni 12, telefono 233”. Finora si sa poco di tale organismo, che poco dopo cambierà nome.

L’attentato di Vergarolla del 18 agosto 1946, secondo alcuni esuli cambia tutto, implementando la paura e il desiderio di fuga dagli iugoslavi che volevano farla da padroni. Vergarolla è un’amena spiaggia, vicino a Pola, che nel dopo guerra funge da deposito di materiale bellico, evidentemente messo in sicurezza. Pola in quei frangenti appartiene ancora all’Italia, pur essendo controllata militarmente dagli angloamericani. Accade che, quando la spiaggia della città portuale istriana è affollata per la popolare manifestazione di nuoto della società “Pietas Julia”, ci sia lo scoppio del grosso arsenale di esplosivo, con l’uccisione di oltre 80 persone, tutti italiani, in maggioranza donne, madri di famiglia e bambini. Certe fonti attribuiscono l’attentato ad elementi dei servizi segreti titini. Tutti percepiscono subito quale fosse stata la matrice del delitto di Vergarolla nell’intento di spingere all’esodo coloro che non si erano ancora rassegnati: ebbene, nel 2006, l’apertura degli archivi inglesi di Kew Gardens (Foreign Office) ha confermato che la strage fu opera dell’OZNA, la polizia politica jugoslava, ed ha affidato i nomi di cinque responsabili alla storia. Su tali fatti ha scritto Carlo Cesare Montani, esule da Fiume.

Si occupa degli esuli a Udine pure il giornale di Trieste «La Voce Libera» che nella pagina della “Cronaca del Friuli”, del 14 ottobre 1946, riporta la notizia della indizione della “Settimana del profugo” nel capoluogo friulano. L’organizzazione è del Comitato profughi istriani, fiumani e dalmati per una “umana e fraterna solidarietà”.

Opzione di Zuccheri Lorenzo, pag. 2, 1948; Aanvgd, b F, Qualifiche

Tutti i Conighi via da Fiume – L’esodo da Fiume coinvolge anche il gruppo delle famiglie dei costruttori Conighi. Va a Trento il comandante dei vigili del fuoco Giorgio Conighi, che prima era già stato trasferito a Trieste. A Roma, passando per Venezia, vanno Ferruccio Conighi, suo zio Cesare Augusto Conighi e le famiglie rispettive. Alcuni gruppi di loro parenti vanno esuli a Firenze, Norimberga, Klagenfurt e in Svizzera, mentre certi cari amici di casa riparano a Bolzano. Una parte dei Conighi va esule a Udine, essendosi trasferito lì l’architetto Carlo Leopoldo Conighi, dipendente delle ferrovie. “I era andadi a Udine – ha detto Miranda Brussich – la zia Maria Regina Conighi, zia Helga, mia suocera Amalia Rassmann Conighi, mio suocero l’architetto Carlo Conighi e ‘l nono bis, che iera l’ingegnere Carlo Alessandro Conighi, perché la zia Maria la iera amica della signorina Giordani, alieva de l’Educandado Uccellis de Udine. Lori i ghe ga dà casa in afito de Via Volontari de la Libertà. Una stanza per ‘l nono bis e zia Maria e le altre done in sofita con Carlo Conighi l’architeto”. La signora Miranda, sposata nel 1942 con Carlo Enrico Conighi (Fiume 1914 – Ferrara 1995) col figlio Carlo Cristiano (Fiume 1943 – Ferrara 2010), sono profughi a Trieste, poi a Belluno, spostatisi poi per lavoro a Forlì, Modena e Ferrara. I Conighi riparati in casa Giordani a Udine stanno in quella soffitta fino al 1958, poi vanno in un alloggio in affitto in via del Gelso. “La casa di viale Volontari della Libertà è stata costruita da mio nonno Italico Giordani, che era costruttore a Fiume e in Friuli, agli inizi del Novecento – ha detto Carla Giordani, socia ANVGD – ricordo che da bambina giocavo col piccolo Carlo Conighi, quasi mio coetaneo e c’erano i suoi familiari”. I Conighi riescono a traslocare parte delle loro masserizie in treno da Fiume a Udine, poi dalla stazione ferroviaria verso casa Giordani con la ditta di Sabino Leskovic di Udine, che utilizza “carri, cavalli e uomini”, come si legge nella Nota spese del 17 settembre 1946, regolarmente quietanzata (Collezione famiglia Conighi).

Il primo presidente – Secondo quanto riferito da Giuseppe Bugatto, esule da Zara, negli anni 1946-1947, il presidente dell’associazionismo giuliano dalmata a Udine è un tale Sbisà, coadiuvato da don Luciano Manzin. Un dirigente dell’organismo degli esuli a Udine è senz’altro Tevere Sbisà, detto Testi. Si legge ne «L’Arena di Pola» del 30 marzo 1965: “Infatti dopo l’esodo dall’Istria il caro amico Tevere Sbisà, padre di Gianfranco, visse qualche anno a Udine dove fu anche segretario del Comitato giuliano-dalmata. Quindi, di fronte alle difficoltà che in quel momento rendevano impossibile una sistemazione adeguata, la famiglia Sbisà accettò l’offerta di trasferirsi in Australia”.

Attestazione di profugo di Volghieri Emilio; Aanvgd, b F, Qualifiche, 1949

Nel 1947 è presidente Carlo Leopoldo Conighi; ciò in base alla tessera n. 1.096 del Comitato Nazionale per la Venezia Giulia e Zara (CNVGZ), sede di Udine, rilasciata il 2 giugno 1947 e intestata al maestro Renato Lupetich, di Fiume, che è dichiarato “profugo giuliano” (Collezione privata, Belluno). Una ulteriore conferma della sua presidenza si ha dalla concessione di un sussidio di lire 1.600 all’esule Corinna De Cecco, proveniente dall’Istria, residente a Udine con quattro persone a carico. La De Cecco fa domanda nel mese di giugno 1947 e l’ordine di pagamento n. 3.018, del successivo 3 settembre, è firmato da Carlo Conighi, presidente della Sezione di Udine del Comitato Alta Italia per la Venezia Giulia e Zara (CAIVGZ); cfr.: Archivio dell’ANVGD di Udine, d’ora in poi: Aanvgd, busta B, Contributi, 1947. Ciò significa che c’erano a Udine, nel 1947, oltre 3.000 profughi che avevano già ottenuto un sussidio monetario dal CAIVGZ, presieduto dall’architetto Carlo Conighi. C’è infine la tessera del CNVGZ n. 494, del 20 dicembre 1947, sezione regionale di Udine, firmata dal Conighi e intestata all’insegnante Maria Zonta di Parenzo, esule a Udine, dichiarata profuga il 14 settembre 1948.

Il 23 marzo 1948 è la data della tessera di socio del Comitato Nazionale per la Venezia Giulia e Zara (CNVGZ), sede regionale di Udine della signora Maria Regina Conighi, nata a Trieste nel 1881 ed esule da Fiume. La tessera è firmata dall’architetto Carlo Leopoldo Conighi, fratello di Maria Regina (Collezione Helga Conighi, Udine).

Don Manzin è presidente regionale del Comitato Nazionale per la Venezia Giulia e Zara (CNVGZ), come risulta da «L’Arena di Pola» del 16 giugno 1948. Il giornale istriano riporta le attività del 1947 dell’organismo dei profughi a Udine, che comprendeva anche la zona di Pordenone. La struttura a Udine ha messo piede, tanto da riuscire ad organizzare il raduno dei Comitati Triveneti del CNVGZ. La medesima testata riferisce che per Udine sono intervenuti “il reverendo professor Manzin, il sig. Conighi, il conte Fanfogna e il sig. Antonio Premate”.

Secondo Mario de Vidovich a Roma il 20 giugno 1948 ottanta comitati provinciali di esuli giuliano dalmati danno vita all’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), primo presidente è Alfonso Orlini, di Cherso, ma a Udine la sigla CAIVGZ permane per un po’ di tempo, come si può vedere dalla bolletta della luce del 1951 (Coll. famiglia Conighi). È del 13 settembre 1948 la Dichiarazione di opzione per la cittadinanza italiana di tale Lorenzo Zuccheri, nato a Dignano d’Istria nel 1893 ed ivi residente in piazza Italia n. 1.080, redatta presso il Comune di Udine, con legalizzazione prefettizia della stessa data. L’incartamento è diretto al Consolato Generale della Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia in Milano. Lo Zuccheri pone il suo domicilio “presso Delton in via Trieste a Udine”. Curioso che nella postilla A della medesima pratica sia previsto addirittura che fosse emesso un “Certificato del Comitato Popolare di… attestante che la mia lingua d’uso è l’italiana”. Come a dire italiani (pur titini) dichiarano di cacciare via altri italiani da terre italiane, dato che la lingua d’uso è quella italiana (Aanvgd, b. F, Qualifiche, 1948).

Il 5 luglio 1949 il prefetto di Udine, in base al D.L. 3 settembre 1947, n. 885, riconosce “la qualifica di profugo” al signor Emilio Volghieri, nato a Pola nel 1920, di professione autista. Nel documento rilasciato dal Comune di San Giorgio di Nogaro a firma di Giuseppe Garzoni, segretario comunale, il prefetto precisa di aver “sentito il Comitato Provinciale della V.G. e Zara”. I familiari a carico del Volghieri sono Ester Gorlato, la moglie e le figlie Luciana e Paola Volghieri (Aanvgd, b. F, Qualifiche, 1949). In base alla normativa vigente  l’associazionismo giuliano dalmata deve essere tenuto, dunque, in grande considerazione dall’autorità prefettizia e dalle amministrazioni comunali della provincia di Udine.

Scheda elettorale Consiglio Direttivo Anvgd di Udine, 1950; Aanvgd, b D, Cariche sociali verbali

ANVGD divisa in 4 Leghe – In occasione dell’assemblea ordinaria tenutasi in sala Brosadola a Udine per il rinnovo delle cariche sociali si sa dal «Messaggero Veneto» del 6 agosto 1950 che il presidente dell’ANVGD è il conte Giovanni de Fanfogna; il vice presidente risulta Carlo Conighi. La sede dell’associazione è in piazza Marconi, 7. Di detta assemblea c’è la scheda elettorale, che evidenzia come il sodalizio a Udine fosse suddiviso in base alle provenienze dell’esodo, perciò l’ANVGD di Udine è composta da 4 Leghe: Fiumana, Istriana, Dalmata e Triestina-Goriziana. I candidati sono Carlo Conighi, erroneamente definito “ing.” e Enrico Persi (Lega Fiumana), don Luciano Manzin e Argeo Benussi (Lega Istriana), Giovanni de Fanfogna e Walter Tudorov (Lega Dalmata), Antonio Premate e Marcello De Angeli (Lega Triestina-Goriziana). Cfr.: Aanvgd, busta D, Cariche sociali, verbali, 1950. Ciò conferma che pure Trieste e Gorizia, in quegli anni, fossero considerate terre d’esodo, data la loro instabilità politico istituzionale, i vari sconfinamenti, i sabotaggi e il pullulare di spie di ogni sorta. Gorizia era divisa dal confine con quella parte di città che gli slavi si annettono e chiamano Nova Gorica, mentre Trieste era sotto amministrazione angloamericana nel Territorio Libero di Trieste (TLT) fino al 1954, quando c’è la riannessione all’Italia. Nel 1951 è presidente dell’ANVGD di Udine l’architetto Carlo Conighi, mentre il vice presidente è Antonio Calvi.

Poi ci sono le tensioni politico militari del 1953-1954 fra Italia e Jugoslavia. “Mi ricordo che a Gorizia verso 1953 il confine era molto vicino alla mia scuola e i militari iugoslavi armati e coi capelli lunghi arruffati venivano a farci paura, gridando come matti dietro la recinzione confinaria – ha raccontato Ines Leonardi – noi ragazze eravamo allieve della scuola magistrale agazziana delle suore Orsoline e quel giardino vicino agli arbusti non lo potevano proprio sopportare, visto che quelli, passando sotto il filo spinato, ci inseguivano urlando coi mitra”. Un’altra fonte ricorda che: “In quel momento di crisi politica internazionale c’era tanta paura in famiglia – ha aggiunto Carmen Burelli – se ricordo bene le suore Orsoline di Gorizia ci fecero stare a casa per alcuni giorni, solo alcune delle studentesse si avvicinavano a quel giardino da dove sbucavano gli iugoslavi, ma noi, mai”.

Come si legge su «Difesa Adriatica» del 7 febbraio 1954 il presidente del sodalizio udinese dei profughi è ancora Carlo Conighi. Il 9 gennaio 1954 e nei giorni seguenti l’ANVGD di Udine consegna vari sussidi ai profughi che ne avevano fatto richiesta. È il caso di Sagrestano Vincenzo che firma una ricevuta di lire 500 (Collez. Conighi). Il 23 gennaio successivo un tragico lutto investe il Conighi, che perde l’amata consorte, Amalia Rassmann, tedesca di origine boema, come si vede a p. 2 su «Difesa Adriatica» del mese di febbraio 1954.

Bolletta della luce per il CAIVGZ di Udine, 1951. Collez. fam. Conighi.

Le dimissioni di Conighi – In seguito, sono convocati in assemblea per il rinnovo delle cariche sociali i 187 soci dell’ANVGD di Udine alla data del 25 luglio 1954. La riunione è piuttosto effervescente riguardo alle candidature per il Consiglio direttivo, considerato che nel 1953 i soci erano meno di cento, mentre in seguito raddoppiano in pochi mesi. Succede che certi fiumani, nelle votazioni per il Consiglio direttivo, preferiscono un triestino al fiumano Conighi il quale, sentendosi risentito da tale gesto, rassegna le sue dimissioni il 30 luglio 1954 al Comitato elettorale. Il presidente dello stesso Comitato elettorale, Guido de Randich, ha firmato il verbale delle votazioni per il Consiglio direttivo, da cui emerge che sono eletti: Borri Carlo, Bratti Attilio, Cremonesi Arduino, De Angeli Marcello, Gecele Augusto, Marini Marino, Premate Antonio, Scaglia Livio e Terdossi Claudio.

Passano un po’ di settimane, durante le quali, con contatti verbali probabilmente si cerca di rimediare alle dimissioni. Allora Aldo Clemente, presidente dell’Opera per l’Assistenza ai profughi giuliani e dalmati, da Roma il 24 agosto 1954, scrive al Conighi, manifestandogli il suo “sincero rincrescimento per il suo ritiro dall’Esecutivo del Comitato Provinciale di Udine, dopo lunghi anni di proficuo lavoro a favore dei Profughi Giuliani e Dalmati”. Il 15 settembre successivo Marcello De Angeli, presidente dell’ANVGD di Udine fresco di nomina, scrive al Conighi, accettando le sue dimissioni e nominandolo “presidente onorario”, con la sua firma assieme a quella del segretario Arduino Cremonesi e dei vicepresidenti Marino Marini e Claudio Terdossi. Pace sembra fatta. Il 21 settembre 1954, infatti, Carlo Conighi, nella sua veste di presidente onorario dell’ANVGD di Udine, scrive a padre Flaminio Rocchi, alla segreteria nazionale dell’ANVGD di Roma per perorare la causa del socio Alcido Innocente, macellaio, riguardo al rimborso per i beni abbandonati. “Per l’Alcido – spiega Conighi – il risarcimento di questi suoi beni, può significare la sua salvezza fisica versando egli in condizioni salutari veramente pietose e in continuo peggioramento” (Lettera di C. Conighi a padre Rocchi, Udine 21 settembre 1954, Collez. Conighi).

Lettera di Aldo Clemente a Carlo Leopoldo Conighi; Collez. fam. Conighi

Nota riguardo alla copertina – Una osmiza, o osmizza (in sloveno osmica), è un negozio tipico dell’altopiano del Carso, tra Italia e Slovenia, dove si vendono e si consumano vini e prodotti locali (quali uova, prosciutti, salami e formaggi) direttamente nelle stanze e nelle cantine dei contadini produttori. Tali negozi sono poi definiti agriturismi, con possibilità di ospitalità. Una vecchia zia triestina, senza malizie ma solo con intenti identitari, negli anni ’40 diceva: “Se magna e se bevi assai ben ne le osmizze, pecà che xe tutti s’ciavi, anche i gatti”. Con la parola “s’ciavo”, in dialetto istro-veneto si intende “schiavo”, nel senso di “slavo, croato”. Deriva dal latino volgare “sclavus”, ossia “slavo”. I veneziani chiamavano “S’ciavoni” o “Schiavoni” i marinai slavi della flotta della Serenissima e pure gli abitanti slavi delle isole e della Dalmazia, senza attribuire al termine l’accezione vagamente spregiativa, che ha assunto invece a Trieste, con la guerra fredda: “s’ciavo = schiavo, sottomesso, o iugoslavo titino”.

Fonti orali e ringraziamenti – Si ringraziano e si ricordano le persone seguenti che hanno collaborato alla ricerca con l’intervista (int.) condotta a Udine da Elio Varutti con taccuino, penna e macchina fotografica, se non altrimenti indicato. Grazie a Fausto Deganutti per l’immagine di copertina dell’articolo presente e a Daniela Conighi per i vari aiuti nelle biografie.

1) Miranda Brussich, vedova Conighi (Pola 1919 – Ferrara 2013), int. a Ferrara tra il 17 agosto 2003 e il 21 agosto 2013, alla presenza della figlia Daniela Conighi.  2) Giuseppe Bugatto Junior (Zara 1924 – Udine 2014), int. del giorno 11 febbraio 2004, in presenza di Giuseppe Marsich, italiano all’estero (Veglia 1928 – Udine 2019) e di Rita Bugatto in Marsich, Zara 1928.  3) Carmen Burelli, Udine 1936, int del 4 novembre 2020.  4) Carla Giordani, Udine 1942, int. del 2 novembre 2020. – Ines Leonardi (Udine 1934 – Roma 2014), int. del 6 luglio 2012.  5) Giovanni Lupetich, Udine 1953, residente a Belluno, int. telef. del 10-14 giugno, 7 agosto 2016, oltre all’int. del 1° settembre 2016, con sua figlia Marianne Lupetich.

Lettera di Carlo L. Conighi a padre Rocchi, 1954; collez. fam. Conighi

Archivi, Biblioteche e Istituti di ricerca visitati – Archivio ANVGD di Udine (Aanvgd), Collezione Maria Zonta di Parenzo, tessera CNVGZ n. 494 del 20 dicembre 1947, sezione regionale di Udine. Ordine di pagamento a De Cecco, 1947, b B Contributi e varie altre buste. – Archivio di Stato di Udine (ASUd), Prefettura, b 55, f 190, ms. – Biblioteca Civica “Vincenzo Joppi”, Udine, quotidiani, libri e giornali vari. – Biblioteca dell’ANVGD di Udine, Vicolo Sillio, 5, libri sull’esodo. – Biblioteca Statale Isontina, Gorizia, «L’Arena di Pola», annate varie. – Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine, quotidiano «Libertà», 1946.

Collezioni private – Collezione famiglia Conighi, Ferrara, ora a Udine, bollette, lettere, verbali, nota spese e fotografie.

– Collezione Helga Conighi Orgnani, Udine, tessera ANVGD n. 628, giornale «Difesa Adriatica» 1954 e vari altri cimeli.

– Collezione privata, Belluno, tessera n. 1.096 del CNVGZ, sede di Udine, del 2 giugno 1947 e intestata a Renato Lupetich, di Fiume.

Ricevuta per sussidio a Sagrestano Vincenzo, ANVGD di Udine,1954; Coll. fam. Conighi

Riferimenti bibliografici – Cristiana Colummi, Liliana Ferrari, Gianna Nassisi, Germano Trani, Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione del Friuli Venezia Giulia, 1980.

«Difesa Adriatica», VIII, n. 6-7, febbraio 1954, p. 2.

“Le nozze di Gianfranco e Carol Sbisà a Sydney”, «L’Arena di Pola», n. 1.466, 30 marzo 1965, p.2.

Elio Varutti, Il Campo Profughi di Via Pradamano e l’Associazionismo giuliano dalmata a Udine. Ricerca storico sociologica tra la gente del quartiere e degli adriatici dell’esodo, 1945-2007, Udine, Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Comitato Provinciale di Udine, 2007.

Sitologia – Carlo Cesare Montani, Gloria victis: la strage di Vergarolla. A 70 anni dall’eccidio, il giudizio storico circa la responsabilità jugoslava si coniuga con quello etico, 2017.

– Nenad Labus – SEAS, Biografija. Conighi, Calo Leopoldo, “Formula 1 dizionario – Fiume” (in lingua croata).

– E. Varutti, L’ANVGD di Udine, storia e cifre, on line dal 16 agosto 2017.

Udine 19.11.1961, sala Circolo bancario, conferenza per il Gruppo Giovanile Adriatico dell’avvocato Ruggero Gherbaz, sindaco del Libero Comune di Fiume, a sinistra, presentato dall’architetto Carlo L. Conighi, presidente onorario dell’ANVGD di Udine. Collez. fam. Conighi

Servizio giornalistico diretto da Elio Varutti. Ricerche e Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Copertina: Fausto Deganutti, La strana Osmizza, cm 40 x 50, 1999, courtesy dell’artista. Lettrice: Daniela Conighi. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 (in fase di trasloco) – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

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I diritti e le ortiche. Esuli dai Campi profughi ai Villaggi per rifugiati di Firenze, 1945-2009

L’esodo degli Sklemba di Fiume, nel 1949, segue la tipica trafila degli italiani che esercitavano il diritto d’opzione nelle province invase dagli iugoslavi (Fiume, Pola e Zara). Antonio Sklemba, classe 1892 e sua moglie Giuseppina Zadnik, nata a Fiume nel 1911, sin dal 5 luglio 1949 ottengono il passaporto provvisorio di sola andata n. 19.672 (lui) e n. 19.673 (lei). Per andarsene dalla loro amata città del Quarnaro, tuttavia, aspettano il parto del secondo figlio. Poi quando il passaporto è aggiornato per ambedue i figli (Guglielmo, del 1948 e Giuliano venuto alla luce proprio del 1949), la famiglia intera se ne va. Passano il confine a Sežana il 12 ottobre 1949, nella Zona B del Territorio Libero di Trieste (TLT) posta sotto il controllo dei carri armati iugoslavi. Alcuni tank con la stella rossa sono di fabbricazione USA, forniti ai partigiani nel 1944. Gli Sklemba varcano la linea confinaria della Zona A del TLT, controllata dagli angloamericani fino al 1954. Varcano così la Cortina di ferro, entrando nel mondo libero, come si diceva al tempo della guerra fredda.

Passaporto di Antonio Sklemba di Fiume

Viene affibbiato loro l’appellativo di “Displaced Persons” (rifugiati) il 13 ottobre 1949, al Centro profughi controllato dai militari USA. È il “Displaced Persons Centre A.M.G.” (Centro per rifugiati dell’Allied Military Government, del Governo Militare Alleato. Ii timbro sul passaporto (vedi foto a fianco) è per il solo viaggio di rimpatrio, come recita il modulo stampato del Consolato Italiano di Zagabria, firmato dal cancelliere A. Zaruba. Col treno raggiungono Udine, dove passano al Centro smistamento profughi, diretto dal dott. Roberto Crimì. Era il più grosso d’Italia, come diceva l’ingegnere Silvio Cattalini, esule da Zara e presidente dell’ANVGD di Udine dal 1972 al 2017. Poi gli Sklemba sono destinati al Centro raccolta profughi (Crp) di Brescia, a quello di Bogliaco (BS) per circa 4 anni e mezzo e trasferiti al Crp di Chiari (BS). Arrivano a Firenze il giorno 8 settembre 1954 in via della Scala per due anni fino al novembre 1956, poi in via Nicola di Tolentino, nelle case del Villaggio profughi.

Retro del passaporto di Antonio Sklemba
  1. Perfin ne le Cappelle Medicee, perché no jera posto

“Me ricordo del Campo profughi de Firenze – ha raccontato Miranda Brussich, esule da Fiume – un vecio fabricado vodo e adibido ai profughi; jera i divisori coi cartoni e le sorelle Maria, Giusepina e Clementina Zanetti le xe stade così per qualche anno. I aveva messo profughi italiani de l’Istria perfin ne le Cappelle Medicee, perché no jera posto. Nei primi anni Cinquanta jera tanti profughi a Firenze, mi li gò visti, perché da Forlì, dove con mio marito e i fioi ierimo esuli da Fiume, andavo a trovar le mie zie Zanetti de Pola”. Si precisa che il Campo profughi istriani, fiumani e dalmati a Firenze era presso la ex Manifattura Tabacchi, compresa tra la via Guelfa, via Panicale e via Taddea, nell’area dell’antico Monastero di Sant’Orsola. Il Campo Profughi operò dal 1945 al 1968, quando alla fine accoglieva anche sfrattati o senza tetto. Come Miranda Brussich ha ricordato i cartoni del Campo Profughi fiorentino di Via Guelfa, anche Myriam Andreatini-Sfilli, nel suo Flash di una giovinezza vissuta tra i cartoni, Alcione, 2000, sin dal titolo del libro accenna ai cartoni che fungevano da parete divisoria nel Centro raccolta profughi di Via Guelfa a Firenze, nel vecchio Monastero di Sant’Orsola.

Su «L’Arena di Pola» del 1948 si legge che nel Campo Profughi di Firenze è stata festeggiata la ricorrenza di San Nicolò, per far contenti i bambini. Qualche altra notizia sul Campo Profughi di Firenze mi è giunta dalla signora Marisa Roman, nata a Parenzo nel 1929. “Una mia amica nata a Trieste, che era Chiara Battigelli in Baldasseroni – ha detto Marisa Roman – mi ha parlato del Campo Profughi di Firenze”. Come mai? “La Battigelli conosceva troppo bene Firenze – racconta la Roman – e, saputo che i profughi giuliano dalmati erano stati accolti nei locali della Manifattura Tabacchi, andò a cercare notizie tra piazza Indipendenza e piazza San Lorenzo, trovando solo il figlio del custode di quel luogo”. Quando fu fatta tale ricerca? “Erano gli anni 1990-1995 – è la risposta della Roman – e in Italia c’erano molti profughi dal Kossovo, perché c’erano le guerre balcaniche, allora la domanda al figlio del custode fu del tipo ‘Ci sono stati dei profughi qui alla Manifattura di Firenze?’ e la risposta fu negativa”. La Battigelli non si arrese, e gli parlò degli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, negli anni 1946-1956. “Allora il figlio del custode disse: ‘Ah, gli istriani e fiumani, ma quelli non erano profughi, erano brave persone, erano educati e hanno lasciato tutto pulito”. Mai una risposta così poteva essere più soddisfacente per il mondo degli esuli.

Profughi. Fornello elettrico della famiglia Sklemba

La documentazione conservata presso l’Archivio della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Ufficio Zone di Confine (d’ora in poi PCM, Archivio UZC), studiato da Raoul Pupo – contiene importanti riferimenti al trasferimento dei lavoratori dalla Manifattura Tabacchi di Pola ad altre Manifatture attive sul territorio italiano. Personale che – come si legge in una nota di servizio redatta dal direttore generale dei Monopoli di Stato il 15 gennaio 1947 e inviata al Ministero dell’Interno – sarà trasferito “verso le fabbriche di Firenze, Lucca e Sestri Ponente in forti nuclei, e verso altri opifici in gruppi di piccola entità”. Si tratta – continua il documento – di circa 2.000 unità, delle quali “580 confluiranno a Firenze, 400 a Lucca e 420 a Sestri Ponente”, mentre le altre saranno “inviate in centri minori” (PCM, Archivio UZC).

Non tutti sanno che il Crp di Firenze, situato nell’antico monastero di Sant’Orsola, in Via Guelfa, fu adattato nell’Ottocento a Manifattura Tabacchi. “Siamo venuti via da Pola il 3 marzo 1947 – ha raccontato la signora Liana Di Giorgi Sossi – ero una bambina e ci hanno imbarcato sul piroscafo Toscana e dopo ci hanno sbarcato a Venezia, per collocarci alla Caserma Sanguinetti per una settimana, accuditi dai militari. Anche quello era un Centro raccolta profughi. Potrei dire che alla Manifattura Tabacchi di Pola saranno rimasti due o tre dipendenti, tutti gli altri sono fuggiti oltre il Territorio Libero di Trieste, nel resto d’Italia, come Firenze, Lucca, Genova”.

Poi cosa è accaduto? “Ci hanno inviato in treno fino a Firenze – replica la testimone, nata a Pola nel 1937 – presso la vecchia Manifattura Tabacchi, adattata a Centro raccolta profughi, in Via Guelfa, dove siamo rimasti per cinque anni. È lì che c’erano molte operaie sfollate dipendenti della Manifattura Tabacchi di Pola e trasferite in quella nuova Manifattura Tabacchi di Firenze, che stava alle Cascine e che fu costruita nel 1941”. Com’era la vita al CRP di Via Guelfa a Firenze? “Diciamo che prima di tutto abbiamo subito una certa forma di razzismo – ha spiegato la signora Liana, con un’affascinante pronuncia toscanaccia – da parte di certi fiorentini contro noi profughi, poi ricordo che eravamo tanti ragazzini e si giocava nel cortile. Prima avevamo le pareti fatte con lo spago e le coperte gettate sopra, per avere un po’ di intimità familiare – ha aggiunto – poi i falegnami della nuova Manifattura Tabacchi fiorentina ci hanno costruito con delle assi di legno e dei cartoni, una serie di separé e così ogni famiglia aveva il suo box. Ricordo anche che, mentre stavo al Campo profughi di Via Guelfa, ho fatto la prima comunione nella Chiesa di Santa Reparata: è stato bello. Però noi lì eravamo isolati. Eravamo in Campo profughi e uscivamo solo per andare a scuola oppure a lavorare”.

Dalla stampa di Firenze del 1956; collez. Sklemba
  1. La Relazione Sklemba sui Crp e sul Villaggio giuliano

Per i paragrafi seguenti ci si avvale di una relazione sui Campi profughi e sui Villaggi per esuli sorti a Firenze, scritta da Guglielmo Sklemba nel 2012 con curioso titolo in lingua inglese. “Fino alla prima metà degli anni cinquanta a Firenze città – ha scritto Sklemba – esistevano tre campi profughi: uno in via della Scala (ex caserma del Genio), uno in via Guelfa e l’altro in via della Pergola. Questi centri di accoglienza rappresentavano una detenzione ingiusta e pesante per coloro che erano obbligati a subirla e, nel contempo, costituivano un problema sociale, un insulto e anche un onere per la città d’arte che era costretta a sopportarli e in parte a supportarli”.

In concomitanza con la Legge 137/52, che prevedeva la costruzione a carico dello Stato di alloggi popolari per i profughi, il Comune di Firenze, essendo sindaco Giorgio La Pira, contribuì alla sistemazione degli esuli, mettendo a disposizione un terreno ai margini della città, in località Le Gore a Rifredi. Nel triennio 1954-’56 su quest’area vennero realizzati dodici fabbricati per un totale di 282 appartamenti che furono assegnati per due terzi ai profughi giuliano dalmati e per un terzo a quelli provenienti dalla Grecia ed altre zone. La gestione venne affidata all’IACP.

Gli appartamenti, alcuni corredati di terrazza, ma tutti sprovvisti di cantina, riscaldamento e bidet, erano compresi tra 43 e 49 metri quadrati, e solo 12 di essi raggiungevano i 70 mq. “Quello di chi scrive – ha aggiunto Sklemba – misurava 49 mq oltre la terrazza. Nel 1956 ospitava il papà, la mamma e tre fratellini, due maschi e una femmina. Questa situazione era più o meno uguale per tutte le altre famiglie”. Il Villaggio profughi, realizzato dall’Impresa Pontello in subappalto all’insegna della massima economicità, era privo di strade, costruite in seguito e delle opere di urbanizzazione, realizzate addirittura solo agli inizi del 2000.

Firenze, le case per i profughi in via Nicola da Tolentino

Per i profughi queste case novelle rappresentavano l’inizio di una nuova vita. Era finita l’epoca delle caserme dimesse. Erano cessati gli orrori della coabitazione in ex-conventi, dove i divisori che separavano le diverse famiglie erano cartoni o coperte. Dopo sette anni di campi profughi si tornava finalmente sotto un tetto, tra pareti fatte di mattoni. Era terminato il grigio inverno e poteva iniziare la bella stagione di diritti acquisiti, ma dietro l’angolo troveranno le ortiche.

“Fin dall’inizio i profughi giuliani vennero etichettati come ‘fascisti’ – ha spiegato Sklemba – mentre quelli greci erano più semplicemente dei  ‘contrabbandieri’. L’atteggiamento da parte della dirigenza dell’IACP nei confronti dei profughi assegnatari è stato negativo, a giudizio della gente. Nel 1959 ci furono le prime aperture per la cessione in proprietà degli alloggi, in quanto la L. 137/52 non ne contemplava la vendita. Tre anni dopo arrivava finalmente la Legge 231/62, che in modo chiaro e organico regolamentava queste cessioni a prezzi di particolare favore, ma tale legislazione non fu nota a tutti.

  1. Esuli a Firenze dagli anni ’60 al nuovo millennio

Nel 1965 solo un quinto dei profughi assegnatari, presentò al Demanio le domande entro i termini con l’appoggio di un Comitato, che contattò poche famiglie. Nel 1972 essi riuscirono a stipulare l’atto di acquisto provocando una frattura all’interno del villaggio.

In seguito all’entrata in vigore della Legge 513/77 l’ATER modificò i canoni di locazione in spregio alla L. 137/52, che invece regolava questo particolare tipo di alloggi. La popolazione in rivolta si riunì in un altro Comitato, tutelando dei propri diritti. Fu  incaricato un legale e vinse due cause consecutive: sentenza del Giudice Conciliatore n. 78 del 25/03/80 e sentenza del Pretore n. 1226 del 23/05/81. L’ATER, tuttavia, continuò ad inviare dei bollettini aumentati; ciò avvenne dopo aver perduto il ricorso in Cassazione: sentenza n. 419 del 09/04/88. Nel frattempo altre 35 famiglie acquistarono dal Demanio l’alloggio ai sensi della L. 513/77, legge che però con i profughi non ci azzeccava proprio per nulla, ha commentato Sklemba.

Nel 1991 sorge l’Associazione Regionale Toscana Profughi Italiani. Costituita da elementi assai diversi tra loro, persegue il medesimo obbiettivo: l’acquisto dal Demanio dello Stato dell’alloggio assegnato al nucleo familiare. In seguito alla emanazione della L. 560/93, il cui comma 24 riprendeva quanto già previsto ampiamente dalla L. 231/62, per prudenza già nella prima metà del 1994 tutti i profughi inquilini avevano presentato le domande di acquisto che scadevano il 15/01/1995. Il clima era frenetico perché i contratti sembravano imminenti e per stipularli bisognava essere in regola con i pagamenti dei canoni scaduti. Per quieto vivere molta gente aveva accettato l’azione dell’ATER, in modo da essere più tranquilla senza che sorgessero problemi interpretativi di sorta in fase di acquisto.

Nel 1995 l’Ufficio Patrimonio Abitativo ha dato il via nel villaggio all’atto di forza di “requisizione immediata di alloggi di proprietà ATER e temporanea assegnazione” a nuclei non profughi. Con tale blitz circa 80 appartamenti sono passati in proprietà comunale, mentre morivano i profughi anziani.

Da geometra professionista Sklemba, nel 1996, aveva fornito al Demanio una planimetria con il piano tipo completo di tutto il villaggio e il costo di ogni alloggio calcolato sulla base della gara di appalto, aggiudicata da Pontello. Sembrava fatta. Invece c’erano altri problemi burocratici.

“Dopo un anno di insistenze fatte a titolo personale ogni volta che andavo in Catasto – ha aggiunto Sklemba nel suo memoriale – e anche in modo ufficiale attraverso l’Associazione Regionale Toscana Profughi Italiani della quale per lungo tempo sono stato il vice presidente e la penna storica, finalmente nel maggio 1997 il Demanio si decideva ad inviare il prezzo di acquisto ai vari assegnatari”. Nella comunicazione veniva specificato che il contratto si sarebbe effettuato solo dopo che il Comune avesse trasferito al Demanio la proprietà del terreno. Mancava il completamento degli interventi urbanistici.

In questo frangente l’Associazione Profughi Italiani tempestava di lettere tutte le parti che potevano avere voce in capitolo, dal sindaco Primicerio al Prefetto, dal Demanio al Parlamento Europeo, dal Direttore del Comune di Firenze alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dalla Direzione Centrale del Demanio alla Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. Tutti, ad esclusione del sindaco, hanno sempre risposto. Infine è stato scritto direttamente all’Ufficio Legale del Comune. In luogo di una generica risposta è arrivata all’Associazione la comunicazione delle due delibere di cessione dei terreni sia di via Nicola da Tolentino che di via Magellano.

Firenze, Villaggio profughi, il degrado di qualche casa nei primi anni 2000; collez. Sklemba

“L’Associazione Profughi Italiani, sulla scorta di alcune informazioni assunte presso il Demanio e con l’aiuto di persone dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia – ha aggiunto Sklemba – ha predisposto e compilato velocemente oltre 180 specifici modelli con i dati relativi agli associati e tutti i profughi si sono precipitati a versare il prezzo richiesto presso la Filiale della Banca d’Italia” era il 1998. A quel punto il Comune, pressato dal Demanio, ha dovuto cedere intanto il terreno di via Magellano con atto stipulato il 15/12/1998. La nota di maggior rilievo del 2000 consiste nel definitivo atto di cessione del terreno di via Nicola da Tolentino al Demanio.

Nel 2001-2003 c’è stato il raggiungimento dell’obiettivo, dopo faticose battaglie: gran parte dei profughi ebbero la casa. Di fatto c’è stata la cessazione dell’attività dell’Associazione Regionale Toscana Profughi Italiani e la sparizione di tutti i suoi soci. Verso il 2009, tuttavia, il Comune è riuscito a farsi dare dal Demanio dello Stato gli ultimi 79 alloggi rimasti, impedendo ai profughi, o ai loro congiunti, di partecipare ai relativi bandi di assegnazione in edifici pur bisognosi di straordinaria manutenzione.

Documenti originali – Guglielmo Sklemba, Julian & Greek Tribes – Florence Reservation. Appunti di viaggio, testo in Word, Firenze, 21 marzo 2012, pp. 6.

Dichiarazione di profugo per Antonio Sklemba dal Centro profughi di Firenze, 1954. Coll. Sklemba

Fonti orali e digitali. Ringrazio e ricordo le persone che hanno concesso l’intervista (int.), svoltasi a Udine a cura di Elio Varutti con penna, taccuino e macchina fotografica, se non altrimenti indicato: -Miranda Brussich vedova Conighi (Pola 1919 – Ferrara 2013), int. del 28 dicembre 2008 a Ferrara con Daniela Conighi. – Silvio Cattalini (Zara 1927 – Udine 2017), int. del 22 gennaio 2004 e 10 febbraio 2016. – Liana Di Giorgi Sossi, Pola 1937, esule a Rignano sull’Arno (FI), int. telef. del 16 gennaio 2017. – Marisa Roman, Parenzo 1929, int. del 23 dicembre 2014.Guglielmo Sklemba, Fiume 1948, vive a Firenze, int. telefonica del 18 settembre 2020.

Collezione privata – Guglielmo Sklemba, esule da Fiume a Firenze, fotografie, stampati e documenti ms.

Bibliografia e sitologia – Myriam Andreatini-Sfilli, Flash di una giovinezza vissuta tra i cartoni, Alcione, 2000.

«L’Arena di Pola», n. 5, IV, 15 aprile 1948.

Elena Commessatti, “Villaggio Metallico e altre storie a Udine, città dell’accoglienza”, «Messaggero Veneto», 30 gennaio 2011, pag. 4; poi in: E. Comessatti, Udine Genius Loci, Udine, Forum, 2013, pp. 98-101.

Raoul Pupo, L’Ufficio per le zone di confine e la Venezia Giulia: filoni di ricerca, «Qualestoria», XXXVIII, 2, dicembre 2010, pp. 57-63.

E. Varutti, Il Campo Profughi di Via Pradamano e l’Associazionismo giuliano dalmata a Udine. Ricerca storico sociologica tra la gente del quartiere e degli adriatici dell’esodo, 1945-2007, Udine, Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Comitato Provinciale di Udine, 2007.

E. Varutti, Quella vecchia zia di Pola. Un racconto sull’Istria e sull’esodo a Firenze, on line dal 9 novembre 2014.

E. Varutti, Da Pola al Centro Profughi di Firenze, con pareti di cartone, on line dal 17 gennaio 2017.

E. Varutti, Tabacchine istriane esuli a Firenze, conferenza a Udine, on line dal 21 febbraio 2017.

Progetto e ricerche di C. Ausilio, dell’ ANVGD di Arezzo e E. Varutti, dell’ANVGD di Udine. Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio e Enrico Modotti. Copertina: Stoviglie (o gamele) per i profughi; Collezione Guglielmo Sklemba, Firenze. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

L’ombra dell’Ozna in omicidi partigiani in Veneto. Il caso Vittorio Silvio Premuda, 1944

Certi libri hanno un’anima. Ne sa qualcosa l’autrice Maria Pia Premuda Marson che intende coltivare la memoria alla stessa stregua di un bene culturale. Questi libri squarciano la tela del silenzio riguardo all’uccisione di partigiani italiani da parte di altri italiani, sotto la guida di un burattinaio slavo. La sua battaglia culturale inizia nel 2013, quando dà alle stampe Rievocazioni storiche di Vittorio Silvio e di Nicolò Premuda: documenti, storia e tracce della famiglia, per l’editrice Cleup di Padova. Sin da quell’esordio editoriale sui temi del secondo conflitto mondiale si nota una disperata ricerca della verità riguardo l’assassinio di Vittorio Silvio Premuda, partigiano della formazione “Fratelli d’Italia”, oltre che suo caro zio, da parte di partigiani comunisti italiani guidati da un comandante slavo. I libri che seguono e che qui si recensiscono sono la prosecuzione e l’approfondimento dell’indagine volta a recuperare la memoria del tenente colonnello Vittorio Silvio Premuda, come recita il sottotitolo del volume del 2017: L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda tra le epurazioni finalizzate al tentativo di porre una parte del nostro stato sotto la sovranità della nascente confederazione jugoslava.

Il problema per Maria Pia Premuda Marson è che la letteratura e certi storici novecenteschi della Resistenza derubricano la fucilazione di Vittorio Premuda, avvenuta il 19 agosto 1944, come un fatto d’invidia tra partigiani di opposte formazioni politiche. Oppure ascrivono all’impreparazione militare della compagine del Premuda la tremenda fine “in un lago di sangue del suo comandante”, come ha scritto, senza contattare i discendenti né consultare gli atti della Corte d’Assise di Treviso, Roberto Binotto in Personaggi illustri della Marca Trevigiana, 1996. Per giunta è del tutto paradossale scrivere che un tenente colonnello di fanteria del Regio esercito, sia impreparato, vista la sua carriera militare che lo vide per anni impegnato in Libia, Tunisia, Veneto, Campania e poi passato alla macchia, dopo l’8 settembre 1943, per sfuggire ai lager nazisti.

Allora, chi ha ucciso Vittorio Silvio Premuda? Non è una scaramuccia fra partigiani con un comandante rimbecillito che ordina fucilazioni a vanvera. Secondo la sentenza della Corte d’Assise di Treviso del 3 dicembre 1946 e dagli articoli de «Il Gazzettino» di quel periodo, egli fu attirato con una scusa in una trappola dal comandante comunista “Tigre”, poi venne arrestato e fucilato da partigiani garibaldini comunisti, guidati dallo slavo Kubricevic Svetiovar, detto “Felice” e dallo stesso capo partigiano italiano “Tigre”, comunista di Oderzo (TV). Gli assassini sono tanti contro uno. Essi arrivano in camion e si nascondono per catturarlo meglio. Tra l’altro il Kubricevic è un ufficiale della marina iugoslava (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 58), allora viene modestamente da chiedersi: di quali barche slave si stava egli occupando mentre operava sulle colline di Vittorio Veneto? Ecco affacciarsi l’ombra dell’Ozna, il servizio segreto titino.

Nel 1994 l’Amministrazione comunale di Codognè (TV), nella persona del sindaco Mario Gardenal, promuove la commemorazione di Vittorio Silvio Premuda, in occasione del 50° anniversario del suo massacro. Come scrive la nipote, tra le autorità che si notarono c’era il vescovo di Vittorio Veneto Eugenio Ravignani, nativo di Pola, l’ingegnere Silvio Cattalini, esule da Zara e presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, assieme a molte autorità militari e rappresentanze d’Arma (La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda…, 2020, p. 13).

I due volumi del 2017 e del 2020 della Premuda Marson fanno luce su un fatto rimasto nell’ombra per la congiura del silenzio, rottasi solo dopo la caduta del Muro di Berlino (1989). Le uccisioni fra partigiani, secondo la retorica novecentesca di gran parte degli storici della Resistenza è sempre meglio classificarle come vendetta e invidia tra personaggi facinorosi e strambi. L’ottima divulgatrice che è Maria Pia Premuda Marson, bilaureata della classe 1927 nonché socia dell’ANVGD di Udine, colma un vuoto assordante nella vicenda del massacro del tenente colonnello Vittorio Silvio Premuda, comandante della Brigata “Fratelli d’Italia” di partigiani non comunisti attivi tra Piave e Livenza. Egli non era disposto a passare sotto il comando dei partigiani garibaldini, come espressamente gli fu richiesto, per tale motivo lo slavo Kubricevic Svetiovar, detto “Felice”, ne decretò la morte, ben sei mesi prima dell’eccidio di Porzus, in Comune di Attimis (UD). Altro ammazzamento fra partigiani più tristemente noto rispetto all’eliminazione del Premuda stesso.

Si tenga presente poi che il comandante della Brigata “Fratelli d’Italia” era in contatto tramite il generale Cugini “Castelli” con gli angloamericani che lo rifornivano con lanci aerei di vario materiale bellico, previo messaggio su Radio Londra (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 4). Tutto ciò dava molto fastidio ai partigiani garibaldini, guidati da Kubricevic Svetiovar, detto “Felice”, probabile agente dell’Ozna.

Dopo la morte e il riconoscimento del cadavere di Vittorio Silvio Premuda, il comando della sua unità partigiana passò al fratello Nicolò Premuda, “Nipro”. Nel mese di aprile 1945 i patrioti di detta formazione erano oltre 700 e collaborano con altri partigiani contro i tedeschi, fino all’arrivo dei Neozelandesi. Nicolò Premuda, volontario irredentista nella Grande Guerra, in seguito fu sindaco per 14 anni a Codognè fino al 1970. Egli, nel tentativo di evitare una guerra fratricida alla fine della seconda guerra mondiale, fu ferito gravemente il 27 aprile 1947. Chi gli spara? Voleva  trattare la resa col maggiore Gulmanelli, comandante della Guardia Nazionale Repubblicana di Codognè. Durante le concitate trattative, mentre erano essi diretti a Oderzo, ci fu uno scontro a fuoco “da partigiani contrari ai suoi ordini di evitare una guerra fratricida; cadde svenuto nel sangue ed il maggiore dei fascisti, urlò spiegazioni ma vedendosi in balia di ribelli, si sparò e la orribile strage che mio padre [Nicolò] voleva evitare, incominciò a Camino di Oderzo e poi venne perpetrata sul Piave a Susegana” (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda, 2017, p. 75)

L’autrice riporta in qualche pagina finale pure la toccante vicenda dei suoi avi dell’Isola di Premuda, situata tra Lussino e Zara, oltre ad altri suoi antenati di Lussino (Istria, ora: Croazia) e di Perasto alle Bocche del Cattaro (Dalmazia, ora: Montenegro). Qualche facciata è dedicata pure all’esodo giuliano dalmata, quando nel settembre 1943 la famiglia della sorella di suo padre Nicolò si trova ad ospitare a Roverbasso di Codognè (TV) certi lontani parenti Premuda di Fiume e di Pola con cinque bambini. “Allora non comprendevo la causa di questo avvenimento strano, perché a me adolescente, era stata nascosta la tragica realtà” (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 74).

La Redazione del blog prende spunto da questi due interessanti volumi di Maria Pia Premuda Marson per effettuare alcune collimazioni con l’originale interpretazione dell’autrice stessa riguardo alle spinte annessionistiche iugoslave riguardo a tutta la provincia di Udine, fino oltre il fiume Livenza, in territorio veneto sulle rive del Piave (La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda…, 2020, p. 15).

Titini a Gorizia coi consiglieri sovietici – È risaputo che l’occupazione di Gorizia dal 1° maggio 1945 da parte dei miliziani di Tito, assistiti da consiglieri sovietici, durò 40 giorni, durante i quali furono arrestati e deportati centinaia di italiani. La presenza sovietica rientra nella dicitura “formazioni poliziesche”, come l’Ozna, che affiancano l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia. Gli artificieri iugoslavi fanno persino saltare due ponti sull’Isonzo, rallentando così l’arrivo delle truppe alleate, per procedere meglio alla caccia degli italiani, facendo innalzare i cartelli “Gorica je naša” (Gorizia è nostra). Poi puntano sul Tagliamento ed oltre. Esiste un elenco di 651 civili e militari arrestati a Gorizia e deportati dai titini fra il 1° maggio e il 12 giugno 1945 che, pur necessitando di ovvi aggiornamenti, rappresenta il teatro delle eliminazioni al confine orientale. In ogni pattuglia titina aggirantesi per la città con tanto di elenco, durante la cattura, partecipa pure un partigiano garibaldino italiano, per individuare meglio i potenziali prigionieri (Associazione Congiunti dei Deportati in Jugoslavia, Gli scomparsi da Gorizia nel maggio 1945, a cura del Comune di Gorizia, 1980, pag. 16).

Pochi imprigionati dai titini sono ricomparsi malconci in seguito, mentre altri nomi sono stati aggiunti alla lista dei deportati e scomparsi tanto che, nel 2019, essi ammonterebbero a 665 casi. Secondo l’elenco delle displaced persons prodotto dagli Alleati nel 1947, gli scomparsi a Gorizia furono 1.100, di cui 759 civili e 341 militari. Gli impiegati vennero licenziati in blocco e riammessi al lavoro solo firmando una dichiarazione di aderire agli ideali del Partito comunista iugoslavo. Commercianti e contadini vennero costretti a consegnare i raccolti, i prodotti alimentari e le merci in cambio di vaghe parole compilate su foglietti volanti senza intestazione o timbri ufficiali degli occupanti slavi (Dino Messina, Italiani due volte. Dalle foibe all’esodo: una ferita aperta della storia italiana, Milano, Solferino RCS Mediagroup, 2019, pp. 133-135).

Riguardo alla presenza di consiglieri russi Antonio Zappador, esule istriano, ha riferito che a Verteneglio due militari ucraini, in veste di consiglieri sovietici, avendo riconosciuto in casa sua madre Olga Alexsandrovna Rackowsckij, della nobiltà ucraina, le si sono inginocchiati accanto baciandole la veste, in barba ai fondamenti leninisti (Antonio Zappador, Verteneglio 1939. Intervista di Elio Varutti del 23 febbraio 2020 a Fossoli di Carpi, MO).

Pochi autori spiegano che i titini, oltre ad occupare Fiume, Pola, Trieste e Gorizia, sono giunti sino a Monfalcone, Romans d’Isonzo, Cividale del Friuli, Aquileia e Cervignano del Friuli, nella Bassa friulana. Una jeep di artificieri iugoslavi fu vista da partigiani della Osoppo sulle rive del Tagliamento, vicino ad un ponte. Come ha scritto Mara Grazia Ziberna a Gorizia “il periodo dell’occupazione titina, dal 2 maggio al 12 giugno 1945, vide la costituzione nella Venezia Giulia dello Slovensko Primorje, cioè il Litorale Sloveno, che aveva come capoluogo Trieste e comprendeva anche il circondari di Gorizia, diviso in sedici distretti e composto anche dai comuni di Cividale del Friuli, Tarvisio e Tarcento [della provincia di Udine], considerati slavofoni” (Maria Grazia Ziberna, Storia della Venezia Giulia da Gorizia all’Istria dalle origini ai nostri giorni, Gorizia, Lega nazionale, 2013,  p. 83).

Si sa, infine, che diversi partigiani russi hanno combattuto contro i nazifascisti in Friuli dall’inizio del 1944. A Forni di Sopra (UD) c’era il battaglione Stalin, che operava in Carnia. Un altro battaglione di garibaldini sovietici agiva tra Veneto e Friuli, poi c’era il battaglione Kirov, attivo nel Pian del Cansiglio (BL, PN e TV). Infine c’era nientemeno che il figlio primogenito di Stalin nella Brigata partigiana Piave, operativa sulle colline di Vittorio Veneto (TV); egli si celava sotto il nominativo di Giorgio Vorazoscvilj “Monti” («Il Gazzettino» Cronaca di Treviso, 29 agosto 2015, citato dalla Premuda Marson, 2017). Con tutti questi reparti militari, pare plausibile che ci fossero pure certi agenti dei loro servizi segreti, in alleanza con quelli iugoslavi, come l’Ozna. Proprio Maria Pia Premuda Marson afferma che “Agenti speciali sovietici si erano inseriti nelle formazioni partigiane denominate ‘Brigate Garibaldine” (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 17).

Vittorio Silvio Premuda

La moralità della Resistenza – I temi riguardanti l’etica della Resistenza non sono oggetto di indagini solo di Gampaolo Pansa, che ha iniziato ad indagare sulle eliminazioni nel Triangolo rosso di Reggio Emilia con Il sangue dei vinti (2005), con La Grande bugia (2006) ed altro. Essi sono stati messi sul piatto della bilancia sin dal 1991 da Claudio Pavone, col suo Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Poi, per i ricercatori, è stato come un fiume in piena fino, appunto, al ruolo dell’Ozna negli eccidi dell’Italia del Nord. 

Uno dei mandanti dell’omicidio Premuda è uno iugoslavo. Che ci faceva uno iugoslavo in territorio veneto ad oltre 130 km dalla sua vantata area slovenofona se non fosse stato una spia dell’Ozna, il servizio segreto di Tito? È un’ipotesi del recensore, suffragata da vari riferimenti. Si sa, ad esempio, che da un rapporto segreto del Ministero dell’Interno italiano, del 1946, l’Ozna era “già riuscita ad infiltrare molti elementi nelle file dei cetnici [ex monarchici serbi], specie tra i profughi giuliani che si trovano a Roma nei campi profughi di Forte Aurelio e Cinecittà”. Si veda in merito: O.Z.N.A.: La mano segreta di Tito, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Della P.S. – Divisione S.I.S., Roma, 19 novembre 1946,  consulenza di Aldo Giannuli, Università di Milano; nel sito web storiaveneta.it

Tra la fine della guerra e nel dopoguerra l’Ozna è presente in Italia del Nord. I suoi agenti si mimetizzano nei gruppi partigiani comunisti o nelle grandi città; osservano e prendono nota. Il loro obiettivo si lega allo sciovinismo-nazionalista di Tito, allargare l’area territoriale fino a superare Isonzo, Tagliamento, Livenza e Piave, facendo pesare il ruolo militare dell’Esercito Popolare di Liberazione iugoslavo il più possibile quando sarà il momento di sedersi attorno ad un tavolo della pace, Alleati permettendo. A Fasana, presso Pola, c’è la sede delle operazioni speciali che l’Ozna prepara per l’Alta Italia e per Roma.

Conclusioni – I fatti dell’esodo giuliano dalmata, dell’uccisione nelle foibe e delle eliminazioni di partigiani italiani autonomi o azionisti da parte dei titini dovevano restare nascosti perché c’era la Cortina di ferro, da Danzica a Trieste. Come disse Winston Churchill, nel marzo 1946, a separare l’Europa in due sfere politiche, una sovietica e l’altra angloamericana c’è la Cortina di ferro. In piena Guerra fredda e con le spie di tutto il mondo che ronzavano tra Gorizia, Trieste, Tarvisio, Venezia e Treviso non si doveva scomodare Tito, capo della Federativa Repubblica di Jugoslavia, che si stava staccando politicamente da Mosca e da Stalin, mentre gli agenti dell’Ozna gironzolavano nel Nord Italia e a Roma con i loro loschi obiettivi. È appena il caso di ricordare che la strage di Vergarolla, presso Pola, mentre la zona è controllata da reparti britannici, avviene per mano dell’Ozna, secondo vari storici; l’orribile attentato è del 18 agosto 1946 provocando 64 morti, centinaia di feriti (tutti italiani), oltre alla fuga del 95% degli abitanti del capoluogo istriano verso Trieste, Venezia e Ancona.

La “Odeljenje za Zaštitu Naroda” (Ozna) è la sigla che significa: Dipartimento per la Sicurezza del Popolo. C’è una seconda versione che così spiega la sigla: “Oddelek za zaščito naroda”; letteralmente: Dipartimento per la protezione del popolo. Era parte dei servizi segreti militari iugoslavi e fu attiva dal 1944 fino al 1952. L’organizzazione titina, programmata da Tito e Milovan Gilas, era dotata di carceri proprie e attuava requisizioni, vessazioni ed addirittura ha programmato la pulizia etnica a Pola contro gli italiani. La pianificazione delle uccisioni di italiani in Istria, Fiume e Dalmazia per mano titina è stata documentata da Orietta Moscarda Oblak a pp. 57-58 di un suo saggio (“La presa del potere in Istria e in Jugoslavia. Il ruolo dell’OZNA”, «Quaderni del Centro Ricerche Storiche Rovigno», vol. XXIV, 2013, pp. 29-61.). Agenti dei servizi segreti di Tito negli anni ‘50 si infiltrano perfino nei Centri raccolta profughi (CRP) sparsi in Nord Italia per carpire notizie sui rifugiati e per altre operazioni di stampo terroristico nelle città. Dal 1946 al 1991 la polizia segreta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia diviene “Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti” o Udba; letteralmente: “Amministrazione Sicurezza Statale”. Processato e incarcerato da Tito, dal 1954 al 1966, come dissidente lo stesso Milovan Gilas, nel 1991, riguardo all’Istria del 1945-‘46, dichiarò al giornalista Alvaro Ranzoni, del settimanale italiano «Panorama»: “Gli italiani erano la maggioranza solo nei centri abitati e non nei villaggi. Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto”. Gravi dichiarazioni mai smentite quelle di Gilas, che fu segretario del Komunisticna Partija Iugoslavije (Partito comunista iugoslavo); egli ammise inoltre in un suo noto memoriale, a p. 12, che in Jugoslavia gli “arresti effettuati al di fuori della legge, come in tempo di guerra, continuavano a essere la pratica corrente” (Se la memoria non m’inganna… Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962, ediz. originale: Vlast, London, Naša Reč, 1983, traduz. ital.: Bologna, Il Mulino, 1987).

La Società di Studi Fiumani di Roma ha documentato nell’opera bilingue (italiano e croato) – Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni, pubblicata nel 2002 a cura di Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski e presentata a Roma e a Zagabria – come andarono le cose dopo l’avvento della nuova dittatura comunista iugoslava. Sono oltre 580 le persone uccise a Fiume dalla polizia segreta dell’Ozna a guerra finita, senza umana giustizia. L’Ozna operò fino al 1952, assieme all’Udba, che poi prese le redini dei servizi segreti titini. La gente continua a chiamare le spie di Tito: quelli dell’Ozna.

I libri qui recensiti

Maria Pia Premuda Marson, L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda tra le epurazioni finalizzate al tentativo di porre una parte del nostro stato sotto la sovranità della nascente confederazione jugoslava, Padova, Cleup, 2017.

Maria Pia Premuda Marson, La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda comandante della Brigata Fratelli d’Italia, campeggia nella lotta per la liberazione della seconda guerra mondiale nei ricordi della popolazione più anziana dei paesi tra Piave e Livenza, Padova, Cleup, 2020.

Recensione di Elio Varutti. Attività di ricerca e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Copertina: Perasto, Bocche di Cattaro 1942, ediz. Libreria italiana Cattaro, dal web. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia 29, I piano – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Massacro gappista del Ghebo, in Friuli e i poliziotti di Udine al lager, 1944-’45

L’uccisione di persone inermi da parte dei partigiani spesso non è passata alla storia. La retorica partigiana del dopoguerra è orientata ad esaltare solo certe vicende, tacendone invece quelle troppo scomode, come hanno scritto Giampaolo Pansa e Andrea Zannini. Questo non è stato un buon servizio alla storia della Resistenza che, a detta di molti autori, ha come principale merito quello di aver contribuito, con gli alleati, alla sconfitta dei nazisti.

La notizia sul massacro gappista del Ghebo risale al 21 novembre 2013. I gappisti sono i Gruppi di Azione Patriottica, appartenenti al Partito Comunista d’Italia. Quel giorno sul «Messaggero Veneto» compare un commento del signor Renzo Piccoli intorno al dibattito apertosi nella Bassa friulana sull’intitolazione di una strada a un capo partigiano. Il titolo del brano è “Quel partigiano tanto osannato sotto Natale ha ucciso mio padre”. Il partigiano da ricordare sarebbe Gelindo Citossi (1913-1977) di San Giorgio di Nogaro, nome di battaglia Romano il Mancino, il cui covo era nel Casale Papais, pare nel Codroipese. Detto Citossi, al comando dei Diavoli rossi, partigiani garibaldini, è celebre per l’assalto al carcere di Udine travestiti da tedeschi, un’arrogante azione che ebbe risonanza fino all’estero. Accadde il 7 febbraio 1945, anche se di scarso profitto bellico, l’operazione fa liberare 73 detenuti, ma vengono uccisi due poliziotti giudiziari. Ciò provoca la rabbiosa rappresaglia nazista con la fucilazione di 23 partigiani e ostaggi sul muro del Cimitero di Udine. I nazisti attuano tale dura rappresaglia, come ci si poteva aspettare avendo un briciolo di tattica militare. Si tenga conto poi che tra i poliziotti di Udine c’è un sentimento badogliano e, addirittura, come riferito da don Emilio De Roja, ci sono questurini che passano ai preti atti di liberazione firmati in bianco, per far uscire proprio i detenuti partigiani, in barba ai tedeschi (vedi in bibliografia: Don Emilio 1992, p. 41). Proprio dei questurini di Udine vicini alla Resistenza ne riparleremo più sotto.

Qualche autore ha rilevato la coincidenza della data scelta da Romano il Manzin, comandante dei Diavoli Rossi. Il 7 febbraio è lo stesso giorno dell’eccidio di Porzùs, Comune di Faedis (UD), anzi sembra fatto apposta per oscurare quel triste ammazzamento fra partigiani. Il 7 febbraio 1945, infatti, alle malghe di Porzùs, diciassette partigiani (tra cui una donna, loro ex prigioniera) della Brigata Osoppo Friuli (BOF), di orientamento cattolico, monarchico e laico-socialista, sono fucilati da parte di un gruppo di partigiani, in prevalenza gappisti di San Giovanni al Natisone (UD) e dintorni. Ciò segna il punto massimo delle tensioni fra partigiani garibaldini (pro-titini sloveni) e le BOF, che invece difendevano l’italianità del territorio, contro l’espansionismo iugoslavo.

Copertina del romanzo di Elio Bartolini

Ritorniamo al massacro del Ghebo, termine dialettale per un canale d’acqua nei pressi di Codroipo (UD). Tale parola è utilizzata sia nella Bassa friulana (vedi: Corso Regeni) che nel vicino Veneto. La notizia della nuova intitolazione stradale al suddetto partigiano “mi ha toccato nel profondo – ha scritto Renzo Piccoli – e più di un pensiero ho rivolto a mia madre e mia sorella, che non ci sono più, per il fatto che questo ‘eroe’ partigiano garibaldino, è stato autore di un episodio per me malvagio, commesso in nome della Resistenza. Dopo settanta anni, lungi da me l’idea di alimentare polemiche, desidero ricordare l’episodio che ha visto protagonista l’eroe che ha sconvolto e distrutto la mia famiglia. Il fatto è avvenuto il 16 dicembre 1944, protagonista quel tale, incensato con una pubblicazione e addirittura con un brano musicale”. Renzo Piccoli è nato a Fiume nel 1937 da Firminio e Vittoria Simeoni “dove mio padre friulano si era recato a lavorare nel locale silurificio negli anni ‘20 e nel 1943 vedendo tempi bui spinse mia madre a rientrare in Friuli a Segnacco di Tarcento con i bambini presso i nonni”.

Firminio Piccoli resta a Fiume e diventa autista personale dell’ingegnere capo del Genio civile dell’Istria e Dalmazia, viene militarizzato con il compito di guidare un camion a gasogeno che fa la spola tra Fiume, il Friuli e il Veneto per trasportare generi alimentari. I prodotti sono destinati alla popolazione civile da distribuirsi con la tessera annonaria, come emerge dal Dossier Firmino Piccoli, fornitomi dallo stesso Renzo Piccoli, nel 2019.

In occasione delle feste natalizie 1944, in viaggio nel Basso Friuli, l’autista Piccoli, in abiti civili, “è stato intercettato dalla banda di partigiani garibaldini sulla strada che da San Martino di Codroipo conduce al paese di Lonca, nei pressi di Villa Manin di Passariano – continua lo scritto di Renzo Piccoli sul «Messaggero Veneto» –. Qui i partigiani, rubato o requisito il carico, considerato un esproprio proletario, hanno ucciso mio padre (36 anni) e il suo aiutante, addetto alla legna nella caldaia del gasogeno, lasciandoli stesi nell’acqua delle Risorgive. Di questo eccidio non si è avuto riscontro nei giornali di allora, ma si trova traccia in una pubblicazione con l’elenco delle vittime della Resistenza. Negli anni ‘60 mi sono attivato per conoscere meglio il fatto e il luogo: sono venuto a sapere da un fattore, che lavorava i terreni di proprietà Kechler, che, giunto primo sul luogo, ha scoperto i cadaveri avvertendo le autorità comunali di Codroipo”.

Renzo Piccoli, oltre ad avere alcune testimonianze di partigiani locali, come l’osovano Marco Cesselli, ha anche un contatto con lo scrittore Elio Bartolini, che aveva partecipato alla Resistenza nella zona. “Bartolini – prosegue lo scritto di Piccoli – nel suo primo libro descrive sia il luogo, chiamato con il titolo ‘Il Ghebo’, sia le gesta del capo partigiano, che chiama ‘Il monco’, crudele, feroce, spietato nelle sue scorrerie con i suoi seguaci, giovani attratti dalla sua personalità e intraprendenza, ma nulla della sorte di mio padre. A me è rimasta l’amarezza per l’episodio: sopprimere a freddo, due vite, due padri di famiglia, per poi festeggiare con i generi alimentari. Mi permetto infine di ricordare, che allora, tre fratelli di mio padre si recarono nel cimitero di Codroipo per ritirare la bara con un triciclo. Impiegarono tre giorni ad arrivare nella casa dei miei nonni. Il funerale si è svolto la vigilia dell’ultimo Natale di guerra. Ricordo ancora bene, io (6 anni) e mia sorella (14 anni), soli, perché la mamma era disperata e sconvolta, dietro la bara di mio padre che era portata a spalle da uomini anziani del paese, arrancando sulla salita al cimitero di Sant’Eufemia. Questa è la tragedia di cui è stato capace tale che alcuni intendono osannare, mentre lui è subito fuggito in Jugoslavia con i suoi rimorsi. Caro direttore, mi creda, per la mia famiglia è stato un dramma. Ringrazio per l’ospitalità. Renzo Piccoli, Udine”.

Si può aggiungere che i tre fratelli Piccoli con la bara del congiunto Firmino sul triciclo nel viaggio di tre giorni da Codroipo a Segnacco di Tarcento hanno rischiato non poco con i cacciabombardieri anglo-americani che dominavano i cieli del Friuli. Si fa solo un cenno conclusivo alla famiglia sconvolta dall’eccidio del Ghebo. La mamma di Renzo, Edda Piccoli, rimasta vedova, mette in collegio i figli e emigra in Svizzera per lavorare in una fabbrica di calze femminili. Renzo Piccoli si diploma geometra all’Istituto “A. Zanon” nel 1956. Lavora presso studi tecnici della città, poi vince un concorso in Provincia e lavora anche all’Istituto Autonomo delle Case Popolari, fino al pensionamento.

Fiume, 1945, esodo. Luciana Stella commenta: “In primo piano, il secondo da destra, mio zio materno Livio Fantini, anche lui se ne sta andando, insieme ad altri esuli fiumani, spingendo un carretto: “Nello spingere quel carretto, non sapevo se ridere o piangere. Ridere perché ero contento di andare via, ovunque, con la speranza di ricominciare una vita nuova, piangere per la paura di non ritornare più nella mia cara Fiume”. Foto tratta dal libro di storia ed emigrazione dal titolo: Per l’Australia, scritto da Julia Church e la collaborazione di Pino Bartolomè. Grazie a Luciana Stella, di Milano, che ha scritto in Facebook il 6 febbraio 2020, tale messaggio.

Le sanguinarie gesta dei Diavoli rossi

Paolo Barbaro, negli anni ’80 del Novecento descrive in una serie di racconti la vita nella pianura veneta tra vari corsi d’acqua (Brenta, Bacchiglione, Zovòn, Ceresone…). Sono storie contadine di famiglie numerose, dove otto di dodici cugini “con la giusta età erano distribuiti fra Albania, Grecia, Croazia Africa e Russia…”. Oltre alle guerre fasciste e ai conseguenti morti lo scrittore non va. Si occupa molto di emigrazione in un clima di umile saga padana. Paolo Barbaro pubblica così Storie di Ronchi nel 1993.

Chissà perché il romanzo storico di Elio Bartolini, ambientato nella primavera del 1945 e intitolato Il Ghebo, sulle gesta dei partigiani gappisti tra Codroipo e Palmanova, scritto nel 1946, invece fu respinto dalla pubblicazione da Elio Vittorini? Trova un editore solo nel 1970 a Udine, lontano dalle piazze culturali nazionali, ancora intente ad incensare i partigiani in base ad una linea unidirezionale, indiscussa ed indiscutibile.

Forse perché Bartolini, partigiano egli stesso nel Basso Friuli, è uno che parla chiaro. Accenna all’eccidio di Porzùs, pur non nominandone il sito (vedi Il Ghebo, pagg. 55 e 88). Descrive egli l’uccisione di partigiani effettuata da altri partigiani, per assecondare l’espansionismo iugoslavo. È troppo politico, come ha rilevato furbescamente Elio Vittorini, dopo aver letto le bozze di una stampa poi da lui stesso bloccata.Ècritico nei confronti di una spietata banda partigiana, quella comandata da Il Monco, facilmente individuabile in Romano il Mancino. Come si muovono costoro e cosa fanno? Nelle 150 pagine del romanzo si nota che detti partigiani sono spesso ubriachi (pp. 10, 37, 38 e 51) sia alla Cartera, sede delle loro operazioni, che in altri luoghi. Sono crudeli e con scarsa disciplina (pp. 12 e 34), ben pronti a fregare camion pieni di roba da portare oltre il Collio, in quella che sarà la Jugoslavia di Tito, per far bella figura coi titini, che li hanno ben posti sotto il Comando militare del IX Corpus. Bartolini spiega che gli slavi volevano annettersi, oltre all’Istria, Fiume e Dalmazia, anche un pezzo di Friuli, fino al Tagliamento (pp. 55, 65 e 102). Spietati e sanguinari, detti partigiani sono pronti a fucilare senza processo dei civili con la presunta accusa di spionaggio, andando contro le disposizione del Comitato di Liberazione Nazionale, il CLN (p. 61) o addirittura i loro stessi compagni  di battaglia fuggiti dopo che il mitragliatore si inceppa (p. 117). È gente pronta a fare la leva obbligatoria tra Palmanova e Codroipo, come gli Sloveni nel Collio (p. 85). Rubano oggetti ai cadaveri (p. 101) e sono pronti nell’accusare gli altri di far borsa nera, mentre loro stessi hanno dei magazzini pieni di ogni ben di dio (pp. 9 e 97). Sono così mal preparati militarmente che nei loro magazzini pieni di roba rubata non sanno nemmeno mettere qualcuno di guardia (p. 139).

Vari gappisti al termine della guerra fuggono nella Jugoslavia di Tito. Nel 1946 anche Mario Toffanin “Giacca”, lo stragista di Porzùs, se la svigna a Capodistria, evitando il carcere successivo alla condanna comminatagli nel 1951 al processo della Corte d’Assise di Lucca. Pure certi Diavoli Rossi se la mocano in Jugoslavia, primo fra tutti il loro caporione Gelindo Citossi, poi pure Norberto Sguazzin e un certo “Tom”, di Mortegliano; “emigrano in Jugoslavia”, come ha scritto Francesca Artico. Alcuni di tali partigiani fuggiti in Istria, come “Giacca”, Mario Abram (partigiano rosso triestino), Nerino Gobbo (noto infoibatore) e Giuseppe Krevatin se la prendono coi preti italiani, minacciandoli e picchiandoli a sangue, come ha riportato il «Giornale di Trieste» del 23 novembre 1951. Poi quando i titini vogliono fare piazza pulita dei cominformisti, dei comunisti storici e degli stalinisti, certi partigiani italiani scappati nel “paradiso di Tito” svicolano in Cecoslovacchia, perché neanche Tito li vuole più tra i piedi. Quelli che riesce a beccare li deporta all’Isola Calva (Goli Otok) dove patiscono e muoiono di stenti, come in ogni campo di concentramento. Alcuni dei fuggitivi in Cecoslovacchia, forse per la coscienza sporca, cambiano addirittura nome, imbrogliando sui documenti.

Ci sono poi comandanti partigiani della Divisione “Garibaldi-Natisone” assassinati dai loro stessi compagni. È successo il 30 aprile 1945 a Leo Scagliarini con un colpo alla nuca a Rizzolo di Reana del Rojale (UD). Pur essendo un democratico libertario, egli si aggrega nel 1944 alla brigata “Picelli”, col nome di battaglia “Ricciotti”, perché erano le unità più robuste per combattere i nazifascisti, ma con la metà di gennaio 1945 finiscono sotto il comando del IX Corpus titino. La spiegazione fornita dai partigiani invece narra di una morte per il fuoco amico di un aereo da caccia inglese che mitraglia una colonna di partigiani e l’autovettura con dentro “Ricciotti” il 29 aprile. Pare che l’assassino sia stato lo stesso “Giacca”, molto ostile a “Ricciotti”, che intendeva liberare Udine il 1° maggio con le bandiere tricolori e non con quelle rosse dei comunisti. Su tale eliminazione non è mai stata aperta un’indagine giudiziaria, come ha scritto Pansa (pp. 291-315).

Mario Savino, vice commissario di Polizia a Udine, 1944. Fotografia famiglia Savino

Mario Savino, vice commissario di polizia a Udine e i suoi colleghi 1944-1945

Parliamo ora di un poliziotto che lavorava a Udine nel 1944-1945. È un milite italiano che “conobbe gli orrori di Dachau, Ebersen e Mauthausen”, come si legge sul quotidiano «Libertà» 13 marzo 1946. Si tratta di Mario Savino, vice commissario di Pubblica Sicurezza a Udine. Catturato dai nazisti con l’accusa di collaborazione col movimento partigiano, fu deportato nei lager dove trovò la morte. “Non piangere, che tanto tornerò” – disse dal vagone bestiame alla fidanzata a Udine, mentre lo stavano portando via, assieme a un gruppo di alcuni suoi colleghi poliziotti. La fidanzata, la signora V., nata nel 1924 a Tarvisio, intendendo la lingua tedesca, venuta a conoscenza su dove si trovasse, non si perse d’animo e volle raggiungerlo, assieme ad una sorella, per portargli un pacco di vestiario e di viveri, come ha raccontato Clelia Savino. Il vice commissario aveva chiesto alla fidanzata un pacco di farina di carrube, forse per avere qualcosa di molto nutritivo, con buone calorie (tra il 50 e il 60% di zucchero) e di facile assimilazione in prigionia.

La signora V. e la sorella giunsero fino al Campo di concentramento di Ebersen, sotto-campo di Mauthausen. Trovato un tizio che lavorava nel campo stesso, furono consigliate di andare via, altrimenti avrebbero preso pure loro. Lasciarono il pacco, ma non seppero più nulla del dottor Mario Savino, cui dal 2005 è dedicata una lapide nel cortile della Questura di Udine, assieme ad altri otto funzionari e poliziotti sterminati nei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald. Mario Savino era nato a Pozzuoli (Napoli) nel 1914 e morì a Mauthausen il 15 marzo 1945.

Lapide nel cortile della Questura di Udine, in viale Venezia in ricordo dei poliziotti deportati e massacrati nei lager nazisti. Fotografia famiglia Savino

Un altro fatto sconvolgente coinvolge la famiglia della signora V., che gestiva l’albergo “Trieste” a Tarvisio, coma ha raccontato Fulvia Zoratto. Il giovane fratello della signora V., essendo stato riformato per problemi cardiaci alla chiamata alle armi, si trova a lavorare dietro il bancone della ditta di famiglia dopo il 1943. Un giorno entrano un gruppo di soldati tedeschi, ai quali il barista tarvisiano risponde gentilmente in lingua tedesca. A un ufficiale non va giù che un giovane così solerte non sia a combattere per il grande Reich, così si mette a canzonare il ragazzo del bar. Ad un certo punto, presa in mano la pistola, l’ufficiale lo minaccia puntandogliela alla tempia. Colto dal panico, il giovane fratello della signora V. muore d’infarto, davanti al bullo, ma esterrefatto ufficiale tedesco. La notizia crea scalpore in tutto il paese, andando a scalfire il buon rapporto che i soldati di Hitler tentavano di instaurare nella Valle tedescofona, oltre che italofona e slovenofona.

Lapidi da correggere

L’ultima notazione riguarda il motivo per cui lo Sicherheitsdienst (SD), servizio segreto delle Waffen SS, il 22 luglio 1944 fa circondare da un plotone di soldati tedeschi la Questura di Udine, che allora ha sede in via Treppo per arrestare circa 30 poliziotti, alcuni dei quali deportati nei lager. Tutto è dovuto al ritrovamento di una lista di dirigenti e poliziotti compromessi con la Resistenza, vergata secondo le informazioni di Guglielmo Iacuzzi, di Sedegliano. Come ha scritto Bruno Bonetti, tale Iacuzzi, già al servizio della SD germanica a Udine, in quanto doppiogiochista passa alle formazioni partigiane. Dal marzo 1944 Iacuzzi è a capo dell’Ufficio SD 1724 di via Lovaria 4, che poi cambia sede in via Montenero 4, disponendo di oltre 15 uomini alle sue dipendenze ed essendo in contatto con altri servizi segreti (Bonetti, p. 68-77). Quindi lo spione, nella veste di partigiano tarocco viene arrestato e fucilato al carcere il 10 dicembre 1944 in via Verdi, assieme ad altri tre patrioti veri. Incredibile che una lapide a ricordo della fucilazione dei quattro detenuti sia ancora lì integra, compreso il nome del doppiogiochista, nonostante si sappia dalla recente ricerca storica che Iacuzzi sia una volgare spia infiltrata tra i partigiani.

Udine, via Verdi, lapide in ricordo di 4 partigiani uccisi dai nazisti, tra i quali c’è ancora il nome di Iacuzzi, spia dello Sicherheitsdienst (SD), il servizio segreto delle Waffen SS

Spari al carcere di Via Spalato a Udine

Tra i luoghi di detenzione a Udine c’era il carcere di Via Spalato, oltre alle celle del tribunale di Via Treppo, davanti al quale furono fucilati quattro partigiani, come il giovane Antonio Friz “Wolf”, di Pontebba, più precisamente “in vie de Roe”, ossia al civico n. 30 di via Verdi, dove scorre la roggia. Sul muro del tribunale fu posta una lapide, che ricorda i quattro partigiani lì fucilati, tra i quali appunto Friz e una spia.

A livello popolare la prigione cittadina era detta “Al Grande Albergo di Via Spalato”, come ha scritto Plinio Palmano, incarcerato nel luglio 1944. Il carcere era per 250 posti, ma erano reclusi centinaia di individui, in attesa di essere trasferiti ai Campi di concentramento nazisti. Palmano cita il maresciallo delle Waffen SS Hans Kitzmüller, che compì il voltafaccia, facendo liberare alcuni reclusi fra i quali “Verdi” [Candido Grassi], “Mario” [Manlio Cencig] e altri (p. 100). Ecco il numero dei detenuti passati per il carcere di Via Spalato a Udine tra l’8 settembre 1943 e la fine di aprile 1945. Vedi la tabella n 1. Per i nomi dei comandanti partigiani si è visto il libro di Primo Cresta.

Tabella n. 1 –  Detenuti entrati al carcere di Udine, 1943-1945

Condannati a morte (sentenza eseguita)                 98

Deportati in Germania                                           7.414

Deportati per lavori dalla TODT                              753

Rimessi in libertà                                                    1.647                

TOTALE                                                                 9.912

Fonte: Plinio Palmano, “Al Grande Albergo di Via Spalato”, «Avanti cul Brun!», 1946, p. 106.

Oltre a via Spalato e al carcere del tribunale di via Treppo, le Waffen SS avevano altre prigioni per interrogatori nelle case requisite agli udinesi. Ad esempio “in una villa sulla strada per Tricesimo da piazzale Osoppo – ha detto Franco Pischiutti – nell’attuale viale Volontari della Libertà [allora viale Principe Umberto], ci fu un comando delle Waffen SS”. Lo stabile è a sinistra dopo i moderni condomini; lì si dice che siano stati torturati e uccisi certi prigionieri dai tedeschi e, forse, sepolti in loco. Ne fa cenno la Carta della Gestapo, pubblicata dall’ANPI di Udine nel 2019; in genere non si sa che il documento originario di tale mappa era nelle mani dell’onorevole Lorenzo Biasutti, dimenticato da qualcuno nella osteria Alla Buona Vite di via Treppo, poi fu consegnata al professor Luigi Raimondi Cominesi, che la studiò a lungo. Che la villa di viale Principe Umberto “della famiglia Agostinelli” fosse un comando tedesco lo scrive Bruna Sibille Sizia, a pag. 125, del suo libro intitolato Diario di una ragazza della Resistenza. Friuli 1943-‘45.

Poi si sa che: “Le Waffen SS avevano un comando a Udine sud – ha aggiunto Franco Pischiutti – so che in via San Martino avevano occupato la villa Elisa, proprietà di ebrei rifugiatisi in Veneto, per sfuggire alle deportazioni naziste. Certi Gentilli si erano rifugiati clandestini a Gemona del Friuli presso la famiglia Cesarino Sabidussi”. Che cosa dicevano i vecchi udinesi dei tedeschi? “Si è saputo che i nazisti a Udine cercavano gli ebrei possidenti per derubarli, prima della deportazione nei lager – secondo le fonti del quartiere – questi gerarchi tedeschi chiedevano agli ebrei di Udine e dintorni se potessero pagare con denaro, gioielli, oro ed altri valori così avrebbero avuto una specie di salvacondotto per salvare la pelle, ma poi li avrebbero comunque fatti deportare nei Campi di concentramento”.

Oltre alle testimonianze, si sa dal libro di Fölkel, che a Udine, in via San Martino, dal mese di dicembre 1943 funziona l’Abteilung R/3, alle dipendenze di Franz Stangl, in collegamento alle Waffen SS ucraine di stanza a campo di concentramento triestino di San Sabba, con servizi anche a Castelnuovo d’Istria. Il gruppo specializzato nella cattura di ebrei nella zona di Fiume è l’Abteilung R/2, sotto il comando di Reichleitner. Ogni comando d’azione Reinhard (Aktion Reinhard) agisce tra Carso, Friuli ed Istria con retate, fucilazioni e impiccagioni. È suddiviso in tre gruppi: a Trieste, San Sabba c’è l’Abteilung R/1, a Fiume l’Abteilung R/2 e a Udine  l’Abteilung R/3 (Fölkel p. 53, 56, 123).

Certe fonti riferiscono che davanti al carcere di via Spalato, dove erano reclusi sospetti partigiani, ebrei e militari italiani in attesa della deportazione, ci fossero dei fascisti in abiti civili che, per intimidire, sparavano alle spalle delle donne che portavano vestiti puliti e cibo ai prigionieri. In carcere tra i partigiani rastrellati, c’è Luigi Barbarino, Matiònow (Resia 1914 – Flossembürg 1945). Era egli un appartenente al “Rozajanski bataljon”, collegato al IX Korpus di Tito dell’Osvobodilna Fronta – Fronte di Liberazione della Jugoslavia, con i capi venuti dalla Slovenia interna. Fu catturato a Resia dai nazisti, per una delazione e morì nel lager, per le ripetute percosse. “Ce lo raccontava sempre la zia Anna Valente – ha detto Lucillo Barbarino – che certi civili le sparavano alle spalle, per farle paura, gridando: ‘partigiana, partigiana’; la zia abitava in via Cisis e portava una gavetta di minestra a mio padre Luigi Barbarino. Lei e mio zio Odorico Valente aiutavano sempre la gente di Resia, che scendeva in treno dal paese in pianura a cercare cibo e aiuti vari. Ricordo che nel dopoguerra, mentre ritornavo a casa a Resia dal collegio di Cividale del Friuli per la domenica, vedevo salire in treno da Tricesimo a Gemona del Friuli le donne resiane, di Chiusaforte e di Pontebba con lo zaino pieno e il sacco di farina; erano andate a chiedere la carità ai friulani dei paesi, oppure scambiavano un po’ di noci, mele, o facevano qualche lavoro nei campi per avere roba da mangiare. C’era tanta fame e la gente dei paesi ci ha aiutato molto”.

Cimeli della Seconda Guerra mondiale. Bustina partigiana (titovka), Collez. di un resiano, elmetto italiano, gavetta italiana (piccola), gavetta di alpino (grande), borraccia americana e tascapane italiano. Coll. private Udine

Documenti originali

Renzo Piccoli, Dossier Firmino Piccoli, Udine, 18 marzo 2019, cc. 5, ms.

Fonti orali

Interviste effettuate da Elio Varutti con penna, taccuino e macchina fotografica a Udine. Lucillo Barbarino, Matjònawa, (Resia 1941), int. telefonica del 23 aprile 2020.

Renzo Piccoli, Fiume 1937, intervista del 18 marzo 2019.

Franco Pischiutti, Gemona del Friuli 1938, int. del 5 febbraio 2020.

Clelia Savino, Udine 1946, int. del 27 ottobre 2016.

Fulvia Zoratto, Udine 1950, int. del 19 marzo 2019.

Collezioni familiari. Lucillo Barbarino, Resia (UD), bustina partigiana 1944.

Giorgio Gorlato, esule da Dignano d’Istria a Udine, fotografia 2019.

Luciana Stella, di Milano, commento alla fotografia dell’esodo da Fiume 1945.

Famiglia Savino, Udine, fotografie, lettere, ritagli di giornali, 1944-2014.

Cenni bibliografici

Francesca Artico, “Morto ‘Ferro’, partigiano dei Diavoli Rossi”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Cervignano Latisana Bassa, 19 aprile 2020, p. 37.

Paolo Barbaro, Storie dei Ronchi, Venezia, Edizioni del Gazzettino, 1993.

Elio Bartolini, Il Ghebo, Udine, La Nuova Base, 1970.

Bruno Bonetti, Manlio Tamburlini e l’albergo nazionale di Udine, Pasian di Prato (UD), L’Orto della Cultura, 2017.

Rosanna Boratto (a cura di), La Carta della Gestapo. Decifrazioni e misteri di un itinerario della memoria, Udine ANPI, 2019.

Primo Cresta, Un partigiano dell’Osoppo al Confine orientale, Udine, Del Bianco, 1969.

“La criminosa impresa organizzata dopo un invito al ‘popolo’ ad agire contro il clero”, «Giornale di Trieste», 23 novembre 1951.

Julia Church, Per l’Australia: the story of Italian migration, Carlton Victoria (Melbourne), Miegunyah Press, in association with the Italian Historical Society (COASIT), 2005.

Maria Teresa Corso Regeni, Vocabolario maranese. Vocabolario fraseologico veneto-italiano varietà di Marano Lagunare (UD), Latisana (UD)-San Michele al Tagliamento (VE), la bassa / vocabolari 2, 1990.

Don Emilio, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1992.

Ferruccio Fölkel, La Risiera di San Sabba. L’Olocausto dimenticato: Trieste e il Litorale Adriatico durante l’occupazione nazista, Milano, Bur, 2000.

Plinio Palmano, “Al Grande Albergo di Via Spalato”, «Avanti cul Brun!», n. 46, 1946, pp. 99-107.

Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria. Chi imprigiona la verità sulla guerra civile, Sperling & Kupfer, 2007.

Bruna Sibille Sizia, Diario di una ragazza della Resistenza: Friuli 1943-’45, Udine, Kappa Vu, 1998.

Andrea Zannini, “Dal linciaggio di Solaro alla strage di Schio: alla fine della guerra scoppia la resa dei conti”, «Messaggero Veneto», 11 maggio 2020, p. 32.

Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Copertina: fotografia di Giorgio Gorlato a Renzo Piccoli durante una gita dell’ANVGD del 2019. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Elisabetta Reich, ebrea di Fiume, sopravvissuta ad Auschwitz

Salvare la memoria è lo scopo del presente articolo. Mi riferisce Riccardo Simoni, già geriatria all’Ospedale de “I Fraticini” di Firenze, una vicenda incredibile. Mentre è di turno, verso gli anni ’70, gli capita una paziente anziana ed elegante. Durante la visita medica, scoprendole il polso, con grande impressione gli capita di scorgere sull’avambraccio un numero tatuato 76.845, come per chi è stato rinchiuso in un lager nazista. Il dottor Simoni è specializzato anche in psichiatria, perciò con tutte le arti apprese e con la delicatezza del caso, cerca di parlare con la signora riguardo alla Shoah. “Scopro così che il suo nome è Elisabetta Reich, sposata Szegö – dice Simoni – nata a Fiume nel 1902 e, dopo il 1943, fuggita a Firenze in clandestinità e rifugiatasi in un convento”.

Abbazia, verso il 1920. Sposi. Firmata a mano, in basso a destra: “Jellusich- Mayer, Abbazia”. Coll. Bora

Poi, si dice, che l’avidità del cuoco del convento delle monache ebbe il sopravvento. Egli fa la spia. I delatori ricevono dal governo fascista la somma di 10 mila lire per ogni ebreo catturato, 5 mila lire per ogni femmina ebrea segnalata e 2 mila lire per ogni bambino fatto arrestare. Elisabetta Reich viene fermata il 15 marzo 1944 assieme al padre Alessandro Reich, in base alle Leggi razziali fasciste e alla RSI succube di Hitler. “Poi la signora Reich è imprigionata al campo di transito di Fossoli di Carpi (MO) – aggiunge Simoni – infine, il 5 aprile 1944, è deportata al lager di Auschwitz e si ricordava che all’arrivo alla stazione un bel capitano tedesco si rivolge al gruppo di deportati dicendo che chi fosse stanco e anziano poteva salire sul camion, mentre gli altri avrebbero proseguito a piedi, poi scoprì che il capitano così gentile era tale Josef Mengele, criminale nazista, detto l’angelo di Birkenau e quelli saliti sul camion non si sono più visti, perché li avevano tutti ammazzati all’arrivo”.

Come fa a salvarsi la signora Elisabetta Reich?

“Si salva è vero perché era piena di vita – risponde Simoni – anche dopo la marcia forzata da Auschwitz a Ravensbruck, dato che i sovietici erano in avvicinamento i nazisti spostarono i prigionieri in un altro lager nell’interno. Si salvò e visse per qualche tempo in Svizzera, dove scrisse un memoriale, in tedesco, di oltre 100 pagine sulle sue tribolazioni nel lager, quel manoscritto è rimasto in famiglia, così mi spiegò la figlia Adriana Szegö a Firenze”.

Chi è vissuto sotto l’Austria-Ungheria, o più in generale nei Balcani tra Ottocento e Novecento ‘il tedesco se lo porta in testa’, come ha scritto Elias Canetti. Ci sono altri ricordi della signora di Fiume?

“La signora Reich – conclude Simoni – mi raccontava che negli anni ’20 ad Abbazia, presso Fiume, credo nel sanatorio Szegö, c’era un’intensa vita culturale, tanto che facevano i sabati letterari con Edoardo Weiss, Sándor Ferenczi ed altri allievi di Sigmund Freud. Erano tempi così”.

1890 ca, fotografia “E. Jelussich – Abbazia”. Coll. Bora

Altri cenni biografici di Elisabetta Reich

Come già accennato, Elisabetta Reich nasce a Fiume il 30 settembre 1902 da Alessandro e Dora Weiss, secondo le ricerche di Liliana Picciotto. Fuggita clandestina a Firenze con la famiglia, nel 1943, subisce le persecuzioni nazifasciste. Coniugata con Paolo Szegoe, è arrestata a Firenze e reclusa al Campo di raccolta di Fossoli di Carpi (MO), per essere deportata il 5 aprile 1944 al Campo di sterminio di Auschwitz col convoglio n. 9. La data di arrivo del convoglio ad Auschwitz è il 10 aprile successivo. È marchiata col numero di matricola: 76845. Sopravvive alla Shoah, ma non il marito e nemmeno il padre, come conclude la Picciotto.

Come ha scritto Federico Falk la famiglia Reich a Fiume abita in via del Pomerio 9, nella stessa strada dove, nel 1902, viene costruita dall’impresa Conighi l’elegante sinagoga in stile moresco, devastata dai nazisti nel 1944. I ruderi del luogo di culto sono poi livellati sotto Tito. Il capofamiglia è Alessandro Reich, fu Bernardo e fu Rosalia Deutsch, nato a Bonyhád (Ungheria) il 9 luglio 1868. È commerciante in chincaglierie, giocattoli ed altro con bel negozio in Corso Vittorio Emanuele III. Vive a Fiume dal 1898. Riceve la cittadinanza italiana per concessione del 21 agosto 1930. Alessandro Reich è coniugato con Dora Weiss, fu Giuseppe e fu Rosa Echfeld, nata  l’11 novembre 1878 a Novi Sad (all’epoca Ungheria, poi negli anni Venti: Jugoslavia). Dora, casalinga, coadiuva il marito nella frequentata azienda commerciale fiumana. I coniugi Alessandro e Dora Reich hanno due figli: Elisabetta, nata a Fiume nel 1902, casalinga, coniugata con Paolo Szegö, residente a Firenze e Federico, nato a Fiume, commerciante, emigrato negli USA. Paolo Szegö è deportato a Theresienstadt, o Terezín (oggi in Repubblica Ceca).

I coniugi Paolo ed Elisabetta Szegö avevano due figlie: Melitta Tatiana, nata a Fiume nel 1922, residente a Napoli, e Adriana, nata a Fiume il 21 settembre 1925, deceduta a Firenze il 15 dicembre 2004. Dopo l’occupazione nazista di Fiume del 1943 Alessandro Reich e la moglie si rifugiano a Firenze, dove egli venne arrestato assieme alla figlia. Detenuti a Fossoli, vengono deportati da Fossoli il 5 aprile 1944 ad Auschwitz, dove Alessandro Reich venne ucciso all’arrivo il 10 aprile 1944, mentre la figlia viene liberata e ritorna a Firenze, dove muore il 19 maggio 1982. Dora Weiss si salva nella clandestinità e, dopo la guerra, raggiunge il figlio negli USA dove in seguito muore, come conclude Federico Falk nel suo saggio on line. Auschwitz è un insieme di campi di concentramento e di lavoro nazisti situato nelle vicinanze della cittadina polacca di Oświęcim.

Quante vittime ha fatto la Shoah a Fiume ed Abbazia? I dati degli storici non sempre coincidono, ma siamo sull’ordine di 275-300 ebrei fiumani imprigionati e deportati nei campi di sterminio. Secondo Curci, gli ebrei residenti nel 1940, in base ai dati della prefettura, erano 1.105. Quelli rastrellati e deportati ammontano a 243 persone, delle quali solo 19 sopravvissero (Curci, p. 120). Si aggiunga che il monumento inaugurato a Fiume, nel Cimitero di Cosala, il 17 giugno 1981, è dedicato ai 275 deportati già appartenenti alla Comunità ebraica della città del Golfo del Quarnaro. Nel cimitero di Cosala a Fiume, ancor oggi, fanno la loro storica presenza le tombe delle famiglie Reich, Weiss e Szegö.

Gruss aus Abbazia. Cartolina di Abbazia con l’Hotel Quarnero; primi del ‘900

Il Sanatorio Szegoe di Abbazia

La famiglia Szegö è legata al “Kurhaus”, clinica del dottor Kalman Szegoe di Abbazia, oggi Opatija, in Croazia. Era detto anche Sanatorio Szegoe; era specializzato nella cura di pazienti di malattie polmonari. Su raffinato progetto dell’architetto Max Fabiani, il sanatorio viene edificato a fine Ottocento dall’azienda che aveva la seguente intestazione: “Carlo ing. Conighi, Impresa di costruzioni, Fiume – Abbazia”. Come si legge su «La Vedetta d’Italia» del 26 febbraio 1933, l’articolista attribuisce ai Conighi varie costruzioni di Fiume ed Abbazia. Tra di esse ci sono “le più sfarzose ville della riviera degli anni Trenta”, come la villa Rosalia, la villa Adria, la villa Nettuno, le ville barone Ransonnett, Smith, Harey, Frappart, Portheim, Janet, Italia, oltre all’Hotel Bellevue e al Sanatorio Szegoe. La sinagoga di via Pomerio a Fiume, di “aspetto orientaleggiante”, opera del 1902, fu fatta saltare in aria nel 1944, in un attentato antisemita. Carlo Alessandro Conighi, triestino di nascita, è a Trieste nel 1878, componente della Commissione per strade, ponti e strade ferrate della Società d’Ingegneri ed Architetti in Trieste. Il sanatorio di Abbazia è citato nella Guida sanitaria italiana del 1924, a pag. 668.

Abbazia, fratelli e cugini; sullo sfondo l’Hotel Qvarner. Anni ’40. Coll. Bora

Il fotografo Edmund Jelusich di Abbazia

Jellusich Edmund, o Edmondo di Fiume, opera nell’Impero Austro-Ungarico. Quale fotografo di Fiume, è menzionato nelle raccolte fotografiche del Museo Marittimo e Storico del Litorale Croato di Fiume verso il 1890 (Museo Fiume; vedi in Bibliografia). Ha in Corso 23 lo stabilimento fotografico per la produzione di ritratti; è presente pure in Abbazia, documentato nel periodo 1900-1912 in base ad album di famiglia di Fiume e Roma (Coll. F. Conighi). Secondo certi autori inizia la sua carriera ad Abbazia nel 1886. È uno dei dodici fotografi attivi ad Abbazia nel 1914. Pare sia noto con altre varie grafie, come Edmond Jelusich, oppure Jelusic, o Jellusig (Smokvina). Nel 1914 ha una succursale presso il fotografo Andrioni, recando l’indicazione di “Andrioni & Co., succursale di E. Jellusich” sul verso delle fotografie in album di famiglie di Fiume scappate, col potere dei titini, dopo il 1945 verso Udine (Coll. H. Conighi). In certi ritratti fotografici, del 1928, appartenenti ad altri album familiari, dopo che Fiume è stata annessa al Regno d’Italia, comprare solo questa indicazione: “Andrioni & Co.” (Coll. Lupetich). C’è una sua firma manoscritta in una fotografia di una coppia di sposi, verso il 1920, “Jellusich- Mayer, Abbazia”; si veda la fotografia riportata più sopra (Coll. Bora).

Cambia volto Abbazia nel XIX secolo, luogo si soggiorno e cura della Mitteleuropa, dei nobili russi, nonché sito di incontri culturali sulla psicanalisi, inframmezzati da assaggi di fette di torta Dobos o di Buchtel col ripieno di marmellata alle albicocche. Non è più come la descrive qualche decennio prima, con estrema crudezza, Anton Čechov, nel racconto intitolato Arianna: “Siete stato ad Abbazia? È una cittadina slava, sporca, con una sola strada puzzolente, in cui dopo la pioggia è impossibile camminare senza soprascarpe. (…) Adesso, mentre coi pantaloni rimboccati attraversavo con precauzione quella strada angusta, e compravo svogliatamente delle pere acerbe da una vecchia (…) provavo vergogna e dispetto”.

Targa commemorativa al Campo di transito di Fossoli di Carpi (MO); foto Varutti, 2020

Fonte originale

Si è cercato di confrontare la testimonianza con i documenti e con gli studi in letteratura. Per la collaborazione riservata alla ricerca, oltre che a Mariateresa Bora, di mamma Abbaziana, che sta a Camogli (GE), si è riconoscenti a: Riccardo Simoni, Rovigno 1940, esule a San Casciano in Val di Pesa (FI), intervista telefonica a cura di Elio Varutti del 2 e del 5 aprile 2020. La redazione del blog ringrazia il signor Claudio Ausilio, esule da Fiume e socio dell’ANVGD di Arezzo, che ha cortesemente fornito i contatti per la ricerca presso il dottor Riccardo Simoni, andando a consolidare una tradizionale e continua collaborazione con l’ANVGD di Udine.

Collezioni familiari

Si precisa che il corredo fotografico dell’articolo presente non contiene immagini dei Reich- Szegoe, principali protagonisti della tragica vicenda, ma solo di contesto geografico, grazie ai pubblici archivi e alle collezioni familiari menzionate, che si ringraziano per la cortese concessione alla pubblicazione e citazione nel blog.

  • Mariateresa Bora, di Abbazia; immagini inedite.
  • Ferruccio Conighi, esule da Fiume a Roma, ora in Coll. privata, Udine.
  • Helga Conighi, esule da Fiume a Udine, ora in Coll. fam. Conighi, Udine.
  • Giovanni Lupetich, con avi di Fiume, esule a Belluno.
Abbazia, Strandpromenade, cartolina viaggiata 1° aprile 1913. Coll. Varutti

Bibliografia, sitologia ragionata e abbreviazioni

  1. Sui costruttori Conighi di Fiume si vedano i seguenti materiali.

Archiv des Vereines der Österreichischen Gesellschaft vom Goldenen Kreuze, Wien (Austria).

Atti della Società d’Ingegneri ed Architetti di Trieste, I, V, 1878.

“Carlo Conighi ingegnere e patriota festeggia oggi il suo ottantesimo compleanno”, «La Vedetta d’Italia», Fiume, 26 febbraio 1933, p. 2.

E. Varutti, Shoah a Udine sud. Campi di concentramento e dicerie, on line dal 24 gennaio 2020. https://eliovarutti.wordpress.com/2020/01/24/shoah-a-udine-sud-campi-di-concentramento-e-dicerie/

E. Varutti, Le Case Penso e Unione dei costruttori Conighi di Fiume, 1908, on line dal 28 febbraio 2020.

2. Riguardo al sanatorio Szegoe e agli ebrei di Fiume ed Abbazia perseguitati dai nazifascisti si sono utilizzati i sottoelencati prodotti.

Elias Canetti, Die gerettete Zunge. Geschichte einer Jugend, München, Hanser, 1977, traduzione ital. di A. Pandolfi e R. Colorni, La lingua salvata. Storia di una giovinezza, Milano, Adelphi, 1980, XI ediz.: 2005, pag. 22.

Roberto Curci, Via San Nicolò. Traditori e traditi nella Trieste nazista, Bologna, Il Mulino, 2015.

Federico  Falk (a cura di), Le comunità israelitiche di Fiume e Abbazia tra le due guerre mondiali. Gli ebrei residenti nella provincia del Carnaro negli anni 1915 – 1945, nel web dal 26 febbraio 2016.    https://www.bh.org.il/jewish-spotlight/fiume/?page_id=499

Guida sanitaria italiana (Annuario sanitario d’Italia), XVI, N.S., n. 3, Milano, Unitas, 1924.

Liliana Picciotto, Il libro della memoria: gli ebrei deportati dall’Italia, 1943-1945, ricerca della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, Milano, Mursia, 2002, pp. 77-80, pp. 66-71. Dal seguente sito web.

http://digital-library.cdec.it/cdec-web/persone/detail/person-7486/reich-elisabetta.html

3. Per la storia della fotografia di Fiume e Abbazia si sono consultati, oltre a varie collezioni familiari i seguenti testi.

Anton Čechov, I grandi racconti (ediz. origin.: Sankt-Petersburg, 1903), versione di Ercole Reggio e Marussia Shkirmantova, Milano, Garzanti, 1965.

Museo Fiume = Museo marittimo e storico del litorale croato, Fiume / Maritime and History Museum of the Croatian Littoral Rijeka. Curatrice della Sezione fotografica: Margita Cvijetinović Starac.    http://ppmhp.hr/en/zbirka-fotografija/

Smokvina = Milijienko Smokvina, Istria tra ottocento e novecento. Apporti alla conoscenza della storia della fotografia in Istria, Istrianet.org, Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia (CRAF), Spilimbergo (PN), on-line dal 27 gennaio 2013.

http://www.istrianet.org/istria/visual_arts/archives/photographs/1800-1900_storia.htm

http://www.craf-fvg.it/ita/craf/cont_d.asp?Cont_ID=104

E. Varutti, Cartoline d’Istria, Fiume e Dalmazia 1900-1965, on line dal 20 agosto 2018.

Cartolina di Fiume viaggiata ai primi del ‘900

Servizio giornalistico, di ricerca e di Networking a cura di Girolamo Jacobson, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettrice: Daniela Conighi. Copertina: Das Kurhaus in Abbazia, progetto di Max Fabiani (firma in basso a destra) 1898, realizzato in parte dall’Impresa Carlo Conighi; noto pure come Sanatorio Szegoe. Archiv des Vereines der Österreichischen Gesellschaft vom Goldenen Kreuze, Wien. Fotografie da collezioni pubbliche e private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Valori della disobbedienza. L’epopea dannunziana dalla Marcia di Ronchi al Natale di Sangue (Fiume d’Italia, 1919 -1920)

Pubblichiamo un lungo e interessante articolo di Carlo Cesare Montani sull’epopea dannunziana, nel centenario dell’impresa di Fiume. Ringraziamo l’autore per avercelo segnalato con la possibilità di diffonderlo in questo blog (Elio Varutti). Networking a cura di Sebastiano Pio Zucchiatti.

A quasi mezzo secolo dalla categorica affermazione di Don Lorenzo Milani secondo cui l’obbedienza ha cessato di essere una virtù, il centenario dell’Impresa di Fiume compiuta da Gabriele d’Annunzio e dai suoi legionari (12 settembre 1919) costituisce una buona occasione per sottolineare che l’assunto ha radici assai più lontane rispetto a quelle del Priore di Barbiana: senza rammentare Antigone, che aveva sfidato il tiranno di turno per affermare la priorità delle “alte non scritte ed inconcusse leggi” viventi nel cuore degli uomini di buona volontà, od i tanti Eroi del Risorgimento che sacrificarono la vita nella lunga lotta patriottica contro l’assolutismo dispotico della Santa Alleanza, cui si ispirava la “giustizia” austro-ungarica, è d’uopo affermare che la deroga consapevole al cosiddetto ordine costituito ricorre regolarmente nella storia umana e civile con manifestazioni di alto impegno etico e politico, attraverso il volitivo confronto coi “poteri forti”.

In altri termini, la disobbedienza riveniente da giudizi maturi e consapevoli circa l’iniquità di talune manifestazioni del potere improntate ad un “furore” per molti aspetti demoniaco, diventa virtù nel senso petrarchesco o machiavelliano della parola (1) o meglio, un imperativo categorico imposto dalla legge morale che è dentro di noi come il cielo stellato è sopra di noi, secondo la suggestiva immagine della filosofia idealistica.

La Marcia di Ronchi e tutta la complessa vicenda che le fece seguito, dalla proclamazione della Reggenza Italiana del Carnaro (8 settembre 1920) al successivo Natale di Sangue che chiuse l’esperienza di Gabriele d’Annunzio e dello “Stato legionario” con una vera prova di guerra civile, si inseriscono in questa ottica, a rinnovata dimostrazione del fatto che il nobile sentire può coniugarsi con il forte agire nel perseguimento di “egregie cose”. Del resto, lo stesso Ammiraglio Nelson, il discusso avversario implacabile di Napoleone, aveva affermato che “il coraggio più nobile e raro è quello di disobbedire agli ordini” quando siano “in conflitto con l’onore nazionale”.

La citazione è tratta dall’opera di Giordano Bruno Guerri (Disobbedisco. Cinquecento giorni di Rivoluzione: Fiume 1919-1920, Le Scie Mondadori, Milano 2019, pagg. 552) che ha integrato la sterminata bibliografia sulla vicenda della Fiume dannunziana con un’analisi di grande impatto mediatico, tanto più che si è affiancata ad una mostra di sicuro ed efficace richiamo, dando un’interpretazione sostanzialmente equidistante di quei sedici mesi che cambiarono davvero l’Italia, in ossequio all’insegnamento di Tacito, secondo cui “chi professa incorrotta fedeltà al vero, di ciascuno deve parlare senza amore e senza odio”: compito sempre arduo, in specie quando si toccano le corde di una sensibilità tuttora viva e vivace come quella per l’opera politica del Vate, ma tanto più necessario nel momento in cui, trascorso un secolo dalla Marcia di Ronchi, un giudizio storico complesso ed oggettivo diventa inderogabile, se non altro nell’ottica scientifica.

Questa tipologia di giudizio presume una conoscenza esaustiva dei fatti, e naturalmente, delle motivazioni ideali e politiche che furono alla base della loro maturazione, sia nell’opera quasi demiurgica del Comandante, sia in quella del vastissimo concorso di tutti coloro che lo affiancarono nell’Impresa, o che gli furono avversari. In tal senso, è sempre utile ripercorrere con spirito critico l’epopea dannunziana, anche con l’ausilio di tante vicende apparentemente minori, tali da completare con utili integrazioni l’affresco di quella storia irripetibile, ma destinata ad avere un impatto significativo nella storia, non soltanto italiana, degli anni e dei decenni successivi.

Come si diceva, quella di Fiume fu una prova di guerra civile: nel caso di specie, fra la Patria legionaria e l’Italia ufficiale, che alla fine non ebbe esitazioni ad usare la forza militare per chiudere la questione e dare esecuzione al trattato di Rapallo con cui il Governo di Roma, presieduto da Giovanni Giolitti, si era illuso di chiudere il contenzioso col nuovo Stato jugoslavo. D’altro canto, quella prova aveva avuto qualche precedente durante la stessa vicenda della Fiume dannunziana, come nel caso del giovane trevigiano Luigi Siviero, il primo Caduto dell’Olocausta (2) colpito dal fuoco “regolare” ai primi di novembre del 1919; e come nel caso – ancora più grave – del maggio 1920,  quando la defezione dei Carabinieri di Rocco Vadalà si concluse con lo scontro di Cantrida in cui, nonostante l’intervento del Gen. Sante Ceccherini, Capo delle forze di occupazione, due di costoro persero la vita, mentre quattro legionari vennero feriti: chiaro effetto delle diverse anime dell’Impresa, l’una legalitaria e l’altra rivoluzionaria, anche se la seconda avrebbe preso rapidamente il sopravvento.

Si deve aggiungere che Gabriele d’Annunzio, nonostante le non dissimulate simpatie per la componente oltranzista dei suoi uomini – in contrapposizione a quella “governativa” – non avrebbe mai sconfessato chicchessia, ed anzi, come nel caso dello stesso Vadalà, e più tardi, di Ceccherini e dello stesso Maffeo Pantaleoni, che pure aveva nominato Rettore di Finanze e Tesoro della Reggenza, non si sarebbe opposto alla loro partenza da Fiume, pur bollando con alte parole di dissenso il loro pur amaro e certamente sofferto disimpegno. Considerazioni analoghe valgono a più forte ragione per Giovanni Giuriati, che si sarebbe allontanato dopo la bocciatura del “modus vivendi” proposto alla fine del 1919, per essere sostituito da Alceste De Ambris, ma che poi sarebbe tornato nella squadra del Comandante anche alla luce delle sue capacità diplomatiche (ed anni dopo, preposto da Benito Mussolini alla segreteria del Partito Nazionale Fascista).

La posizione rigorosamente alternativa che il Comandante mantenne nei confronti di Roma, dapprima col Governo di Francesco Saverio Nitti, e poi con quello dello stesso Giolitti, ha dato luogo alla diffusa presunzione secondo cui avrebbe anticipato e promosso l’avvento al potere da parte del fascismo, sopraggiunto a circa due anni dalla fine della Reggenza. In effetti, la questione è più complessa di quanto possa apparire “ex prima facie”: è vero che Gabriele d’Annunzio confidò sino all’ultimo nel supporto dei fasci di Mussolini, ma è anche vero che quest’ultimo, a differenza del Vate, aveva ben compreso come i tempi non fossero ancora maturi, con quale delusione e disillusione del “Grande Uscocco” è facile immaginare. D’altro canto, sta di fatto che il fascismo, sia nella fase di preparazione, sia in quella di gestione del potere, avrebbe mutuato a piene mani l’esempio dannunziano, a cominciare dalle formule di rito, dal dialogo con la folla, e dalle celebrazioni simboliche e fideistiche; quanto al Comandante, ormai ritirato nell’eremo del Vittoriale, avrebbe sempre manifestato attenzioni non formali – e non disinteressate – nei confronti del “caro compagno” sino all’ultimo incontro del 30 settembre 1937, quando si fece accompagnare alla stazione ferroviaria di Verona per rendere omaggio al Duce di ritorno dalla Germania dove si era incontrato con Hitler, ma non senza metterlo in guardia nei riguardi di “Attila imbianchino”. Aveva visto giusto, ma ormai era un sopravvissuto che sarebbe scomparso cinque mesi più tardi.  

* * *

D’Annunzio era perfettamente consapevole della sua disubbidienza, che considerava valore fondante di una nuova epoca: quella che era nata dall’interventismo, dal futurismo, dal nazionalismo, ed in ultima analisi, dall’esperienza “rivoluzionaria” della Grande Guerra. Non a caso, aveva sottolineato il salto di qualità che raccogliendo il “grido di dolore” proveniente da Fiume, era stato fatto proprio dai “Giurati di Ronchi” ed a seguire, da tutti coloro che avevano condiviso l’appello del Comandante: reduci di tutte le armi e giovanissimi volontari (3) senza escludere qualche Generale in servizio come Corrado Tamajo e lo stesso Sante Ceccherini, trasferitosi a Fiume con tutta la famiglia, ivi compresi il figlio Venanzio, tenente di vascello già pluridecorato al Valor Militare, e la figlia Eugenia appena diciassettenne, che nonostante la giovane età avrebbe messo a tacere un disfattista reo di aver affermato come non fosse il caso di portare una giovane fanciulla nella “cloaca” di Fiume, con chiare allusioni alla suggestione libertaria della Città di Vita (4).

Grazie al “Grande Orbo” Fiume divenne un laboratorio di straordinario rilievo anche dal punto di vista giuridico: in primo luogo, nell’ambito del diritto costituzionale, dove la “Carta del Carnaro” predisposta da Alceste De Ambris ma riveduta e corretta dallo stesso Gabriele d’Annunzio, fu un “quid novi” destinato a suscitare forti consensi, non disgiunti da ricorrenti preoccupazioni, in specie per l’affermazione della proprietà come valore sociale, e volano propulsivo destinato a promuovere gli investimenti, fermo restando che i padroni “infingardi” avrebbero dovuto essere penalizzati per il loro sterile attendismo. Non solo per questo, la “Carta” resta un documento di grande modernità per avere anticipato tante conquiste successive, come la parità fra uomini e donne, il suffragio universale, il carattere laico dello Stato, l’uguaglianza di diritti e doveri, la tutela del lavoro, la rappresentanza delle minoranze, la promozione della cultura, e via dicendo: il tutto, corretto dalla figura del Comandante, munito di pieni poteri, ma sulla falsariga dei dittatori dell’antica Repubblica Romana, destinati a rimanere in carica durante le emergenze, e per un periodo di tempo non eccedente il semestre (5).  E’ inutile precisare che la “Carta” sarebbe rimasta un semplice documento storico – giuridico a futura memoria, fatta eccezione per i “Rettori” (ovvero i Ministri della Reggenza) che furono subito nominati e che rimasero in carica per meno di quattro mesi: quelli intercorsi fra la proclamazione del nuovo Stato di Fiume ed il Natale di Sangue.

Non meno significativo fu l’impatto internazionale dell’Impresa fiumana, a cominciare dai rapporti che Gabriele d’Annunzio e la sua squadra tennero con una cinquantina di “nazionalità oppresse” ed in qualche caso, con un impatto destinato a lasciare segni potenzialmente fecondi, come accadde con l’Egitto grazie a Said Zaghlul, con l’Irlanda tramite Sean O’Kelly, e soprattutto con la Russia sovietica, in virtù della relazione con il responsabile per l’Estero Georgij Cicerin, che poi fu ospite al Vittoriale, senza dire del “trattato” di cooperazione concluso con il Montenegro. Nella medesima ottica, il Comandante, che durante la Reggenza avrebbe tenuto per sé il Rettorato degli Affari Esteri, non avrebbe trascurato di avviare una rete diplomatica sia pure filiforme, istituendo delegazioni ufficiali a Roma, a Parigi, e soprattutto a Nuova York, dove l’opera di Whitney Warren si sarebbe rivelata di grande utilità, se non altro sul piano informativo e promozionale, tanto più utile dopo il ripetuto “pronunciamento” filo-slavo di cui il Presidente nordamericano Wilson aveva dato ampie manifestazioni durante le trattative di pace.

Sul piano interno, la vivace attività del regime di occupazione, e poi della Reggenza, quando il Dicastero degli Interni venne affidato ad Icilio Baccich (destinato a cadere Vittima dei partigiani slavi nel maggio 1945 assieme a Riccardo Gigante) ebbe momenti di particolare visibilità ben oltre i confini fiumani, come quando la Città Olocausta venne visitata da Guglielmo Marconi, giunto a Fiume nel settembre 1920 subito dopo la proclamazione del nuovo Stato sovrano (sia pure col permanente disegno ultimo di annessione all’Italia); e due mesi dopo, con l’arrivo del celebre Maestro Arturo Toscanini che diresse un indimenticabile concerto,  di fama non impari a quella che aveva caratterizzato le direzioni effettuate dallo stesso Toscanini sui fronti della Grande Guerra. In settembre, come ha riferito Giordano Bruno Guerri, Fiume aveva potuto registrare una vittoria davvero significativa: quella sulla peste bubbonica, che era scoppiata in città per contagio apportato da una nave proveniente dall’Est europeo, ma che venne prontamente debellata grazie alla solerte opera di profilassi, tanto più commendevole viste le particolari, gravissime difficoltà del momento.

Il carattere laico della Fiume dannunziana non fu tale da impedire manifestazioni religiose sempre suggestive, ed in qualche caso coinvolgenti, sia pure nell’ambito di una sostanziale subordinazione alla politica (6) che tuttavia resta intesa come momento di alta valenza etica in cui la realtà dello Stato avrebbe dovuto coniugarsi con quella dei cittadini, in quanto soggetti di diritti e di doveri, preposti al perseguimento di un interesse generale: in ultima analisi, il bene comune a cui è possibile giungere soltanto attraverso la vita associata, lungi da ogni tentazione solipsistica e da ogni devianza, e naturalmente subordinata ad una giustizia che peraltro fu generalmente indulgente, con ripetuti proscioglimenti, dichiarazioni di non luogo a procedere, ed al massimo, con condanne mitissime. Del resto, i reati compiuti a Fiume non erano quelli contro la realtà etica dello Stato, quali la cospirazione o la diserzione davanti al nemico, ma si limitavano a fatti di ordinaria amministrazione in una realtà molto particolare di bisogno, tale da motivare, a più alto livello, la prassi piratesca di sequestro delle navi altrui e dei relativi carichi.

Alla predetta vocazione laica deve conformarsi il rapporto col mondo femminile, ed in primo luogo con le donne legionarie (7) ricordate con dovizia di nomi e cognomi da Giordano Bruno Guerri, diversamente da altri storici dannunziani di riferimento epocale o contemporaneo, quali Edoardo Susmel e Pietro Cappellari: quelle donne erano personaggi emancipati, ma non per questo necessariamente inclini a mettere in pratica la “morale” libertaria. Ciò non significa che, nei sedici mesi di governo del Comandante, Fiume non fosse diventata punto d’incontro di avventurieri e di prostitute, come è sempre avvenuto in circostanze analoghe, dando luogo a diffusi ma contenuti dissensi nell’ambito della popolazione locale, e quel che più conta, senza apprezzabili reviviscenze di un autonomismo che avrebbe avuto vita breve anche dopo il Natale di Sangue, con la partenza dei legionari, e subito dopo, con quella di Gabriele d’Annunzio.

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La disubbidienza, intesa come valore patriottico (8) ed in qualche misura, quale devianza dal “giure comune per fine di pubblica utilità” secondo l’antica definizione secentista della “Ragione di Stato”, ebbe una prima, icastica visibilità in occasione dello sfondamento della barra confinaria a Cantrida, quando il Gen. Vittorio Emanuele Pittaluga, irretito dall’invito del Comandante a fargli sparare sulla Medaglia d’Oro che teneva orgogliosamente sul petto, lasciò via libera al piccolo esercito legionario. Dopo le numerose, ulteriori manifestazioni di dissenso nei confronti dell’ordine costituito, la disubbidienza pervenne ai vertici a seguito del trattato di Rapallo (12 novembre 1920) quale presupposto dell’ultima resistenza dannunziana, che – giova rammentarlo –  fu preceduta dalla dichiarazione del Comandante volta a lasciar liberi i suoi legionari di decidere secondo scienza e coscienza, cui fece seguito la partenza di una cinquantina di uomini, a valere sui cinquemila che costituivano l’organico dei dannunziani, comprensivo della “Legione Fiumana”: chiara dimostrazione di un consenso plebiscitario anche nell’ora decisiva, e della comune fedeltà al vecchio giuramento nonostante la deroga concessa dal Vate, avuto riguardo alla nuova, nonché straordinaria emergenza.

 In effetti, dopo Rapallo sarebbe stato possibile più volte pervenire ad una sorta di “entente cordiale” o quanto meno ad un compromesso idoneo a salvare la faccia di entrambe le parti in causa. Al contrario, il Comandante fu irremovibile, anche perché illuso da qualche ulteriore defezione di forze “regolari” come quelle dei cacciatorpediniere “Bronzetti” ed “Espero”, della torpediniera “68-PN”, e di alcune autoblindo appartenenti al posto di guardia terrestre di Laurana, in agro di Abbazia: nondimeno, un’ultima “chance” sarebbe stata offerta il 14 dicembre dalla petizione di ottanta senatori volta a promuovere il riconoscimento dello Stato libero dannunziano, tanto più che il trattato italo – jugoslavo aveva statuito, per Fiume ed il suo territorio, proprio la creazione di una realtà statuale indipendente, collegata direttamente all’Italia con una “bretella” costiera.

Sopravvenne la ratifica parlamentare del trattato, votata con una maggioranza quasi schiacciante (215 voti favorevoli e 29 contrari) cui Gabriele d’Annunzio, fedele sino all’ultimo al principio della disubbidienza, rispose non senza accenti farseschi con “La Carta di Laverna” (l’antica dea latina dei ladroni e dei falsari) dove chiosava con triste umorismo il documento voluto e firmato da un Giolitti visto nel ruolo di “quinto Evangelista coprofago”.

Il Consiglio dei Rettori, immediatamente convocato, decise per la resistenza ad oltranza con voto unanime,  reso possibile come tale dalla partenza di Maffeo Pantaleoni, in dissenso ormai definitivo dalla linea del Comandante, senza dire che gli Organi locali deliberarono, a loro volta, di non ratificare il trattato di Rapallo, affermando come la volontà di Fiume fosse quella di non permettere che venisse violata la sovranità della Reggenza Italiana del Carnaro: ne scaturiva un’evidente convergenza di volontà che elideva ogni precedente discrasia tra il mondo legionario ed il notabilato cittadino, e ravvisava nella disubbidienza la sola risposta possibile al Governo di Roma. Probabilmente, non tutte le speranze circa possibili sommovimenti italiani erano state ancora riposte, sebbene – almeno in prospettiva – le sorti puramente militari del conflitto fossero sostanzialmente segnate: in altri termini, Fiume stava diventando davvero la Città Olocausta.

Il resto è storia nota. A partire dalla mezzanotte del 21 dicembre venne dichiarato lo stato di guerra, sia pure in assenza di operazioni immediate: forse, per la concomitanza natalizia in una città deserta ancora addobbata in vista delle prossime celebrazioni, o per la presunzione del Comando “regolare” circa una possibile retromarcia legionaria “in extremis”. Non fu così: il Natale di Sangue vide il sacrificio quasi paritetico di circa cinquanta uomini appartenenti ad entrambe le forze in campo (le fonti non sono concordi circa la cifra esatta) cui si aggiunse quello di sei civili tra cui una bambina; e naturalmente, un numero superiore di feriti, alcuni dei quali gravi. Poi, una ragione postuma ebbe il sopravvento, ma il Comandante aveva dimostrato al mondo intero di avere ceduto alla violenza, e tuttavia, proprio per questo, di essere il vincitore morale di quella guerra civile che aveva assunto il carattere di un paradosso, ed evidenziava l’esistenza di una frattura destinata a lasciare tracce durature nella storia d’Italia, anche se Gabriele d’Annunzio, dopo avere dichiarato prima di Natale che “insorgere è risorgere” poteva fregiarsi, all’indomani di Capodanno, dell’onore di essere l’aedo della riconciliazione, pronunciando il celebre “Alalà°  funebre di Cosala (9) in ossequio a tutti i Caduti.

La storiografia si è interrogata più volte sulle ragioni per cui il Comandante aveva voluto perseverare nella disubbidienza fino all’ultimo, ravvisandole in una sorta di superomismo egocentrico, in un esacerbato senso dell’onore militare, o più verosimilmente, nell’ingenua speranza di un “deus ex machina” capace di ribellarsi al Governo di Roma: del resto, non è forse vero che si era parlato di una marcia “da Fiume” e addirittura, di una prossima annessione dell’Italia da parte di Fiume?

Il Comandante aveva rischiato di persona quando i colpi di cannone partiti dalle navi da guerra italiane  inquadrarono il Palazzo della Reggenza e colpirono lo studio del “Grande Uscocco”. Forse, solo in quel momento avrebbe compreso che la disubbidienza costituisce una virtù ma non per questo è garanzia di successo. Molto più tardi, il 26 febbraio 1938 – alla vigilia della morte avvenuta il primo marzo – secondo una testimonianza della governante, la fedele Aélis che lo sorprese in lacrime nel tragico rammarico di avere “disperso tutto al vento” dopo essere stato “tanto amato”, avrebbe compreso davvero che “il più forte è soltanto l’Amore”. Quelle lacrime inducono una presunzione: il “Dio che atterra e suscita” di manzoniana memoria – dopo avere posato sulla “deserta coltrice” di Napoleone Bonaparte – non può aver toccato il cuore di un Uomo di fede come Gabriele d’Annunzio che aveva disubbidito per Amore?

Carlo Cesare Montani – Esule da Fiume

Annotazioni

(1) – Il riferimento riguarda l’ode all’Italia del Petrarca, rivolta ai potenti della sua epoca affinché prendessero coscienza delle attese di riscatto avvertite sin da quella stagione plumbea: “pur che voi mostriate / segno alcun di pietate / vertù contra furore / prenderà l’arme, e fia ‘l combatter corto / ché l’antiquo valore / negl’italici cor non è ancor morto” (Francesco Petrarca, Rime e Trionfi, a cura di Raffaello Ramat, Editore Rizzoli, Milano 1957, pag. 237). Quanto al Segretario fiorentino, la sua idea di “virtù” riguarda le doti necessarie al Principe nell’opera volta a difendere quella “patria mia” che “amo più dell’anima” (Nicolò Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori del 16 aprile 1527, in “Scritti politici”, a cura di Antonio Panella, Editore Rizzoli, Milano 1939, pag. 847).

(2) – Il ricordo di Luigi Siviero e dell’omaggio che Elena d’Aosta, consorte del Duca Emanuele Filiberto di Savoia, e figlia del Conte di Parigi, rese alla Salma del Caduto il 4 novembre, ricorrendo il primo anniversario della Vittoria, fu sempre vivo nel Comandante, che volle il “piccolo fante” in una delle Arche del Vittoriale vicine alla sua, assieme a quelle di Mario Asso, Italo Conci e Antonio Gottardo, Caduti durante il Natale di Sangue, ed a quelle di Guido Keller, Giuseppe Piffer ed Ernesto Cabruna che erano stati con lui a Fiume, con ruoli di rilievo, e che scomparvero in tempi successivi. Fra le altre Arche, tutte volute da Gabriele d’Annunzio, esistono quella di Giancarlo Maroni, l’architetto del Vittoriale, oltre ai due cenotafi di Antonio Locatelli (unico Italiano decorato di tre Medaglie d’Oro al Valor Militare, Caduto in Etiopia) e di Riccardo Gigante, Podestà di Fiume durante e dopo la Reggenza, scomparso tragicamente nel 1945 ad opera dei partigiani slavo-comunisti.

(3) – Un caso emblematico, fra tanti giovani non insensibili al richiamo dannunziano, fu quello di Giuseppe Maranini (1902-1969), destinato a diventare insigne costituzionalista e Preside della Facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri” dell’Università degli Studi di Firenze, dove fu titolare anche delle Cattedre di Diritto pubblico comparato e di Storia delle costituzioni. Al riguardo, si vedano le sue “Lettere da Fiume alla fidanzata” (la futura consorte Elda Bossi) Edizioni Pan, Milano 1973, pagg. 124: ciò, quale tipico esempio di una letteratura patriottica assai diffusa nel coinvolgente dopoguerra del 1919, ma nello stesso tempo capace di valutazioni oggettivamente e costruttivamente critiche, improntate alla necessità di “combattere e lavorare”per il comune progresso.

(4) – Giordano Bruno Guerri, Disobbedisco. Cinquecento giorni di Rivoluzione: Fiume 1919-1920, Le Scie Mondadori, Milano 2019, op. cit., pag. 92. Per l’atmosfera poliedrica, non priva di sfumature nettamente anticonformiste, che avrebbe caratterizzato la lunga vicenda della Città di Vita durante l’occupazione legionaria e la successiva Reggenza Italiana del Carnaro, cfr. Claudia Salaris, Alla festa della Rivoluzione: artisti e libertari con d’Annunzio a Fiume, Società Editrice Il Mulino, seconda edizione ampliata, Bologna 2019, pagg. 292. Fra le opere più recenti, da indicare quale riferimento per un diverso impegno di esegesi politica a tutto campo ma sostanzialmente privo di concessioni scandalistiche, e dotato di un corredo bibliografico nell’ordine di qualche centinaio di titoli – analogo a quello di Guerri – cfr. Pietro Cappellari, Fiume trincea d’Italia: la questione adriatica dalla protesta nazionale all’insurrezione fascista (1918-1922) Herald Editore, Roma 2018, pagg. 682. Nella medesima ottica, utili integrazioni (anche per quanto riguarda la cosiddetta “convivenza forzata” con il fascismo e per talune aperture mistiche occorse negli anni del Vittoriale, sebbene concomitanti con insopprimibili richiami terreni) sono mutuabili da: Enzo Cataldi, D’Annunzio, Edizioni Firenze Atheneum, Bagno a Ripoli 1991, pagg. 464.

(5) – Per un primo inquadramento bibliografico circa genesi e contenuti della “Carta del Carnaro” cfr. AA.VV., Lo Statuto della Reggenza Italiana del Carnaro tra storia, diritto internazionale e diritto costituzionale, a cura di Augusto Sinagra, Giuffré Editore, Milano 2009, pagg. 248; ed il contributo di Carlo Montani, La Carta del Carnaro nella retrospettiva storica e nella sua attualità, in “Studi in onore di Augusto Sinagra, volume sesto, Edizioni Aracne, Roma 2014, pagg. 397-418.

(6) – Casi emblematici restano quelli delle celebrazioni di San Sebastiano martire della fede, di San Gabriele Arcangelo (quando la cittadinanza onoraria venne conferita al Comandante) o di San Vito patrono di Fiume, con l’intervento carismatico di Padre Reginaldo Giuliani, Cappellano della Grande Guerra appartenente all’Ordine domenicano, venuto a Fiume sin dalla “Santa Entrata” del settembre 1919 forte di una Medaglia d’Argento e di due Medaglie di Bronzo al Valor Militare, in ottimi rapporti con Gabriele,  certamente idoneo a benedire il pugnale votivo in oro massiccio che le donne fiumane vollero offrire al Comandante medesimo dopo aver fatto dono, a tale scopo, delle proprie fedi e dei propri gioielli, in una sorta di donazione “ante litteram” dell’oro alla Patria che non a caso sarebbe stata mutuata dal fascismo in risposta alle “inique sanzioni” seguite alla guerra d’Etiopia, ma indotte, a loro volta, da una “disobbedienza” nei riguardi dell’ordine internazionale (peraltro già abbondantemente disatteso nelle politiche coloniali di altri Stati). Più complesso fu il rapporto del Vate con Mons. Celso Costantini, quale Amministratore apostolico di Fiume che avrebbe officiato la Messa di San Vito, ma nello stesso tempo avrebbe dovuto confrontarsi coi frati francescani del Redentore, alcuni dei quali lasciarono l’ordine dopo aver avanzato richieste improponibili come l’abolizione del celibato ed il controllo dei mezzi finanziari dell’Ordine, e dopo avere fatto proprio qualche significativo motto dannunziano.

(7) – Un discorso a parte deve essere svolto per le donne del Comandante, che si guardò bene dal fare vita austera anche durante i sedici mesi di Fiume, nonostante la presenza quasi perenne di Luisa Baccara, la giovane pianista veneziana che lo avrebbe seguito al Vittoriale sino alla morte e che fu protagonista della stagione fiumana anche tramite i numerosi concerti, in specie informali, tenuti per intrattenere il Comandante e la sua squadra di governo. Va da sé che anche a Fiume Luisa fu costretta a subire frequenti “disattenzioni” del Vate, a cominciare dal rapporto che Gabriele ebbe, fra le altre, con la cantante Lili de Montrèsor e soprattutto con Margherita Keller, cugina di Guido, presente in città con il marito conte Piero Besozzi, grande amico della Causa fiumana ed uomo di spirito certamente liberale.

(8) – Il celebre “Obbedisco” di Giuseppe Garibaldi pronunciato da Bezzecca durante la terza Guerra d’Indipendenza (1866) non poteva essere dimenticato dallo stesso Gabriele d’Annunzio nel momento in cui venne deciso di “trarre il dado” e di muovere alla conquista di Fiume, non senza riferimenti alla profonda diversità dei tempi e dei modi, e soprattutto, alle nuove suggestioni della “più grande Italia”. D’altro canto, bisogna pur dire che quell’obbedienza era stata un’eccezione nel “modus operandi” assunto dall’Eroe dei due Mondi a supporto delle sue Imprese: a ben vedere, quella dei Mille non fu aliena da una sostanziale forzatura nei confronti delle opzioni moderate care alla dirigenza sabauda, il cui intervento sopravvenne quando la vittoria garibaldina era diventata praticamente certa. A più forte ragione, si ebbe generosa disobbedienza ad Aspromonte nel 1862 (e cinque anni dopo nei pressi di Mentana) quando Garibaldi venne ferito dai “piemontesi” in un’altra espressione della guerra civile che del resto stava già imperversando in tutto il Mezzogiorno e che si sarebbe protratta per un lungo decennio.

(9) – L’allocuzione pronunciata dal Comandante nel Cimitero di Cosala in onore dei Caduti di entrambe le parti, protagoniste del Natale di Sangue, fu grande momento conciliatore, ma nello stesso tempo, puntuale conferma dell’italianità di Fiume. Non a caso,  dopo il proclama del 30 ottobre 2018 con cui la città aveva chiesto l’annessione alla Madre Patria in virtù del principio di autodeterminazione dei popoli, era stato effettuato un significativo “Plebiscito dei Morti” attraverso il censimento linguistico delle lapidi funerarie presenti nel suddetto Cimitero, da cui era risultato che quelle in italiano costituivano un’ampia maggioranza, pari all’81,3 per cento, contro il 7,2 dei monumenti croati e l’11,5  di  altre sette lingue, ivi compreso il latino:  al riguardo, cfr. Lina Blau Remorino, Espropriano anche le tombe, “Il Giornale”, Milano – 3 aprile 1990: ciò, nell’ambito di una documentata protesta circa gli espropri avviati sin dal 1945 dopo l’occupazione titoista per “cancellare ogni traccia di italianità anche dai nostri cimiteri”.

Tale saggio è comparso nel web, a settembre 2019, nel sito seguente: http://www.storico.org/index.html