Visita a Pola del sindaco di Laterina con Gualtiero Mocenni, esule nel 1956 al Campo profughi aretino

“Ecco come la storia personale di una famiglia di artisti, di veri maestri, diventa anche storia di un pezzo di Italia che Italia non è più”. Così si è espressa l’ingegnere Simona Neri, sindaco di Laterina Pergine Valdarno (AR), in visita a Pola, in Istria, il 12 agosto 2021. Le hanno fatto da ciceroni i Maestri scultori Gualtiero e Simone Mocenni, padre e figlio, che hanno tanto amore per l’Istria, terra natale di Gualtiero, esule nel 1956 nel Centro raccolta profughi di Laterina.

Il sindaco Simona Neri si trovava in vacanza in Istria e nel resto della Croazia. A metterli in contatto è stato il comune amico Claudio Ausilio, un fiumano dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Delegazione Provinciale di Arezzo, da tempo impegnato nel ricostruire la memoria dei difficili anni del Crp di Laterina, attivo ufficialmente dal 1948 al 1963. Nelle baracche di quel Crp sono passati oltre 10mila profughi d’Istria, Fiume e Dalmazia, assieme agli italiani espulsi dal Dodecaneso, dalle ex colonie africane e da certi paesi della storica emigrazione italiana, come la Romania e la Tunisia.

Pola, agosto 2021, Simona Neri, sindaco di Laterina Pergine Valdarno con gli scultori Mocenni, a sinistra, vicino alla scultura di Gualtiero Mocenni, I quattro elementi, 1990, cemento bianco altezza mt.10.

“Tra le tante cose che ha fatto nella vita Gualtiero Mocenni – ha aggiunto Simona Neri – c’è quella di essere stato ospite al Crp di Laterina e tanti sono gli aneddoti che ha raccontato, uno per tutti: la richiesta da parte di un negoziante di un dipinto raffigurante il paese in cambio di un paio di scarpe”. Ciò a dimostrazione di una certa integrazione sociale tra profughi e paesani verificatasi sin dagli anni ‘50.

Gualtiero Mocenni (pittore e scultore) e il figlio Simone (non solo pittore e scultore, ma anche poeta e scrittore) sono presenti con le proprie opere nelle più grandi gallerie d’arte mondiali e hanno partecipato a decine di simposi di scultura internazionale; le loro opere si trovano in più di 70 piazze di città di tutto il mondo.

Stando sul tema dell’esodo giuliano dalmata nel mese di luglio 2021 il sindaco Simona Neri ha espresso un giudizio lusinghiero sul libro “Tracce d’esilio. Il Crp di Laterina 1948-1963 tra esuli istriano giuliano dalmati, rimpatriati e profuganze d’Africa”, scritto a più mani da Giuliana Pesca, Serena Domenici e Giovanni Ruggiero.

Pola 2021, lo scultore Gualtiero Mocenni mentre riguarda una delle opere

Bibliografia

Giuliana Pesca – Serena Domenici – Giovanni Ruggiero, Tracce d’esilio. Il C.R.P. di Laterina 1948-1963. Tra esuli istriano-giuliano-dalmati, rimpatriati e profuganze d’Africa, Città di Castello (PG), Biblioteca del Centro Studi “Mario Pancrazi”, Edizioni NuovaPrhomos, 2021.

E. Varutti, La patria perduta. Vita quotidiana e testimonianze sul Centro raccolta profughi Giuliano Dalmati di Laterina 1946-1963, Firenze, Aska, in fase di pubblicazione.

Sitologia sugli scultori Mocenni   

https://eliovarutti.wordpress.com/tag/gualtiero-mocenni/

https://www.enciclopediadarte.eu/scheda-mobile.asp?id=836

https://www.enciclopediadarte.eu/scheda-mobile.asp?id=837

Progetto e attività di ricerca: Claudio Ausilio, ANVGD di Arezzo. Testi di Elio Varutti, Coordinatore del gruppo di lavoro storico-scientifico dell’ANVGD di Udine. Networking a cura di Girolamo Jacobson, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Foto di copertina: Gualtiero Mocenni, Monumento alla città di Pola, 1979, ferro, mt. 7x7x7. Il sindaco di Laterina Pergine Valdarno, Simona Neri, vicino all’autore della scultura e al figlio Simone Mocenni in una foto a Pola nel 2021. Lettori: Simona Neri, Claudio Ausilio e Stefano Mocenni. Adesioni al progetto: Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine. Fotografie della collezione di Simona Neri e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia, 29 – primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine.  – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30.  Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.  

Memorial Aldo Tardivelli, esuli scaraventati nei Campi profughi

Aldo Tardivelli, nato a Fiume il 20 settembre 1925, è deceduto a Genova il 19 novembre 2020 a causa del Corona virus. Con queste righe vogliamo ricordarlo, per la passione con cui scriveva vari interventi sulla sua città e poi li inviava ai suoi corrispondenti di posta elettronica. Siccome nel suo esodo è passato al Centro smistamento profughi di Udine, per finire al Centro Raccolta profughi (Crp) di Laterina (AR), poi a Genova, ecco le sue parole, a volte pittoresche. Omaggio a un novantacinquenne fiumano! La redazione del blog.

Udine! Centro Smistamento Profughi – Il giorno seguente siamo arrivati nella città di Udine. All’arrivo nel  Centro di Smistamento Profughi le famiglie erano divise: gli uomini ed i ragazzi dormivano separati dalle donne e dai fanciulli; durante il giorno però i mariti raggiungevano le mogli ed i figli nella loro camerata e vi rimanevano tutto il giorno, consumandovi pure i pasti distribuiti da un cuoco obeso, scherzoso e prepotente che ci trattava come se il cibo che ci versava con un mestolo nella gavetta militare fosse di sua proprietà e ce lo concedeva soltanto grazie al suo buon cuore.

Ebbi l’impressione che fummo trattati con sufficienza come appartenenti ad una casta di paria e dipendessimo in tutto soltanto dalla buona grazia di coloro che ci sorvegliavano ed accudivano ai servizi. Non ci sognavamo di reclamare, ma tanto nessuno ci avrebbe dato retta, dovevamo esprimere solo gratitudine e sottomissione, ogni cosa ci doveva andare bene, altrimenti potevamo tornarcene al luogo dal quale eravamo venuti: in Jugoslavia.

Finale Ligure, Natale 2011 – Aldo e la figlia Adriana Tardivelli. Collezione Tardivelli, Genova

Era sera, con un istriano, già lì da qualche giorno, andai a gironzolare nei paraggi dell’edificio che ci ospitava e doveva essere una ex Casa del Fascio o della GIL [Era della GIL]. Mi fecero impressione l’opulenza, le abbaglianti luci con cui erano illuminati i negozi e le vetrine stracolme di ogni ben di dio. Ci soffermammo davanti ad una salumeria e rimasi incantato davanti all’abbondanza e alla varietà dei generi alimentari che vi erano esposti; in vita mia non ricordavo di avere mai visto un simile spettacolo: la dovizia delle merci esposte mi fece pensare che avevamo ben ragione di scappare da Fiume, l’Italia mi appariva il Paradiso della Prosperità (ed eravamo appena nel 1948) rimpiangevo che la mia Graziella non fosse con me, la porterò per prima cosa davanti a questa vetrina di salumiere per farla stupire.

Seguii il mio accompagnatore nel negozio; che profumo sconosciuto di leccornie prelibate c’era lì dentro, mi sembrava di sognare. Si vedeva da lontano un miglio che eravamo dei profughi per il vestito dimesso e l’aria spaesata. Ritornammo commentando alle nostre brande, aprii a metà le rosette, ci misi dentro la mortadella anche per Graziella, mi leccai le dita unte e sentimmo per la prima volta il sapore dell’Italia: buono, appetitoso, invitante, gustoso, indimenticabile.

Per noi che volessimo rimanere nella Nostra Italia si sarebbe presentato e iniziato un vero dramma. Fummo convocati nell’ufficio da quelli che gestivano questo traffico umano sperando che ci mandassero in qualche Campo Profughi vicino alla città di Genova. Insistemmo e supplicammo a calde lacrime affinché la nostra destinazione fosse la Liguria, poiché nella città di Genova (come avevamo ripetutamente spiegato), risiedevano diversi parenti di mio padre che avrebbero potuto darci degli aiuti sicuri. Pensavamo sinceramente che avrebbero tenuto conto delle nostre suppliche, ma non vollero sentire ragioni, furono irremovibili, ci trattarono come ‘stranieri’ e ci spedirono… in un paesino al centro della Bella terra di Toscana – Laterina, Arezzo, distante 320 km. da Genova.

Aldo Tardivelli e Graziella Superina. Anniversario delle Nozze d’oro, 1997

Al Crp di Laterina – Mi caddero le braccia davanti a tale mentalità burocratica, ma dovemmo sottostare, altrimenti non avremmo avuto dove alloggiare e ricevere un po’ di cibo; in tasca avevo i pochissimi soldi che mi avevano dato: poche decine di ‘AmLire’ che avevo stabilito di non spendere ulteriormente, dopo essermi tolto la voglia della mortadella, se non per motivi gravi. Fummo muniti di biglietto ferroviario speciale riservato ai profughi e di un ‘foglio di via’ munito del quale potevo entrare nel Campo Profughi di Laterina con l’obbligo di presentarmi entro tre giorni dal nostro arrivo alla Questura dalla quale dovevamo essere registrati.

Un tale che s’aggirava per il Campo Profughi di Udine mi soffiò all’orecchio che ci avrebbero preso le impronte digitali: e fu proprio così, andavamo proprio bene; in Italia ci prendevano per individui poco raccomandabili e ci stavano schedando. Non ne fui risentito, ormai ero abituato a subire ogni sorta di vessazioni morali, una più una meno non mi facevano né caldo né freddo, alla peggiore delle ipotesi dall’Italia ce ne saremmo andati altrove a casa del diavolo, l’importante era essere usciti dalla Jugoslavia di Tito, peggio di lì non saremmo stati da nessuna parte!

Durante il viaggio, infatti, avevo scambiato alcuni discorsi con i viaggiatori che mi facevano delle domande strane sul mio stato, ma ebbi l’impressione che molti non comprendessero il motivo per cui ce ne stavamo andando da Fiume, dove c’era Tito, a loro dire, un benefattore del popolo e nemico dei fascisti: almeno fosse venuto pure in Italia! Qualcuno, senza mezzi termini, espresse il pensiero che da Fiume ci cacciavano perché eravamo fascisti e lì ormai comandava il popolo. Ma tutti noi avevamo poco da stare allegri, il Comunismo sarebbe presto giunto a liberare anche l’Italia. Ero disorientato, non capivano nulla questi italiani! Per noi derelitti che più di tutti avevamo pagato il prezzo della sconfitta ed avevamo cercato rifugio nel grembo della Madre Patria, questa ci stava trattando da perfida matrigna, quali ospiti indesiderati.

Col passare degli anni ho visto che l’Italia ha relegato i suoi figli più sfortunati, quelli che presso di lei hanno cercato rifugio ed hanno pagato per tutti lo scotto della sconfitta, in modo disumano e vergognoso. Io vorrei chiedere a quei signori, nostri connazionali e, ahimè, anche concittadini che dissertano sulla ‘scelta giusta’ di coloro che hanno scelto la via dell’esilio e quelli che invece non se ne sono andati dalla Nostra Terra, di coloro che dicono di condividere o non condividere la scelta che la Nostra Gente ha fatto, se avessero il coraggio di provare quelle esperienze almeno per un giorno solo.

A questo stato ci aveva condotto l’Esodo dalla nostra Terra Natia, al termine della guerra. Non c’è stata per noi Esuli la Liberazione, non abbiamo nulla da festeggiare noi perché non l’abbiamo vissuta, ne siamo stati defraudati. Noi siamo passati da un’oppressione ad un’altra oppressione e da questa ad un totale smarrimento della nostra identità. Questo fu solo l’inizio dell’avventura italiana che scaraventò gli esuli nei Campi Profughi. Uno scenario spoglio di vita nei campi governati da dirigenti ladri che gli amministravano. Nei fatti non ci furono atti di protesta, ma di rassegnazione e sconforto per quanto stava accadendo, mentre le vie dell’infelicità erano già state percorse tutte!

 Tutti fummo sgomenti nel vedere la nostra nuova dimora – ha scritto Aldo – Un vero e proprio campo di concentramento che dopo lo sgombero degli ultimi reclusi aveva cambiato solo nome. Ambienti freddi e umidi. Dove malandate coperte appese ai fili nascondevano pudicamente l’intimità. Appena giunti a destinazione fummo circondati da centinaia di persone che provenivano dalla terra Istriana e che per tornare ad essere cittadini italiani, per rimanere fedeli alla cultura italiana e alla sua gente, avevano abbandonato tutto. Ma il resto del paese non aveva compreso il motivo per cui avevamo lasciato le nostre città”.

Un contributo importante per l’integrazione dei profughi all’interno della comunità lo ha fornito anche la chiesa di Laterina, in particolare don Bruno Bernini, complice in prima persona della realizzazione di una scuola pubblica nel territorio.  Quando venne effettuato un corso per muratori e carpentieri, il parroco propose, sulla base di un contributo statale, una sorta di esperienza pratica da far fare agli apprendisti: è nata così la scuola elementare di Casanova.

Fiume, Corso e Torre civica; collez. Tardivelli, Genova

Fonte orale e digitale – Aldo Tardivelli (Fiume, 20 settembre 1925 – Genova, 19 novembre 2020), int. telefonica e per e-mail nel periodo 20-24 gennaio 2017, con la collaborazione di Claudio Ausilio, dell’ANVGD di Arezzo.

Cenni bibliografici, del web e collezioni private

Genny Pasquino, I ricordi e le testimonianze dei profughi istriani, accolti da un filo spinato, on line su http://www.valdarnopost.it dall’8.2.2012.

Aldo Tardivelli, Un filo spinato… non ancora rimosso, testo videoscritto in Word, s.d. [ma: post 2004?], p. 1-7, Collez. Varutti.

Aldo Tardivelli, …, «La Voce di Fiume», dicembre 2015.

A. Tardivelli, Era un tempo di guerra, 1944 – 1945. Bombardieri anglo americani sulla città di Fiume, dattiloscritto in formato Word, 30 giugno 2018, Collez. Varutti.

E. Varutti, Esodo disgraziato dei Tardivelli, da Fiume a Laterina 1948, pubblicato su eliovarutti.blogspot.com  il 22 gennaio 2017.

Progetto di Claudio Ausilio. Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e Elio Varutti. Collezione famiglia Tardivelli, Genova. Copertina: cartolina di Fiume. Lettore: Claudio Ausilio. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine, – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

L’esodo degli Scocco da Pola a Udine, Laterina e Marina di Ravenna nel 1956

Certi esuli d’Istria, Fiume e Dalmazia preferiscono non parlare, ancor oggi. Forse perché “no xe cose belle de contar”. C’è qualche esule che lascia solo brevi messaggi in Facebook come per Nadia Zanghirella, una cucciola dell’esodo, dato che ha frequentato la scuola elementare del Centro raccolta profughi (Crp) di Laterina. Era nella classe 3^ elementare della maestra Giuliana Stoppielli. Pur mancando banchi e armadi, come in tutta la scuola del Campo profughi, la maestra si arrangiò sui tavoloni da refettorio con panche pluriposto, trovando nell’aula: il mappamondo, l’atlante, carte geografiche e la bandiera (p. 24 del Registro Stoppielli). La Zanghirella, di recente, ha scritto in Facebook: “Pure noi siamo stati a Laterina nel 1956-‘58”. Eh, già da Laterina passano oltre 10mila esuli, dal 1948 al 1963, bisogna saperlo.

Attestazione di profugo di Scocco Giovanni del 20 maggio 1956, firmata dal prefetto di Arezzo, “sentito il Comitato provinciale dei Profughi giuliani di Arezzo”. Collez. Liliana Scocco Cilla

È come un fiume in piena, invece, la testimonianza di Liliana Scocco Cilla. Pure lei è una cucciola dell’esodo al Crp di Laterina. È una scolara della classe 4^ con la maestra Emilia Carmignani, di Terranuova Bracciolini (AR). La maestra scrive sul registro che i suoi alunni sono “pieni di entusiasmo e di buona volontà” (p. 17 del Registro Carmignani). Hanno poche suppellettili scolastiche. Il sussidiario arriva il 27 gennaio 1957 e “i ragazzi sono tanto contenti e vorrebbero studiarlo tutto insieme”, nonostante il disagio vissuto nelle baracche di Laterina.

“I miei genitori, quattro fratelli ed io siamo venuti via dalla nostra amatissima Pola nel gennaio 1956 – ha detto Liliana Scocco Cilla – dall’Istria siamo giunti a Udine al Centro smistamento profughi, dove c’erano i teloni per separare gli stanzoni, si faceva la coda per mangiare. Eravamo in cinque fratelli Maria Giovanna, Mario, Nerina, Liliana e Branco, poi c’era il papà Giovanni e la mamma Elvira Premate. A Udine ci siamo fermati per 8 giorni, poi a mio papà hanno detto di scegliere la destinazione tra alcuni Campi profughi, quello più a nord e più vicino all’Istria era quello di Laterina, così ci hanno mandato lì”.

Signora lei ha fatto la scuola a Pola, nel dopoguerra? “Sì, ho dovuto fare le scuole croate in 4 classi – ha risposto la signora Liliana – perché all’iscrizione ci hanno detto: ah, siete italiani, bene scuola croata! È stata dura, ma così ho vari amici che sento ancor oggi al telefono, poi io stavo dalla nonna Giovanna Premate, detta Ivana, a Promontore e ho altri amici anche lì e so parlare il croato”.

Ci sono altri ricordi di Laterina? “È un bel paesino lindo e pulito – ha aggiunto – ci siamo tornati per una visita anni dopo l’esodo, ma mia sorella maggiore non ha voluto saperne, lei ha chiuso  con l’Istria e non ne vuole sentir parlare, per lei deve essere stato brutto venir via. In Campo profughi mia sorella pianista suonava l’organo e si è messo su persino il coro per le cerimonie . Noi eravamo nella baracca n. 1, ci eravamo ambientati, dopo un anno siamo finiti a Marina di Ravenna, perché il papà voleva star vicino a Pola. Mi vengono in mente i nomi dei medici del campo profughi, il più giovane allora, nel lontano 1956, si chiamava dottor Fiore e l’altro era il dott. Sinisi”.

Liliana Scocco Cilla, I colori della regata, olio su tela, cm. 100 x 150, 2006

Ricorda qualcosa della scuola al Crp di Laterina? “Mi porto sempre nel cuore quell’insegnante – ha detto la testimone, emozionata – era una giovane maestra, lei mi chiamava ‘amore’, ero brava a fare i calcoli mentalmente, ero proprio veloce”.

Il nome della maestra è Emilia Carmignani. “La penso spesso, ancora mi si inumidiscono gli occhi di lacrime, pensi. Mi piacerebbe poterle dare un forte abbraccio. Ripeto lei era una grande maestra, lo sentivo, per questo è rimasta sempre con me racchiusa nel mio cuore”.

Esterno circolo italiano Pola 2015

Quale mestiere faceva il suo babbo a Pola? “Era capitano marittimo – ha replicato Liliana Scocco – e, penso fosse nel 1944, quando aumentavano i bombardamenti angloamericani sul porto, mi ricordo che raccontava di aver fatto togliere gli sbarramenti notturni antisommergibile per fare uscire la famosa nave ‘Amerigo Vespucci’, che stava a Pola, salvandola dalle bombe d’aereo. Poi un altro suo intervento celebre fu il tentativo di salvare l’equipaggio di un sommergibile italiano affondato a Promontore. Lui diceva che con la sonda era riuscito a far scendere un po’ di latte ai marinai bloccati là sotto, poi il tempo si è guastato, si son rotti gli ormeggi e quei disgraziati sono tutti morti, li hanno recuperati poco tempo fa. Quando raccontava questo fatto tragico aveva sempre le lacrime agli occhi, per non essere riuscito a salvarli, ma il mare è così. Nel dopoguerra era capitano marittimo sulle navi da Pola a Trieste e le autorità iugoslave l’hanno sempre lasciato lavorare nella tratta fino a Trieste, forse perché avevano bisogno di lui”.

Pola 2015, l’artista alla sua Mostra personale presso la sezione polese della Società ‘Dante Aligheri’. Collez. Liliana Scocco Cilla

Lei oggi vive a Ravenna, dopo che Felice Lapini, direttore del Crp di Laterina ha consegnato al suo babbo Scocco Giovanni il certificato di profugo, con le firme di Arcelio Lalli, sindaco di Laterina e di Vincenzo Paternò, prefetto di Arezzo. È questa l’ultima tappa del suo esodo? “Mio papà con quella smania di avvicinarsi il più possibile all’Istria e al mare – ha spiegato Liliana Scocco – ha fatto domanda per le case popolari a Marina di Ravenna, così ci siamo potuti trasferire dal Crp di Laterina, un posto che io ricordo con piacere. Scelta la città di residenza, ci siamo rifatti una vita lavorando duramente e onestamente”.

Signora Liliana, lei è una pittrice di fama internazionale, quali sono i temi della sua pittura? Posso dire che la pittura è stata terapeutica? “L’arte è stata la mia salvezza – ha concluso – prima dipingevo per me stessa, poi mi hanno detto di esporre le mie opere ed è stato un successo, perché sa, io dipingo con le mani, senza pennelli, è la tecnica del ‘Digitismo’, brevettata proprio da me. I temi della mia pittura sono il mare, dove non si vedono confini, la vela, quale segno di libertà e la luce”.

Biografia artistica – Liliana Scocco Cilla è nata l’11 febbraio 1945 a Pola, nell’Istria italiana, da dove, all’età di undici anni, si è trasferita in Italia, approdando a Ravenna, dove vive ed opera tutt’ora. Questa esperienza ne ha segnato la sensibilità che riversa nei suoi lavori, ricchi di tonalità, di sfumature e di una inconfondibile profondità. Con una pluridecennale pratica pittorica che ha raggiunto livelli eccelsi. Unica è la tecnica usata dall’artista che dipinge direttamente sulla tela, senza disegno preparatorio, formando con le mani le sue opere senza l’uso del pennello, proprio per il bisogno di sentire il colore e l’opera in un contatto diretto tra forma e spirito. Istinto, colore, forme: per Liliana Scocco Cilla sono i temi determinanti della sua personalissima  interpretazione dell’arte pittorica che ne hanno fatto la caposcuola del “Digitismo”, ovvero l’arte di dipingere con le dita direttamente sulla tela. Le sono stati attribuiti riconoscimenti da tutto il mondo artistico compresa la dedica “Omaggio a Liliana Scocco Cilla” attribuitale da vari artisti.

Pola 2015, Liliana Scocco Cilla con la professoressa Silvana Wruss, presidente della sezione polese Società ‘Dante Aligheri’. Collez. Liliana Scocco Cilla

Fonti orali e ringraziamenti

La redazione del blog per l’articolo presente è riconoscente a Valentina Suprani e al signor Claudio Ausilio, esule da Fiume a Montevarchi (AR), socio dell’ANVGD provinciale di Arezzo, per aver fornito con la consueta cortesia i contatti per la ricerca, andando a incrementare una tradizionale e collaudata collaborazione con l’ANVGD di Udine risalente al 2016. Oltre alle fonti orali e digitali, si ringraziano gli operatori e le autorità del Comune di Laterina e dell’Istituto Comprensivo “Francesco Mochi” di Levane (AR) per la collaborazione riservata all’indagine storica. Le interviste (int.) sono state condotte dal professor Elio Varutti, vicepresidente dell’ANVGD di Udine, se non altrimenti indicato.

Liliana Scocco Cilla, Pola 1945, vive a Ravenna, int. telef. del 16 novembre 2020, oltre ai contatti nel web con Claudio Ausilio del 2 febbraio 2014 e periodi successivi.

Nadia Zanghirella, Pola, vive a Bergamo, post in Facebook del 12 novembre 2020.

Fonti archivistiche

Premesso che potrebbero esserci alcuni errori materiali di scrittura nei registri esaminati, ecco i testi della ricerca presente; i materiali sono stati raccolti da Claudio Ausilio, dell’ANVGD di Arezzo.

Comune di Laterina (AR), Elenco alfabetico profughi giuliani, 1949-1961, ms.

Istituto Comprensivo “Francesco Mochi” di Levane (AR); consultati i seguenti documenti:

– Giuliana Stoppielli, Note della Prova d’esami, 14 giugno 1957, allegato al Registro della classe 3^ mista, insegnante Giuliana Stoppielli, anno scolastico [1956-1957], c. 1, ms.

– Provveditorato agli studi di Arezzo, Comune di Laterina, Circolo Didattico di Montevarchi, Frazione C.R.P., Scuola Elementare Laterina C.R.P., Registro della classe 4^ mista, insegnante Emilia Carmignani, anno scolastico 1956-1957, pp. 23+10, stampato e ms.

Scheda di registrazione della scolara Liliana Scocco, n. 3.725, del 2 febbraio 1956 al Crp di Laterina. Collez. Liliana Scocco Cilla

Collezione privata di Liliana Scocco Cilla, fotografie, documenti dell’esodo, scheda di registrazione al Crp di Laterina, dattiloscr., stampati e ms.

Cenni bibliografici nel web

Alcune immagini delle opere dell’artista, per gentile concessione dell’autrice alla pubblicazione, sono state riprese dal sito web di Liliana Scocco Cilla. http://www.lilianascoccocilla.it/

Liliana Scocco Cilla, 1967-2008. Oltre i confini del colore sensibile.

E. Varutti, Cucciole dell’esodo crescono. La scuola elementare al Campo profughi di Laterina, 1956-1957, on line dal 24 giugno 2020.

E. Varutti, Via da Pola nel 1956. I Mocenni ai Campi profughi di Aversa e Laterina con l’Istria nel cuore, on line dall’11 novembre 2020.

Retro della Scheda di registrazione di Liliana Scocco al Crp di Laterina, dove si legge, nella prima riga, la provenienza dal Centro smistamento profughi di Udine. Collez. Liliana Scocco Cilla

Progetto di Claudio Ausilio. Ricerca di Elio Varutti. Servizio giornalistico e di Networking a cura di Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Liliana Scocco Cilla, Claudio Ausilio e Enrico Modotti. Copertina: Liliana Scocco vicino all’Arena di Pola nel 1951, Collez. Liliana Scocco Cilla. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

1956, via da Pola. I Mocenni ai Campi profughi di Aversa e Laterina con l’Istria nel cuore

Ci sono degli istriani famosi come Sergio Endrigo, Mario Andretti, Nino Benvenuti, Uto Ughi e, in campo artistico, c’è Gualtiero Mocenni. Pittore, scultore e grafico, Gualtiero Mocenni, è nato a Pola, nel rione di Montegrande, nel 1935. A Pola trascorre la sua giovinezza, finisce gli studi ginnasiali e si sposa con Aliza. Nel 1956, a ventuno anni, decide di andare in Italia. Dopo l’esperienza nei campi profughi e un breve soggiorno a Firenze, corona il suo sogno di andare a vivere a Milano, prima come grafico e poi dedicandosi esclusivamente alla pittura, un obiettivo da sempre nei suoi sogni. Non dimentica mai l’Istria, che frequenta assiduamente e sarà uno dei fili conduttori della sua ricerca artistica, sia in campo pittorico che in quello scultoreo. I soggiorni nella terra natale, sin dagli anni ‘70, diventano sempre più frequenti con periodi che durano fino a sei mesi, trascorsi a lavorare la sua pietra d’Istria nelle cave di Vincural e Altura, grazie al supporto di Kamen Pazin e dei suoi cavatori, con cui stringe un rapporto di vera e propria amicizia e contiguità lavorativa. Trasferisce l’amore per la sua terra anche ai figli e nipoti che ogni anno trascorrono vari periodi nella penisola. Artista noto nel mondo, Gualtiero Mocenni ha prodotto oltre 30 grandi sculture in Istria, dove è assai apprezzato, ma è presente pure in Italia.

Tessera ANVGD del Comitato Provinciale di Arezzo, data 11 settembre 1956 e intestata a Stefano, padre di Gualtiero Mocenni, esule da Pola. Collez. Mocenni

Simone Mocenni, figlio di Gualtiero, ha ereditato la vena artistica paterna, orientandosi nella produzione scritta. È del 2006 il suo romanzo intitolato Ginestre sulla costa / Trilogia di Pola, per la collana della EDIT di Fiume “Lo Scampo Gigante”. Tale romanzo, presente l’autore, è stato illustrato in pubblico con successo a Pola il 6 luglio, come ha scritto «La Voce del Popolo» del 22 luglio 2006. Gualtiero Mocenni ha accettato di raccontare la sua vita nei campi profughi. Ecco la sua preziosa testimonianza.

“Il mio nonno Simone era morto sotto i bombardamenti di febbraio del 1944 e noi non siamo venuti subito via da Pola dopo le opzioni – ha detto Gualtiero Mocenni – perché la nonna Elena stava poco bene, così s’è persa l’occasione e nonostante i ricorsi che poi faceva alle autorità mio papà Stefano, non volevano lasciarci partire. Per lo svincolo dalla cittadinanza iugoslava di mia moglie, di etnia croata, si è pagato un riscatto e abbiamo abbandonato l’Istria nel 1956”.

Con quali mezzi siete partiti da Pola e dove vi hanno destinato? “Siamo partiti in treno per Trieste – è la risposta – ma non tutta la famiglia insieme. Mio padre Stefano, mio fratello Elio e mia madre Romana sono andati al Centro raccolta profughi di Laterina (AR), mentre mia moglie ed io siamo finiti al Crp di Aversa (CE), ma si è chiesto il ricongiungimento familiare così anche noi siamo giunti a Laterina”.

Signor Mocenni, lei è il primo a raccontarmi di aver scelto il Crp di Laterina. Tale Campo nei primi anni di attività era poco apprezzato dai profughi d’Istria, Fiume e Dalmazia, per i disagi e per le precarie condizioni di vita. “È vero il Crp di Laterina non era certo un comodo hotel – ha replicato Mocenni – pensi che ad Aversa ogni famiglia viveva in una piccola baracca, mentre a Laterina la baracca era lunga decine di metri e ogni 4 metri era tirato un filo di ferro con le coperte appese per dare un po’ di intimità. Erano disagi grossi con i servizi igienici raggiungibili dall’esterno, ma almeno la famiglia era riunita e mia moglie ha trovato lavoro in segreteria nello stesso Crp. Ho anche dei bei ricordi di Laterina, mentre ad Aversa i profughi erano malvisti. Ebbene a Laterina un negoziante di calzature che conoscevo mi ha regalato addirittura un paio di scarpe”.

Certificato di cittadinanza italiana di Mocenni Stefano, del Comune di Laterina, del 1959, uso emigrazione. Collez. Mocenni

Poi cosa succede? “Capita che mio padre, mia madre e mio fratello Elio nel 1960 emigrano a Buenos Aires fino al 1965 – ha aggiunto il testimone – mentre io andavo a lavorare a Firenze, pensi che disegnavo e dipingevo i cartelloni per il cinema alla Fortezza da Basso, fino al 1957, poi sono andato a Milano, perché era considerata la capitale culturale del momento, ancora più attraente di Parigi e a Milano ci hanno raggiunti più tardi pure i miei familiari rientrati dall’Argentina”.

C’è qualche altro ricordo di Pola nel dopoguerra? “Sì, è successo che mio padre si è presentato a Pola in divisa inglese – ha replicato Mocenni – perché ha combattuto nel 14° Reggimento scozzese degli Highlander e quindi i militari iugoslavi, credendolo un tedesco, l’hanno imprigionato e volevano fucilarlo, per fortuna è stato salvato da una conoscente che ha spiegato loro l’equivoco. Con orgoglio posso dire che oggi a Pola c’è un mio monumento in acciaio intitolato Alla città e ai polesani, del 1979, alto 7 metri”.

Anche per lei, come per molti profughi dell’esodo giuliano dalmata l’Italia è stata un po’ matrigna, oppure no? “A dire il vero forse sì – ha concluso Gualtiero Mocenni – a un certo punto mi hanno cercato i carabinieri perché, secondo loro, ero renitente alla leva, ma ero l’unico sostegno della mia famiglia e nonostante ciò per evitare la prigione di Gaeta, sono andato militare a Palermo, poi là il comandante ha visto che ero bravo in cartellonistica e mi ha tenuto in considerazione, poi ho avuto l’avvicinamento alla famiglia e ho finito la naia a Milano, ma le mie radici sono a Pola, dove ho avuto tanti riconoscimenti, come la cittadinanza della città e della regione istriana”.

Stato di famiglia di Metti Romana, moglie di Stefano Mocenni, emesso dal Comune di Laterina, del 1959, per emigrazione. Collez. Mocenni

Chiediamo a Simone Mocenni, figlio di Gualtiero, com’è la situazione a Pola, in questi ultimi anni, al di là della crisi sanitaria dovuta alla pandemia di Covid-19. “Noi figli siamo attaccati all’Istria – ha detto Simone Mocenni – e parliamo in dialetto istriano anche con mio figlio, c’è un bel dialogo con la gente del posto, ci sentiamo europei”.

Il Crp di Laterina – “Il 19 agosto 1948 veniva aperto il Centro Profughi di Laterina nelle vicinanze di Arezzo – così scrive nella sua tesi di laurea Francesca Lisi, a p. 138 –. Questo Centro, che dipendeva dal Ministero dell’Interno, a differenza di quello di Arezzo, era in grado di ospitare un numero maggiore di profughi ed aveva un’organizzazione molto più efficiente”. La struttura chiuse i battenti il 30 settembre 1963 (p. 224 della tesi). I profughi transitati sono oltre 10mila, come si vede dalla tabella n. 1. Tra le fonti bibliografiche sulle presenze per il 1946, si aggiunga rispetto alla ricerca dello scrivente diffusa il 1° settembre 2020 nel blog, anche la pubblicazione di Giuseppe Jannacci, il quale, circa Laterina, afferma che: “Nel 1946 la struttura degli alloggiamenti si trasformò: alle capanne in muratura si aggiunsero baracconi per ospitare i profughi della Venezia Giulia e la vita interna ebbe disciplina separata”. Il Campo accoglieva infatti pure 1.637 internati politici, Altoatesini ed altri recalcitranti repubblichini. Dal 1948 il Crp fu a disposizione soprattutto di profughi dell’esodo giuliano dalmata, oltre a quelli del Dodecaneso e delle colonie d’Africa.

Tabella n. 1 – Numero d’arrivi al Centro raccolta profughi di Laterina, 1946-1963

Anni1946194819581949-611962-63Totale
Arrivi, o  stime *1.7003.0006484.693300 *10.341
Fonti: Nostra elaborazione su: S. Bassetti, Gianfranco Chiti…(per il 1946), Schede di registrazione delle famiglie Compassi e G. Chiappino, Il campo per prigionieri… (1948), Pastrovicchio (1958) e dall’Elenco alfabetico profughi giuliani del Comune di Laterina, 1949-1961.
Atto di convocazione a Genova per emigrare in Argentina di Mocenni Stefano, Romana e Elio dal Centro Raccolta Profughi di Laterina (AR), con la nave Provence. Collez. Mocenni

Fonti orali e ringraziamenti – Si ringraziano gli amministratori e gli operatori del Comune di Laterina (AR). Grazie al signor Claudio Ausilio, dell’ANVGD di Arezzo, con cui l’ANVGD di Udine collabora dal 2016 per le ricerche sull’esodo giuliano dalmata. Ausilio, esule da Fiume a Montevarchi (AR), mi ha inviato molto materiale di studio sul Crp di Laterina e mi ha messo cortesemente in contatto con i signori Gualtiero e Simone Mocenni. Un sentito ringraziamento vada agli intervistati per la cortesia dimostrata nella ricerca presente. Le interviste (int.) sono state condotte da Elio Varutti come qui di seguito indicato.

Gualtiero Mocenni, Pola 1935, vive a Milano e a Pola, int. telefonica del 9 novembre 2020 assieme al figlio Simone.

Simone Mocenni, Milano 1970, vive a Milano e a Pola, int. telefonica del 9 novembre 2020 assieme al babbo Gualtiero.

Collezioni private e ANVGD – Claudio Ausilio, ANVGD di Arezzo, Comune di Laterina (AR), Elenco alfabetico profughi giuliani, 1949-1961, ms.

Famiglia Compassi Mandich, esule da Fiume a Laterina e Genova: fotografie, documenti, schede di registrazione al Crp di Laterina, stampati e ms.

Gualtiero Mocenni, Milano-Pola: tessera ANVGD del Comitato Provinciale di Arezzo, documenti dell’esodo, fotografie, ritagli di giornali, articoli letterari, stampati e dattiloscr.

Famiglia Pastrovicchio, esule da Valle d’Istria a Pessinetto, città metropolitana di Torino: schede di registrazione al Crp di Laterina, stampati e ms.

Pola, 2017 – Gualtiero Mocenni, al centro, cittadino onorario della regione Istriana. Collez. Mocenni

Cenni bibliografici e del web

Sandro Bassetti, Gianfranco Chiti. Vita militare di un Ufficiale e Gentiluomo, 1936-1978, Milano, Lampi di stampa, 2010.

Ivo Biagianti (a cura di), Al di la del filo spinato. Prigionieri di guerra e profughi a Laterina (1940-1960), Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2000.

Gianna Chiappino, Il campo per prigionieri di guerra n. 82 di Laterina, testo in Word, 13 settembre 2003, pp. 16 con foto di documenti d’archivio, piante e panoramiche dei resti del Campo. Per tale documento Claudio Ausilio è riconoscente all’ex Sindaco di Laterina, signora Rosetta Roselli.

Piotr Chmiel, Università di Varsavia, “Atlante del fuorimano. Il panorama di luoghi della letteratura italiana dell’Istria”, «Planeta Literatur. Journal of Global Literary Studies», 1, 2015, pp. 1-14.

Giuseppe D. Jannacci, I lager dei vinti.I Campi di Concentramento per i Soldati della R.S.I., Macerata, Scocco & Gabrielli, 2011.

Helena Labus, “Grandi opere plen air di Gualtiero Mocenni”, «La Voce del Popolo», 22 luglio 2006, p. 6.

Francesca Lisi, L’Assistenza post-bellica ad Arezzo. Il Centro Raccolta Profughi di Laterina, Tesi di Laurea, Università di Firenze, Anno accademico 1990-1991.

Alfio Mandich, “Ricordi dell’esodo. Quando se partiva senza saver dove se andava”, «La Voce di Fiume», 30 aprile 1997.

P.T. [Piero Tarticchio], “Gualtiero Mocenni e l’Obelisco-scultura di Valcane”, «L’Arena di Pola», n. 12, 28 dicembre 2006, p. 9.

E. Varutti, Esodo da Fiume a Laterina. La s’ciavina per parete di giorno e per dormire la notte, 1948, on line dal 1° settembre 2020.

Progetto e ricerca iconologica di Claudio Ausilio. Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e Elio Varutti. Lettori: Stefano Meroi, Claudio Ausilio, Gualtiero e Simone Mocenni. Copertina: Gualtiero Mocenni mostra il suo quadro col paesaggio di Laterina degli anni ’50; l’opera è stata esposta a Pola, Trieste, Caserta, Laterina e, infine, Milano; foto del 2014. Collez. Mocenni. Fotografie e documenti della collezione privata di Gualtiero Mocenni e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Gualtiero e Simone Mocenni. Collez. Mocenni

Esuli d’Istria, Fiume e Dalmazia si associano in Friuli col presidente Conighi, 1946-1954

Quando nasce l’ANVGD a Udine? E come si chiamava? Col presente articolo si cercherà di dare una risposta all’alba dell’associazionismo giuliano dalmata in Friuli dopo la Seconda guerra mondiale. È interessante capire come gli esuli d’Istria, Fiume e Dalmazia si associano in Friuli per ricevere aiuto, per darsi coraggio e per rivendicare i propri diritti verso l’Italia matrigna, dopo la fuga e l’abbandono delle terre degli avi a causa delle prevaricazioni e delle violenze titine.

La prima notizia riguardo all’associazionismo dei profughi giuliano dalmati a Udine è del 16 gennaio 1946. In una lettera scritta dalla zona di Trieste a Renato Vittadini, prefetto di Udine, il partigiano col nome di battaglia Furio menziona il “Comitato Esuli Istriani Dalmati e Fiumani”. In particolare il capo partigiano scrive riguardo al “nulla osta e appoggio alla costituzione” di detto Comitato. Ho reperito tale dato presso l’Archivio di Stato di Udine (ASUd), Prefettura, b 55, f 190, ms. Nulla osta significa che: niente osteggia. È solo una presa d’atto. Non altro, come invece si deduce dal pur interessante sito web, in lingua croata, sulla figura di Carlo Leopoldo Conighi a cura di Nenad Labus.

Sussidio a Corinna De Cecco firmato da Conighi, 1947; Aanvgd b B, Contributi

Il prefetto di Udine Vittadini si attiva sul tema dei profughi perché il 6 gennaio 1946 viene istituito, con decreto ministeriale, l’Ufficio della Venezia Giulia, alle dipendenze del Ministero dell’Interno. Esso ha il fine di “promuovere, coordinare e vigilare le iniziative in favore dei connazionali profughi della regione giuliana”, come scrive la Colummi (a pag. 309), utilizzando le fonti dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma e alcune note del prefetto Micali.

Sul giornale «Libertà» che esce a Udine, sotto il controllo angloamericano e del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), il 10 maggio 1946 si legge una notizia circa la “Sezione di Udine del Comitato Alta Italia per la Venezia Giulia e Zara”. In sigla è il CAIVGZ. Il neonato organismo dell’associazionismo giuliano dalmata informa che c’è “l’esonero del pagamento delle tasse scolastiche per gli studenti medi giuliani che abbiano dovuto abbandonare la propria residenza per gli eventi bellici” secondo una nota del Ministero della Pubblica Istruzione, in base ad un provvedimento del Consiglio dei Ministri. Si sa, inoltre, che la sezione di Udine del Comitato Alta Italia per la Venezia Giulia e Zara ha sede in Via Liruti n. 12, con orario dalle ore 9 alle 12,30 e dalle 14,30 alle 17,30.

Domenica 23 giugno 1946, come si legge sulla stampa locale («Libertà» del 21 giugno 1946 e «Messaggero Veneto» del 25 giugno 1946) si celebra a Udine la “Giornata della solidarietà istriana”. L’evento è volto a “raccogliere fondi per l’assistenza a favore dei profughi istriani residenti nella provincia e per ricordare alle genti del Friuli questi nostri fratelli costretti a vivere in esilio nella loro stessa Patria per non sottostare ad un regime straniero tanto inviso”. L’ente organizzatore è la sezione di Udine del Comitato Alta Italia per la Venezia Giulia e Zara (CAIVGZ) che, nel frattempo, ha cambiato sede dato che si trova “in Via Belloni 12, telefono 233”. Finora si sa poco di tale organismo, che poco dopo cambierà nome.

L’attentato di Vergarolla del 18 agosto 1946, secondo alcuni esuli cambia tutto, implementando la paura e il desiderio di fuga dagli iugoslavi che volevano farla da padroni. Vergarolla è un’amena spiaggia, vicino a Pola, che nel dopo guerra funge da deposito di materiale bellico, evidentemente messo in sicurezza. Pola in quei frangenti appartiene ancora all’Italia, pur essendo controllata militarmente dagli angloamericani. Accade che, quando la spiaggia della città portuale istriana è affollata per la popolare manifestazione di nuoto della società “Pietas Julia”, ci sia lo scoppio del grosso arsenale di esplosivo, con l’uccisione di oltre 80 persone, tutti italiani, in maggioranza donne, madri di famiglia e bambini. Certe fonti attribuiscono l’attentato ad elementi dei servizi segreti titini. Tutti percepiscono subito quale fosse stata la matrice del delitto di Vergarolla nell’intento di spingere all’esodo coloro che non si erano ancora rassegnati: ebbene, nel 2006, l’apertura degli archivi inglesi di Kew Gardens (Foreign Office) ha confermato che la strage fu opera dell’OZNA, la polizia politica jugoslava, ed ha affidato i nomi di cinque responsabili alla storia. Su tali fatti ha scritto Carlo Cesare Montani, esule da Fiume.

Si occupa degli esuli a Udine pure il giornale di Trieste «La Voce Libera» che nella pagina della “Cronaca del Friuli”, del 14 ottobre 1946, riporta la notizia della indizione della “Settimana del profugo” nel capoluogo friulano. L’organizzazione è del Comitato profughi istriani, fiumani e dalmati per una “umana e fraterna solidarietà”.

Opzione di Zuccheri Lorenzo, pag. 2, 1948; Aanvgd, b F, Qualifiche

Tutti i Conighi via da Fiume – L’esodo da Fiume coinvolge anche il gruppo delle famiglie dei costruttori Conighi. Va a Trento il comandante dei vigili del fuoco Giorgio Conighi, che prima era già stato trasferito a Trieste. A Roma, passando per Venezia, vanno Ferruccio Conighi, suo zio Cesare Augusto Conighi e le famiglie rispettive. Alcuni gruppi di loro parenti vanno esuli a Firenze, Norimberga, Klagenfurt e in Svizzera, mentre certi cari amici di casa riparano a Bolzano. Una parte dei Conighi va esule a Udine, essendosi trasferito lì l’architetto Carlo Leopoldo Conighi, dipendente delle ferrovie. “I era andadi a Udine – ha detto Miranda Brussich – la zia Maria Regina Conighi, zia Helga, mia suocera Amalia Rassmann Conighi, mio suocero l’architetto Carlo Conighi e ‘l nono bis, che iera l’ingegnere Carlo Alessandro Conighi, perché la zia Maria la iera amica della signorina Giordani, alieva de l’Educandado Uccellis de Udine. Lori i ghe ga dà casa in afito de Via Volontari de la Libertà. Una stanza per ‘l nono bis e zia Maria e le altre done in sofita con Carlo Conighi l’architeto”. La signora Miranda, sposata nel 1942 con Carlo Enrico Conighi (Fiume 1914 – Ferrara 1995) col figlio Carlo Cristiano (Fiume 1943 – Ferrara 2010), sono profughi a Trieste, poi a Belluno, spostatisi poi per lavoro a Forlì, Modena e Ferrara. I Conighi riparati in casa Giordani a Udine stanno in quella soffitta fino al 1958, poi vanno in un alloggio in affitto in via del Gelso. “La casa di viale Volontari della Libertà è stata costruita da mio nonno Italico Giordani, che era costruttore a Fiume e in Friuli, agli inizi del Novecento – ha detto Carla Giordani, socia ANVGD – ricordo che da bambina giocavo col piccolo Carlo Conighi, quasi mio coetaneo e c’erano i suoi familiari”. I Conighi riescono a traslocare parte delle loro masserizie in treno da Fiume a Udine, poi dalla stazione ferroviaria verso casa Giordani con la ditta di Sabino Leskovic di Udine, che utilizza “carri, cavalli e uomini”, come si legge nella Nota spese del 17 settembre 1946, regolarmente quietanzata (Collezione famiglia Conighi).

Il primo presidente – Secondo quanto riferito da Giuseppe Bugatto, esule da Zara, negli anni 1946-1947, il presidente dell’associazionismo giuliano dalmata a Udine è un tale Sbisà, coadiuvato da don Luciano Manzin. Un dirigente dell’organismo degli esuli a Udine è senz’altro Tevere Sbisà, detto Testi. Si legge ne «L’Arena di Pola» del 30 marzo 1965: “Infatti dopo l’esodo dall’Istria il caro amico Tevere Sbisà, padre di Gianfranco, visse qualche anno a Udine dove fu anche segretario del Comitato giuliano-dalmata. Quindi, di fronte alle difficoltà che in quel momento rendevano impossibile una sistemazione adeguata, la famiglia Sbisà accettò l’offerta di trasferirsi in Australia”.

Attestazione di profugo di Volghieri Emilio; Aanvgd, b F, Qualifiche, 1949

Nel 1947 è presidente Carlo Leopoldo Conighi; ciò in base alla tessera n. 1.096 del Comitato Nazionale per la Venezia Giulia e Zara (CNVGZ), sede di Udine, rilasciata il 2 giugno 1947 e intestata al maestro Renato Lupetich, di Fiume, che è dichiarato “profugo giuliano” (Collezione privata, Belluno). Una ulteriore conferma della sua presidenza si ha dalla concessione di un sussidio di lire 1.600 all’esule Corinna De Cecco, proveniente dall’Istria, residente a Udine con quattro persone a carico. La De Cecco fa domanda nel mese di giugno 1947 e l’ordine di pagamento n. 3.018, del successivo 3 settembre, è firmato da Carlo Conighi, presidente della Sezione di Udine del Comitato Alta Italia per la Venezia Giulia e Zara (CAIVGZ); cfr.: Archivio dell’ANVGD di Udine, d’ora in poi: Aanvgd, busta B, Contributi, 1947. Ciò significa che c’erano a Udine, nel 1947, oltre 3.000 profughi che avevano già ottenuto un sussidio monetario dal CAIVGZ, presieduto dall’architetto Carlo Conighi. C’è infine la tessera del CNVGZ n. 494, del 20 dicembre 1947, sezione regionale di Udine, firmata dal Conighi e intestata all’insegnante Maria Zonta di Parenzo, esule a Udine, dichiarata profuga il 14 settembre 1948.

Il 23 marzo 1948 è la data della tessera di socio del Comitato Nazionale per la Venezia Giulia e Zara (CNVGZ), sede regionale di Udine della signora Maria Regina Conighi, nata a Trieste nel 1881 ed esule da Fiume. La tessera è firmata dall’architetto Carlo Leopoldo Conighi, fratello di Maria Regina (Collezione Helga Conighi, Udine).

Don Manzin è presidente regionale del Comitato Nazionale per la Venezia Giulia e Zara (CNVGZ), come risulta da «L’Arena di Pola» del 16 giugno 1948. Il giornale istriano riporta le attività del 1947 dell’organismo dei profughi a Udine, che comprendeva anche la zona di Pordenone. La struttura a Udine ha messo piede, tanto da riuscire ad organizzare il raduno dei Comitati Triveneti del CNVGZ. La medesima testata riferisce che per Udine sono intervenuti “il reverendo professor Manzin, il sig. Conighi, il conte Fanfogna e il sig. Antonio Premate”.

Secondo Mario de Vidovich a Roma il 20 giugno 1948 ottanta comitati provinciali di esuli giuliano dalmati danno vita all’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), primo presidente è Alfonso Orlini, di Cherso, ma a Udine la sigla CAIVGZ permane per un po’ di tempo, come si può vedere dalla bolletta della luce del 1951 (Coll. famiglia Conighi). È del 13 settembre 1948 la Dichiarazione di opzione per la cittadinanza italiana di tale Lorenzo Zuccheri, nato a Dignano d’Istria nel 1893 ed ivi residente in piazza Italia n. 1.080, redatta presso il Comune di Udine, con legalizzazione prefettizia della stessa data. L’incartamento è diretto al Consolato Generale della Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia in Milano. Lo Zuccheri pone il suo domicilio “presso Delton in via Trieste a Udine”. Curioso che nella postilla A della medesima pratica sia previsto addirittura che fosse emesso un “Certificato del Comitato Popolare di… attestante che la mia lingua d’uso è l’italiana”. Come a dire italiani (pur titini) dichiarano di cacciare via altri italiani da terre italiane, dato che la lingua d’uso è quella italiana (Aanvgd, b. F, Qualifiche, 1948).

Il 5 luglio 1949 il prefetto di Udine, in base al D.L. 3 settembre 1947, n. 885, riconosce “la qualifica di profugo” al signor Emilio Volghieri, nato a Pola nel 1920, di professione autista. Nel documento rilasciato dal Comune di San Giorgio di Nogaro a firma di Giuseppe Garzoni, segretario comunale, il prefetto precisa di aver “sentito il Comitato Provinciale della V.G. e Zara”. I familiari a carico del Volghieri sono Ester Gorlato, la moglie e le figlie Luciana e Paola Volghieri (Aanvgd, b. F, Qualifiche, 1949). In base alla normativa vigente  l’associazionismo giuliano dalmata deve essere tenuto, dunque, in grande considerazione dall’autorità prefettizia e dalle amministrazioni comunali della provincia di Udine.

Scheda elettorale Consiglio Direttivo Anvgd di Udine, 1950; Aanvgd, b D, Cariche sociali verbali

ANVGD divisa in 4 Leghe – In occasione dell’assemblea ordinaria tenutasi in sala Brosadola a Udine per il rinnovo delle cariche sociali si sa dal «Messaggero Veneto» del 6 agosto 1950 che il presidente dell’ANVGD è il conte Giovanni de Fanfogna; il vice presidente risulta Carlo Conighi. La sede dell’associazione è in piazza Marconi, 7. Di detta assemblea c’è la scheda elettorale, che evidenzia come il sodalizio a Udine fosse suddiviso in base alle provenienze dell’esodo, perciò l’ANVGD di Udine è composta da 4 Leghe: Fiumana, Istriana, Dalmata e Triestina-Goriziana. I candidati sono Carlo Conighi, erroneamente definito “ing.” e Enrico Persi (Lega Fiumana), don Luciano Manzin e Argeo Benussi (Lega Istriana), Giovanni de Fanfogna e Walter Tudorov (Lega Dalmata), Antonio Premate e Marcello De Angeli (Lega Triestina-Goriziana). Cfr.: Aanvgd, busta D, Cariche sociali, verbali, 1950. Ciò conferma che pure Trieste e Gorizia, in quegli anni, fossero considerate terre d’esodo, data la loro instabilità politico istituzionale, i vari sconfinamenti, i sabotaggi e il pullulare di spie di ogni sorta. Gorizia era divisa dal confine con quella parte di città che gli slavi si annettono e chiamano Nova Gorica, mentre Trieste era sotto amministrazione angloamericana nel Territorio Libero di Trieste (TLT) fino al 1954, quando c’è la riannessione all’Italia. Nel 1951 è presidente dell’ANVGD di Udine l’architetto Carlo Conighi, mentre il vice presidente è Antonio Calvi.

Poi ci sono le tensioni politico militari del 1953-1954 fra Italia e Jugoslavia. “Mi ricordo che a Gorizia verso 1953 il confine era molto vicino alla mia scuola e i militari iugoslavi armati e coi capelli lunghi arruffati venivano a farci paura, gridando come matti dietro la recinzione confinaria – ha raccontato Ines Leonardi – noi ragazze eravamo allieve della scuola magistrale agazziana delle suore Orsoline e quel giardino vicino agli arbusti non lo potevano proprio sopportare, visto che quelli, passando sotto il filo spinato, ci inseguivano urlando coi mitra”. Un’altra fonte ricorda che: “In quel momento di crisi politica internazionale c’era tanta paura in famiglia – ha aggiunto Carmen Burelli – se ricordo bene le suore Orsoline di Gorizia ci fecero stare a casa per alcuni giorni, solo alcune delle studentesse si avvicinavano a quel giardino da dove sbucavano gli iugoslavi, ma noi, mai”.

Come si legge su «Difesa Adriatica» del 7 febbraio 1954 il presidente del sodalizio udinese dei profughi è ancora Carlo Conighi. Il 9 gennaio 1954 e nei giorni seguenti l’ANVGD di Udine consegna vari sussidi ai profughi che ne avevano fatto richiesta. È il caso di Sagrestano Vincenzo che firma una ricevuta di lire 500 (Collez. Conighi). Il 23 gennaio successivo un tragico lutto investe il Conighi, che perde l’amata consorte, Amalia Rassmann, tedesca di origine boema, come si vede a p. 2 su «Difesa Adriatica» del mese di febbraio 1954.

Bolletta della luce per il CAIVGZ di Udine, 1951. Collez. fam. Conighi.

Le dimissioni di Conighi – In seguito, sono convocati in assemblea per il rinnovo delle cariche sociali i 187 soci dell’ANVGD di Udine alla data del 25 luglio 1954. La riunione è piuttosto effervescente riguardo alle candidature per il Consiglio direttivo, considerato che nel 1953 i soci erano meno di cento, mentre in seguito raddoppiano in pochi mesi. Succede che certi fiumani, nelle votazioni per il Consiglio direttivo, preferiscono un triestino al fiumano Conighi il quale, sentendosi risentito da tale gesto, rassegna le sue dimissioni il 30 luglio 1954 al Comitato elettorale. Il presidente dello stesso Comitato elettorale, Guido de Randich, ha firmato il verbale delle votazioni per il Consiglio direttivo, da cui emerge che sono eletti: Borri Carlo, Bratti Attilio, Cremonesi Arduino, De Angeli Marcello, Gecele Augusto, Marini Marino, Premate Antonio, Scaglia Livio e Terdossi Claudio.

Passano un po’ di settimane, durante le quali, con contatti verbali probabilmente si cerca di rimediare alle dimissioni. Allora Aldo Clemente, presidente dell’Opera per l’Assistenza ai profughi giuliani e dalmati, da Roma il 24 agosto 1954, scrive al Conighi, manifestandogli il suo “sincero rincrescimento per il suo ritiro dall’Esecutivo del Comitato Provinciale di Udine, dopo lunghi anni di proficuo lavoro a favore dei Profughi Giuliani e Dalmati”. Il 15 settembre successivo Marcello De Angeli, presidente dell’ANVGD di Udine fresco di nomina, scrive al Conighi, accettando le sue dimissioni e nominandolo “presidente onorario”, con la sua firma assieme a quella del segretario Arduino Cremonesi e dei vicepresidenti Marino Marini e Claudio Terdossi. Pace sembra fatta. Il 21 settembre 1954, infatti, Carlo Conighi, nella sua veste di presidente onorario dell’ANVGD di Udine, scrive a padre Flaminio Rocchi, alla segreteria nazionale dell’ANVGD di Roma per perorare la causa del socio Alcido Innocente, macellaio, riguardo al rimborso per i beni abbandonati. “Per l’Alcido – spiega Conighi – il risarcimento di questi suoi beni, può significare la sua salvezza fisica versando egli in condizioni salutari veramente pietose e in continuo peggioramento” (Lettera di C. Conighi a padre Rocchi, Udine 21 settembre 1954, Collez. Conighi).

Lettera di Aldo Clemente a Carlo Leopoldo Conighi; Collez. fam. Conighi

Nota riguardo alla copertina – Una osmiza, o osmizza (in sloveno osmica), è un negozio tipico dell’altopiano del Carso, tra Italia e Slovenia, dove si vendono e si consumano vini e prodotti locali (quali uova, prosciutti, salami e formaggi) direttamente nelle stanze e nelle cantine dei contadini produttori. Tali negozi sono poi definiti agriturismi, con possibilità di ospitalità. Una vecchia zia triestina, senza malizie ma solo con intenti identitari, negli anni ’40 diceva: “Se magna e se bevi assai ben ne le osmizze, pecà che xe tutti s’ciavi, anche i gatti”. Con la parola “s’ciavo”, in dialetto istro-veneto si intende “schiavo”, nel senso di “slavo, croato”. Deriva dal latino volgare “sclavus”, ossia “slavo”. I veneziani chiamavano “S’ciavoni” o “Schiavoni” i marinai slavi della flotta della Serenissima e pure gli abitanti slavi delle isole e della Dalmazia, senza attribuire al termine l’accezione vagamente spregiativa, che ha assunto invece a Trieste, con la guerra fredda: “s’ciavo = schiavo, sottomesso, o iugoslavo titino”.

Fonti orali e ringraziamenti – Si ringraziano e si ricordano le persone seguenti che hanno collaborato alla ricerca con l’intervista (int.) condotta a Udine da Elio Varutti con taccuino, penna e macchina fotografica, se non altrimenti indicato. Grazie a Fausto Deganutti per l’immagine di copertina dell’articolo presente e a Daniela Conighi per i vari aiuti nelle biografie.

1) Miranda Brussich, vedova Conighi (Pola 1919 – Ferrara 2013), int. a Ferrara tra il 17 agosto 2003 e il 21 agosto 2013, alla presenza della figlia Daniela Conighi.  2) Giuseppe Bugatto Junior (Zara 1924 – Udine 2014), int. del giorno 11 febbraio 2004, in presenza di Giuseppe Marsich, italiano all’estero (Veglia 1928 – Udine 2019) e di Rita Bugatto in Marsich, Zara 1928.  3) Carmen Burelli, Udine 1936, int del 4 novembre 2020.  4) Carla Giordani, Udine 1942, int. del 2 novembre 2020. – Ines Leonardi (Udine 1934 – Roma 2014), int. del 6 luglio 2012.  5) Giovanni Lupetich, Udine 1953, residente a Belluno, int. telef. del 10-14 giugno, 7 agosto 2016, oltre all’int. del 1° settembre 2016, con sua figlia Marianne Lupetich.

Lettera di Carlo L. Conighi a padre Rocchi, 1954; collez. fam. Conighi

Archivi, Biblioteche e Istituti di ricerca visitati – Archivio ANVGD di Udine (Aanvgd), Collezione Maria Zonta di Parenzo, tessera CNVGZ n. 494 del 20 dicembre 1947, sezione regionale di Udine. Ordine di pagamento a De Cecco, 1947, b B Contributi e varie altre buste. – Archivio di Stato di Udine (ASUd), Prefettura, b 55, f 190, ms. – Biblioteca Civica “Vincenzo Joppi”, Udine, quotidiani, libri e giornali vari. – Biblioteca dell’ANVGD di Udine, Vicolo Sillio, 5, libri sull’esodo. – Biblioteca Statale Isontina, Gorizia, «L’Arena di Pola», annate varie. – Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine, quotidiano «Libertà», 1946.

Collezioni private – Collezione famiglia Conighi, Ferrara, ora a Udine, bollette, lettere, verbali, nota spese e fotografie.

– Collezione Helga Conighi Orgnani, Udine, tessera ANVGD n. 628, giornale «Difesa Adriatica» 1954 e vari altri cimeli.

– Collezione privata, Belluno, tessera n. 1.096 del CNVGZ, sede di Udine, del 2 giugno 1947 e intestata a Renato Lupetich, di Fiume.

Ricevuta per sussidio a Sagrestano Vincenzo, ANVGD di Udine,1954; Coll. fam. Conighi

Riferimenti bibliografici – Cristiana Colummi, Liliana Ferrari, Gianna Nassisi, Germano Trani, Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione del Friuli Venezia Giulia, 1980.

«Difesa Adriatica», VIII, n. 6-7, febbraio 1954, p. 2.

“Le nozze di Gianfranco e Carol Sbisà a Sydney”, «L’Arena di Pola», n. 1.466, 30 marzo 1965, p.2.

Elio Varutti, Il Campo Profughi di Via Pradamano e l’Associazionismo giuliano dalmata a Udine. Ricerca storico sociologica tra la gente del quartiere e degli adriatici dell’esodo, 1945-2007, Udine, Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Comitato Provinciale di Udine, 2007.

Sitologia – Carlo Cesare Montani, Gloria victis: la strage di Vergarolla. A 70 anni dall’eccidio, il giudizio storico circa la responsabilità jugoslava si coniuga con quello etico, 2017.

– Nenad Labus – SEAS, Biografija. Conighi, Calo Leopoldo, “Formula 1 dizionario – Fiume” (in lingua croata).

– E. Varutti, L’ANVGD di Udine, storia e cifre, on line dal 16 agosto 2017.

Udine 19.11.1961, sala Circolo bancario, conferenza per il Gruppo Giovanile Adriatico dell’avvocato Ruggero Gherbaz, sindaco del Libero Comune di Fiume, a sinistra, presentato dall’architetto Carlo L. Conighi, presidente onorario dell’ANVGD di Udine. Collez. fam. Conighi

Servizio giornalistico diretto da Elio Varutti. Ricerche e Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Copertina: Fausto Deganutti, La strana Osmizza, cm 40 x 50, 1999, courtesy dell’artista. Lettrice: Daniela Conighi. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 (in fase di trasloco) – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

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I diritti e le ortiche. Esuli dai Campi profughi ai Villaggi per rifugiati di Firenze, 1945-2009

L’esodo degli Sklemba di Fiume, nel 1949, segue la tipica trafila degli italiani che esercitavano il diritto d’opzione nelle province invase dagli iugoslavi (Fiume, Pola e Zara). Antonio Sklemba, classe 1892 e sua moglie Giuseppina Zadnik, nata a Fiume nel 1911, sin dal 5 luglio 1949 ottengono il passaporto provvisorio di sola andata n. 19.672 (lui) e n. 19.673 (lei). Per andarsene dalla loro amata città del Quarnaro, tuttavia, aspettano il parto del secondo figlio. Poi quando il passaporto è aggiornato per ambedue i figli (Guglielmo, del 1948 e Giuliano venuto alla luce proprio del 1949), la famiglia intera se ne va. Passano il confine a Sežana il 12 ottobre 1949, nella Zona B del Territorio Libero di Trieste (TLT) posta sotto il controllo dei carri armati iugoslavi. Alcuni tank con la stella rossa sono di fabbricazione USA, forniti ai partigiani nel 1944. Gli Sklemba varcano la linea confinaria della Zona A del TLT, controllata dagli angloamericani fino al 1954. Varcano così la Cortina di ferro, entrando nel mondo libero, come si diceva al tempo della guerra fredda.

Passaporto di Antonio Sklemba di Fiume

Viene affibbiato loro l’appellativo di “Displaced Persons” (rifugiati) il 13 ottobre 1949, al Centro profughi controllato dai militari USA. È il “Displaced Persons Centre A.M.G.” (Centro per rifugiati dell’Allied Military Government, del Governo Militare Alleato. Ii timbro sul passaporto (vedi foto a fianco) è per il solo viaggio di rimpatrio, come recita il modulo stampato del Consolato Italiano di Zagabria, firmato dal cancelliere A. Zaruba. Col treno raggiungono Udine, dove passano al Centro smistamento profughi, diretto dal dott. Roberto Crimì. Era il più grosso d’Italia, come diceva l’ingegnere Silvio Cattalini, esule da Zara e presidente dell’ANVGD di Udine dal 1972 al 2017. Poi gli Sklemba sono destinati al Centro raccolta profughi (Crp) di Brescia, a quello di Bogliaco (BS) per circa 4 anni e mezzo e trasferiti al Crp di Chiari (BS). Arrivano a Firenze il giorno 8 settembre 1954 in via della Scala per due anni fino al novembre 1956, poi in via Nicola di Tolentino, nelle case del Villaggio profughi.

Retro del passaporto di Antonio Sklemba
  1. Perfin ne le Cappelle Medicee, perché no jera posto

“Me ricordo del Campo profughi de Firenze – ha raccontato Miranda Brussich, esule da Fiume – un vecio fabricado vodo e adibido ai profughi; jera i divisori coi cartoni e le sorelle Maria, Giusepina e Clementina Zanetti le xe stade così per qualche anno. I aveva messo profughi italiani de l’Istria perfin ne le Cappelle Medicee, perché no jera posto. Nei primi anni Cinquanta jera tanti profughi a Firenze, mi li gò visti, perché da Forlì, dove con mio marito e i fioi ierimo esuli da Fiume, andavo a trovar le mie zie Zanetti de Pola”. Si precisa che il Campo profughi istriani, fiumani e dalmati a Firenze era presso la ex Manifattura Tabacchi, compresa tra la via Guelfa, via Panicale e via Taddea, nell’area dell’antico Monastero di Sant’Orsola. Il Campo Profughi operò dal 1945 al 1968, quando alla fine accoglieva anche sfrattati o senza tetto. Come Miranda Brussich ha ricordato i cartoni del Campo Profughi fiorentino di Via Guelfa, anche Myriam Andreatini-Sfilli, nel suo Flash di una giovinezza vissuta tra i cartoni, Alcione, 2000, sin dal titolo del libro accenna ai cartoni che fungevano da parete divisoria nel Centro raccolta profughi di Via Guelfa a Firenze, nel vecchio Monastero di Sant’Orsola.

Su «L’Arena di Pola» del 1948 si legge che nel Campo Profughi di Firenze è stata festeggiata la ricorrenza di San Nicolò, per far contenti i bambini. Qualche altra notizia sul Campo Profughi di Firenze mi è giunta dalla signora Marisa Roman, nata a Parenzo nel 1929. “Una mia amica nata a Trieste, che era Chiara Battigelli in Baldasseroni – ha detto Marisa Roman – mi ha parlato del Campo Profughi di Firenze”. Come mai? “La Battigelli conosceva troppo bene Firenze – racconta la Roman – e, saputo che i profughi giuliano dalmati erano stati accolti nei locali della Manifattura Tabacchi, andò a cercare notizie tra piazza Indipendenza e piazza San Lorenzo, trovando solo il figlio del custode di quel luogo”. Quando fu fatta tale ricerca? “Erano gli anni 1990-1995 – è la risposta della Roman – e in Italia c’erano molti profughi dal Kossovo, perché c’erano le guerre balcaniche, allora la domanda al figlio del custode fu del tipo ‘Ci sono stati dei profughi qui alla Manifattura di Firenze?’ e la risposta fu negativa”. La Battigelli non si arrese, e gli parlò degli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, negli anni 1946-1956. “Allora il figlio del custode disse: ‘Ah, gli istriani e fiumani, ma quelli non erano profughi, erano brave persone, erano educati e hanno lasciato tutto pulito”. Mai una risposta così poteva essere più soddisfacente per il mondo degli esuli.

Profughi. Fornello elettrico della famiglia Sklemba

La documentazione conservata presso l’Archivio della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Ufficio Zone di Confine (d’ora in poi PCM, Archivio UZC), studiato da Raoul Pupo – contiene importanti riferimenti al trasferimento dei lavoratori dalla Manifattura Tabacchi di Pola ad altre Manifatture attive sul territorio italiano. Personale che – come si legge in una nota di servizio redatta dal direttore generale dei Monopoli di Stato il 15 gennaio 1947 e inviata al Ministero dell’Interno – sarà trasferito “verso le fabbriche di Firenze, Lucca e Sestri Ponente in forti nuclei, e verso altri opifici in gruppi di piccola entità”. Si tratta – continua il documento – di circa 2.000 unità, delle quali “580 confluiranno a Firenze, 400 a Lucca e 420 a Sestri Ponente”, mentre le altre saranno “inviate in centri minori” (PCM, Archivio UZC).

Non tutti sanno che il Crp di Firenze, situato nell’antico monastero di Sant’Orsola, in Via Guelfa, fu adattato nell’Ottocento a Manifattura Tabacchi. “Siamo venuti via da Pola il 3 marzo 1947 – ha raccontato la signora Liana Di Giorgi Sossi – ero una bambina e ci hanno imbarcato sul piroscafo Toscana e dopo ci hanno sbarcato a Venezia, per collocarci alla Caserma Sanguinetti per una settimana, accuditi dai militari. Anche quello era un Centro raccolta profughi. Potrei dire che alla Manifattura Tabacchi di Pola saranno rimasti due o tre dipendenti, tutti gli altri sono fuggiti oltre il Territorio Libero di Trieste, nel resto d’Italia, come Firenze, Lucca, Genova”.

Poi cosa è accaduto? “Ci hanno inviato in treno fino a Firenze – replica la testimone, nata a Pola nel 1937 – presso la vecchia Manifattura Tabacchi, adattata a Centro raccolta profughi, in Via Guelfa, dove siamo rimasti per cinque anni. È lì che c’erano molte operaie sfollate dipendenti della Manifattura Tabacchi di Pola e trasferite in quella nuova Manifattura Tabacchi di Firenze, che stava alle Cascine e che fu costruita nel 1941”. Com’era la vita al CRP di Via Guelfa a Firenze? “Diciamo che prima di tutto abbiamo subito una certa forma di razzismo – ha spiegato la signora Liana, con un’affascinante pronuncia toscanaccia – da parte di certi fiorentini contro noi profughi, poi ricordo che eravamo tanti ragazzini e si giocava nel cortile. Prima avevamo le pareti fatte con lo spago e le coperte gettate sopra, per avere un po’ di intimità familiare – ha aggiunto – poi i falegnami della nuova Manifattura Tabacchi fiorentina ci hanno costruito con delle assi di legno e dei cartoni, una serie di separé e così ogni famiglia aveva il suo box. Ricordo anche che, mentre stavo al Campo profughi di Via Guelfa, ho fatto la prima comunione nella Chiesa di Santa Reparata: è stato bello. Però noi lì eravamo isolati. Eravamo in Campo profughi e uscivamo solo per andare a scuola oppure a lavorare”.

Dalla stampa di Firenze del 1956; collez. Sklemba
  1. La Relazione Sklemba sui Crp e sul Villaggio giuliano

Per i paragrafi seguenti ci si avvale di una relazione sui Campi profughi e sui Villaggi per esuli sorti a Firenze, scritta da Guglielmo Sklemba nel 2012 con curioso titolo in lingua inglese. “Fino alla prima metà degli anni cinquanta a Firenze città – ha scritto Sklemba – esistevano tre campi profughi: uno in via della Scala (ex caserma del Genio), uno in via Guelfa e l’altro in via della Pergola. Questi centri di accoglienza rappresentavano una detenzione ingiusta e pesante per coloro che erano obbligati a subirla e, nel contempo, costituivano un problema sociale, un insulto e anche un onere per la città d’arte che era costretta a sopportarli e in parte a supportarli”.

In concomitanza con la Legge 137/52, che prevedeva la costruzione a carico dello Stato di alloggi popolari per i profughi, il Comune di Firenze, essendo sindaco Giorgio La Pira, contribuì alla sistemazione degli esuli, mettendo a disposizione un terreno ai margini della città, in località Le Gore a Rifredi. Nel triennio 1954-’56 su quest’area vennero realizzati dodici fabbricati per un totale di 282 appartamenti che furono assegnati per due terzi ai profughi giuliano dalmati e per un terzo a quelli provenienti dalla Grecia ed altre zone. La gestione venne affidata all’IACP.

Gli appartamenti, alcuni corredati di terrazza, ma tutti sprovvisti di cantina, riscaldamento e bidet, erano compresi tra 43 e 49 metri quadrati, e solo 12 di essi raggiungevano i 70 mq. “Quello di chi scrive – ha aggiunto Sklemba – misurava 49 mq oltre la terrazza. Nel 1956 ospitava il papà, la mamma e tre fratellini, due maschi e una femmina. Questa situazione era più o meno uguale per tutte le altre famiglie”. Il Villaggio profughi, realizzato dall’Impresa Pontello in subappalto all’insegna della massima economicità, era privo di strade, costruite in seguito e delle opere di urbanizzazione, realizzate addirittura solo agli inizi del 2000.

Firenze, le case per i profughi in via Nicola da Tolentino

Per i profughi queste case novelle rappresentavano l’inizio di una nuova vita. Era finita l’epoca delle caserme dimesse. Erano cessati gli orrori della coabitazione in ex-conventi, dove i divisori che separavano le diverse famiglie erano cartoni o coperte. Dopo sette anni di campi profughi si tornava finalmente sotto un tetto, tra pareti fatte di mattoni. Era terminato il grigio inverno e poteva iniziare la bella stagione di diritti acquisiti, ma dietro l’angolo troveranno le ortiche.

“Fin dall’inizio i profughi giuliani vennero etichettati come ‘fascisti’ – ha spiegato Sklemba – mentre quelli greci erano più semplicemente dei  ‘contrabbandieri’. L’atteggiamento da parte della dirigenza dell’IACP nei confronti dei profughi assegnatari è stato negativo, a giudizio della gente. Nel 1959 ci furono le prime aperture per la cessione in proprietà degli alloggi, in quanto la L. 137/52 non ne contemplava la vendita. Tre anni dopo arrivava finalmente la Legge 231/62, che in modo chiaro e organico regolamentava queste cessioni a prezzi di particolare favore, ma tale legislazione non fu nota a tutti.

  1. Esuli a Firenze dagli anni ’60 al nuovo millennio

Nel 1965 solo un quinto dei profughi assegnatari, presentò al Demanio le domande entro i termini con l’appoggio di un Comitato, che contattò poche famiglie. Nel 1972 essi riuscirono a stipulare l’atto di acquisto provocando una frattura all’interno del villaggio.

In seguito all’entrata in vigore della Legge 513/77 l’ATER modificò i canoni di locazione in spregio alla L. 137/52, che invece regolava questo particolare tipo di alloggi. La popolazione in rivolta si riunì in un altro Comitato, tutelando dei propri diritti. Fu  incaricato un legale e vinse due cause consecutive: sentenza del Giudice Conciliatore n. 78 del 25/03/80 e sentenza del Pretore n. 1226 del 23/05/81. L’ATER, tuttavia, continuò ad inviare dei bollettini aumentati; ciò avvenne dopo aver perduto il ricorso in Cassazione: sentenza n. 419 del 09/04/88. Nel frattempo altre 35 famiglie acquistarono dal Demanio l’alloggio ai sensi della L. 513/77, legge che però con i profughi non ci azzeccava proprio per nulla, ha commentato Sklemba.

Nel 1991 sorge l’Associazione Regionale Toscana Profughi Italiani. Costituita da elementi assai diversi tra loro, persegue il medesimo obbiettivo: l’acquisto dal Demanio dello Stato dell’alloggio assegnato al nucleo familiare. In seguito alla emanazione della L. 560/93, il cui comma 24 riprendeva quanto già previsto ampiamente dalla L. 231/62, per prudenza già nella prima metà del 1994 tutti i profughi inquilini avevano presentato le domande di acquisto che scadevano il 15/01/1995. Il clima era frenetico perché i contratti sembravano imminenti e per stipularli bisognava essere in regola con i pagamenti dei canoni scaduti. Per quieto vivere molta gente aveva accettato l’azione dell’ATER, in modo da essere più tranquilla senza che sorgessero problemi interpretativi di sorta in fase di acquisto.

Nel 1995 l’Ufficio Patrimonio Abitativo ha dato il via nel villaggio all’atto di forza di “requisizione immediata di alloggi di proprietà ATER e temporanea assegnazione” a nuclei non profughi. Con tale blitz circa 80 appartamenti sono passati in proprietà comunale, mentre morivano i profughi anziani.

Da geometra professionista Sklemba, nel 1996, aveva fornito al Demanio una planimetria con il piano tipo completo di tutto il villaggio e il costo di ogni alloggio calcolato sulla base della gara di appalto, aggiudicata da Pontello. Sembrava fatta. Invece c’erano altri problemi burocratici.

“Dopo un anno di insistenze fatte a titolo personale ogni volta che andavo in Catasto – ha aggiunto Sklemba nel suo memoriale – e anche in modo ufficiale attraverso l’Associazione Regionale Toscana Profughi Italiani della quale per lungo tempo sono stato il vice presidente e la penna storica, finalmente nel maggio 1997 il Demanio si decideva ad inviare il prezzo di acquisto ai vari assegnatari”. Nella comunicazione veniva specificato che il contratto si sarebbe effettuato solo dopo che il Comune avesse trasferito al Demanio la proprietà del terreno. Mancava il completamento degli interventi urbanistici.

In questo frangente l’Associazione Profughi Italiani tempestava di lettere tutte le parti che potevano avere voce in capitolo, dal sindaco Primicerio al Prefetto, dal Demanio al Parlamento Europeo, dal Direttore del Comune di Firenze alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dalla Direzione Centrale del Demanio alla Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. Tutti, ad esclusione del sindaco, hanno sempre risposto. Infine è stato scritto direttamente all’Ufficio Legale del Comune. In luogo di una generica risposta è arrivata all’Associazione la comunicazione delle due delibere di cessione dei terreni sia di via Nicola da Tolentino che di via Magellano.

Firenze, Villaggio profughi, il degrado di qualche casa nei primi anni 2000; collez. Sklemba

“L’Associazione Profughi Italiani, sulla scorta di alcune informazioni assunte presso il Demanio e con l’aiuto di persone dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia – ha aggiunto Sklemba – ha predisposto e compilato velocemente oltre 180 specifici modelli con i dati relativi agli associati e tutti i profughi si sono precipitati a versare il prezzo richiesto presso la Filiale della Banca d’Italia” era il 1998. A quel punto il Comune, pressato dal Demanio, ha dovuto cedere intanto il terreno di via Magellano con atto stipulato il 15/12/1998. La nota di maggior rilievo del 2000 consiste nel definitivo atto di cessione del terreno di via Nicola da Tolentino al Demanio.

Nel 2001-2003 c’è stato il raggiungimento dell’obiettivo, dopo faticose battaglie: gran parte dei profughi ebbero la casa. Di fatto c’è stata la cessazione dell’attività dell’Associazione Regionale Toscana Profughi Italiani e la sparizione di tutti i suoi soci. Verso il 2009, tuttavia, il Comune è riuscito a farsi dare dal Demanio dello Stato gli ultimi 79 alloggi rimasti, impedendo ai profughi, o ai loro congiunti, di partecipare ai relativi bandi di assegnazione in edifici pur bisognosi di straordinaria manutenzione.

Documenti originali – Guglielmo Sklemba, Julian & Greek Tribes – Florence Reservation. Appunti di viaggio, testo in Word, Firenze, 21 marzo 2012, pp. 6.

Dichiarazione di profugo per Antonio Sklemba dal Centro profughi di Firenze, 1954. Coll. Sklemba

Fonti orali e digitali. Ringrazio e ricordo le persone che hanno concesso l’intervista (int.), svoltasi a Udine a cura di Elio Varutti con penna, taccuino e macchina fotografica, se non altrimenti indicato: -Miranda Brussich vedova Conighi (Pola 1919 – Ferrara 2013), int. del 28 dicembre 2008 a Ferrara con Daniela Conighi. – Silvio Cattalini (Zara 1927 – Udine 2017), int. del 22 gennaio 2004 e 10 febbraio 2016. – Liana Di Giorgi Sossi, Pola 1937, esule a Rignano sull’Arno (FI), int. telef. del 16 gennaio 2017. – Marisa Roman, Parenzo 1929, int. del 23 dicembre 2014.Guglielmo Sklemba, Fiume 1948, vive a Firenze, int. telefonica del 18 settembre 2020.

Collezione privata – Guglielmo Sklemba, esule da Fiume a Firenze, fotografie, stampati e documenti ms.

Bibliografia e sitologia – Myriam Andreatini-Sfilli, Flash di una giovinezza vissuta tra i cartoni, Alcione, 2000.

«L’Arena di Pola», n. 5, IV, 15 aprile 1948.

Elena Commessatti, “Villaggio Metallico e altre storie a Udine, città dell’accoglienza”, «Messaggero Veneto», 30 gennaio 2011, pag. 4; poi in: E. Comessatti, Udine Genius Loci, Udine, Forum, 2013, pp. 98-101.

Raoul Pupo, L’Ufficio per le zone di confine e la Venezia Giulia: filoni di ricerca, «Qualestoria», XXXVIII, 2, dicembre 2010, pp. 57-63.

E. Varutti, Il Campo Profughi di Via Pradamano e l’Associazionismo giuliano dalmata a Udine. Ricerca storico sociologica tra la gente del quartiere e degli adriatici dell’esodo, 1945-2007, Udine, Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Comitato Provinciale di Udine, 2007.

E. Varutti, Quella vecchia zia di Pola. Un racconto sull’Istria e sull’esodo a Firenze, on line dal 9 novembre 2014.

E. Varutti, Da Pola al Centro Profughi di Firenze, con pareti di cartone, on line dal 17 gennaio 2017.

E. Varutti, Tabacchine istriane esuli a Firenze, conferenza a Udine, on line dal 21 febbraio 2017.

Progetto e ricerche di C. Ausilio, dell’ ANVGD di Arezzo e E. Varutti, dell’ANVGD di Udine. Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio e Enrico Modotti. Copertina: Stoviglie (o gamele) per i profughi; Collezione Guglielmo Sklemba, Firenze. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Visti da vicino! L’ultimo libro di Franco Fornasaro, dell’Anvgd di Udine

Si intitola “Visti da vicino!” l’ultima fatica letteraria di Franco Fornasaro, del Comitato Esecutivo dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD) di Udine. È una originale carrellata di personaggi vari con i quali l’Autore ha interagito, per gli editori Aviani & Aviani, Udine 2020. Il libro, uscito il 23 maggio scorso, è una scorrevole palestra umana di personalità. È suddiviso secondo le diverse discipline dei protagonisti e ha un ottimo indice dei nomi. Ci sono vari pezzi grossi riferibili ai temi dell’esodo giuliano dalmata e c’è un po’ di storia familiare, come quando l’Autore accenna al fatto che il suo babbo era nato sull’Isola di Veglia/Krk e, dopo il Trattato di Rapallo del 1920, per restare italiano era passato con i genitori a Cherso, nella provincia di Pola redenta. Un altro esodo familiare sarà dopo la seconda guerra mondiale verso Trieste e il Friuli, fino in quella Cividale del Friuli che da tempo vede in Fornasaro uno stimato farmacista.

Tra i pezzi da novanta di questo bel volume, sui temi dell’esodo giuliano dalmata, con le stupende miniature di capilettera gotici di Pietro Tolazzi, troviamo Antonio Santin, ultimo arcivescovo di Trieste e Capodistria, nativo di Rovigno, nonché estensore della Preghiera dell’Infoibato nel 1959. Ebbene, il nostro Fornasaro è stato un chierichetto del vescovo Santin, immortalato perfino in una fotografia degli anni ’60 apparsa sulle pagine de «Il Piccolo» in atto di benedire il transatlantico Raffaello al varo. Non è tutto perché nel 1970, con i bollori del ’68 e le novità del Concilio Vaticano II, il cresciuto chierichetto, a nome della parrocchia triestina capitanata da don Elio Stefanuto, ha avuto l’ardire di chiedere al vescovo nientemeno che la chiusura dell’Azione Cattolica, molto in anticipo peraltro rispetto al testo canzonettistico di Zucchero Fornaciari. La risposta bonaria, paciosa e scontata del meravigliato vescovo ha soddisfatto tutti che si sciolsero in un lungo applauso. Santin sapeva cogliere il pathos di un popolo intero, conclude Fornasaro.

Franco Fornasaro. Fotografia di E. Varutti 2017

Ci sono poi altre figure significative del dialogo fra gli Adriatici, come Mario Micheli, ingegnere di Fiume/Rijeka, per anni nella segreteria degli Italiani di Fiume, oppure Antonio Vitale Bommarco (1923-2004), arcivescovo di Gorizia, nato a Cherso. Ora, non si scandalizzi il lettore, ma il primo personaggio della lista di Fornasaro è addirittura quell’Josip Broz, detto Tito. La storia del suo incontro col plurimedagliato presidente iugoslavo avvenne presso Giusterna, lungo la strada Pirano-Trieste, che il bimbo Fornasaro stava percorrendo in corriera con la madre, dopo essere stato dalla zia di Portorose, nonostante gli estenuanti permessi slavi per passare la Cortina di ferro. Per farla breve Tito, nella sua autovettura presidenziale, passa accanto al bimbo Fornasaro. La gente applaude, i poliziotti iugoslavi fremono. Tito saluta e sembra benedire con la sua manona. Nonostante la madre del nostro Autore gli avesse intimato: “Sta bon… no’ sta fa’ confusion… i ne zigherà. E i ne meterà dentro!” il bimbo Fornasaro saluta felice e Tito ricambia con un sorriso. La madre inghiotte amaro e solo alla sera, a casa a Trieste, prima della cena a base di uova sode e fagiolini comunica, indignata, al figlio: “Ricordite ben… Tito, per noi, xe sta’ na vera disgrassia!”.

I volti umani qui descritti hanno accompagnato il curriculum professionale e di maturazione del pensiero identitario e filosofico dell’Autore. Egli confessa di aver imparato da una costellazione di individui conosciuti in vario modo, o da lui seguito e con i quali ha discusso dell’universo mondo che lo caratterizza. Qui ci sono allora la botanica, la chimica, il diritto, l’ecclesia, il giornalismo, l’identità, la letteratura, la matematica, la medicina, la musica, la storia, la politica, il teatro, le testimonianze e la zoologia. Il tutto è ammantato di alcune premesse e da curiosi incisi che rendono piacevole e rilassante la lettura.

Altri personaggi Adriatici del mondo di Fornasaro sono: don Mario Cosulich, nato a Lussino e cappellano del porto di Trieste; Giorgio Benedetti, di Pirano, scultore; Darko, alias Teodoro Bevilacqua, nato a Bilje (Slovenia), scultore e pittore; Roberto Faganel, nato a Vertoiba, pittore; Ivan Devčić, arcivescovo di Fiume; Ezio Giuricin, di Fiume, giornalista; Biancastella Zanini, di Pola, giornalista RAI; Mario Bonita, di Pola, giornalista; Emilio Fatovic, di Zara, del Comitato Economico Sociale Europeo e Silvio Cattalini, di Zara, presidente dell’ANVGD di Udine dal 1972 al 2017.

Tra quelli che mi hanno colpito ci sono, infine, Dario Donati, di Fiume, funzionario di stato e scrittore, oltre che del Consiglio Direttivo dell’ANVGD di Udine; Fulvio Tomizza, di Materada, scrittore e Silvano Sau, di Isola d’Istria, scrittore, presidente dell’Unione degli Italiani d’Istria e di Fiume, nonché parlamentare iugoslavo.

Il libro qui recensito

Franco Fornasaro, Visti da vicino!, Udine, Aviani & Aviani, 2020, pagg. 216, euro 23.

Recensione di Elio Varutti. Servizio redazionale e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

L’ombra dell’Ozna in omicidi partigiani in Veneto. Il caso Vittorio Silvio Premuda, 1944

Certi libri hanno un’anima. Ne sa qualcosa l’autrice Maria Pia Premuda Marson che intende coltivare la memoria alla stessa stregua di un bene culturale. Questi libri squarciano la tela del silenzio riguardo all’uccisione di partigiani italiani da parte di altri italiani, sotto la guida di un burattinaio slavo. La sua battaglia culturale inizia nel 2013, quando dà alle stampe Rievocazioni storiche di Vittorio Silvio e di Nicolò Premuda: documenti, storia e tracce della famiglia, per l’editrice Cleup di Padova. Sin da quell’esordio editoriale sui temi del secondo conflitto mondiale si nota una disperata ricerca della verità riguardo l’assassinio di Vittorio Silvio Premuda, partigiano della formazione “Fratelli d’Italia”, oltre che suo caro zio, da parte di partigiani comunisti italiani guidati da un comandante slavo. I libri che seguono e che qui si recensiscono sono la prosecuzione e l’approfondimento dell’indagine volta a recuperare la memoria del tenente colonnello Vittorio Silvio Premuda, come recita il sottotitolo del volume del 2017: L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda tra le epurazioni finalizzate al tentativo di porre una parte del nostro stato sotto la sovranità della nascente confederazione jugoslava.

Il problema per Maria Pia Premuda Marson è che la letteratura e certi storici novecenteschi della Resistenza derubricano la fucilazione di Vittorio Premuda, avvenuta il 19 agosto 1944, come un fatto d’invidia tra partigiani di opposte formazioni politiche. Oppure ascrivono all’impreparazione militare della compagine del Premuda la tremenda fine “in un lago di sangue del suo comandante”, come ha scritto, senza contattare i discendenti né consultare gli atti della Corte d’Assise di Treviso, Roberto Binotto in Personaggi illustri della Marca Trevigiana, 1996. Per giunta è del tutto paradossale scrivere che un tenente colonnello di fanteria del Regio esercito, sia impreparato, vista la sua carriera militare che lo vide per anni impegnato in Libia, Tunisia, Veneto, Campania e poi passato alla macchia, dopo l’8 settembre 1943, per sfuggire ai lager nazisti.

Allora, chi ha ucciso Vittorio Silvio Premuda? Non è una scaramuccia fra partigiani con un comandante rimbecillito che ordina fucilazioni a vanvera. Secondo la sentenza della Corte d’Assise di Treviso del 3 dicembre 1946 e dagli articoli de «Il Gazzettino» di quel periodo, egli fu attirato con una scusa in una trappola dal comandante comunista “Tigre”, poi venne arrestato e fucilato da partigiani garibaldini comunisti, guidati dallo slavo Kubricevic Svetiovar, detto “Felice” e dallo stesso capo partigiano italiano “Tigre”, comunista di Oderzo (TV). Gli assassini sono tanti contro uno. Essi arrivano in camion e si nascondono per catturarlo meglio. Tra l’altro il Kubricevic è un ufficiale della marina iugoslava (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 58), allora viene modestamente da chiedersi: di quali barche slave si stava egli occupando mentre operava sulle colline di Vittorio Veneto? Ecco affacciarsi l’ombra dell’Ozna, il servizio segreto titino.

Nel 1994 l’Amministrazione comunale di Codognè (TV), nella persona del sindaco Mario Gardenal, promuove la commemorazione di Vittorio Silvio Premuda, in occasione del 50° anniversario del suo massacro. Come scrive la nipote, tra le autorità che si notarono c’era il vescovo di Vittorio Veneto Eugenio Ravignani, nativo di Pola, l’ingegnere Silvio Cattalini, esule da Zara e presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, assieme a molte autorità militari e rappresentanze d’Arma (La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda…, 2020, p. 13).

I due volumi del 2017 e del 2020 della Premuda Marson fanno luce su un fatto rimasto nell’ombra per la congiura del silenzio, rottasi solo dopo la caduta del Muro di Berlino (1989). Le uccisioni fra partigiani, secondo la retorica novecentesca di gran parte degli storici della Resistenza è sempre meglio classificarle come vendetta e invidia tra personaggi facinorosi e strambi. L’ottima divulgatrice che è Maria Pia Premuda Marson, bilaureata della classe 1927 nonché socia dell’ANVGD di Udine, colma un vuoto assordante nella vicenda del massacro del tenente colonnello Vittorio Silvio Premuda, comandante della Brigata “Fratelli d’Italia” di partigiani non comunisti attivi tra Piave e Livenza. Egli non era disposto a passare sotto il comando dei partigiani garibaldini, come espressamente gli fu richiesto, per tale motivo lo slavo Kubricevic Svetiovar, detto “Felice”, ne decretò la morte, ben sei mesi prima dell’eccidio di Porzus, in Comune di Attimis (UD). Altro ammazzamento fra partigiani più tristemente noto rispetto all’eliminazione del Premuda stesso.

Si tenga presente poi che il comandante della Brigata “Fratelli d’Italia” era in contatto tramite il generale Cugini “Castelli” con gli angloamericani che lo rifornivano con lanci aerei di vario materiale bellico, previo messaggio su Radio Londra (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 4). Tutto ciò dava molto fastidio ai partigiani garibaldini, guidati da Kubricevic Svetiovar, detto “Felice”, probabile agente dell’Ozna.

Dopo la morte e il riconoscimento del cadavere di Vittorio Silvio Premuda, il comando della sua unità partigiana passò al fratello Nicolò Premuda, “Nipro”. Nel mese di aprile 1945 i patrioti di detta formazione erano oltre 700 e collaborano con altri partigiani contro i tedeschi, fino all’arrivo dei Neozelandesi. Nicolò Premuda, volontario irredentista nella Grande Guerra, in seguito fu sindaco per 14 anni a Codognè fino al 1970. Egli, nel tentativo di evitare una guerra fratricida alla fine della seconda guerra mondiale, fu ferito gravemente il 27 aprile 1947. Chi gli spara? Voleva  trattare la resa col maggiore Gulmanelli, comandante della Guardia Nazionale Repubblicana di Codognè. Durante le concitate trattative, mentre erano essi diretti a Oderzo, ci fu uno scontro a fuoco “da partigiani contrari ai suoi ordini di evitare una guerra fratricida; cadde svenuto nel sangue ed il maggiore dei fascisti, urlò spiegazioni ma vedendosi in balia di ribelli, si sparò e la orribile strage che mio padre [Nicolò] voleva evitare, incominciò a Camino di Oderzo e poi venne perpetrata sul Piave a Susegana” (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda, 2017, p. 75)

L’autrice riporta in qualche pagina finale pure la toccante vicenda dei suoi avi dell’Isola di Premuda, situata tra Lussino e Zara, oltre ad altri suoi antenati di Lussino (Istria, ora: Croazia) e di Perasto alle Bocche del Cattaro (Dalmazia, ora: Montenegro). Qualche facciata è dedicata pure all’esodo giuliano dalmata, quando nel settembre 1943 la famiglia della sorella di suo padre Nicolò si trova ad ospitare a Roverbasso di Codognè (TV) certi lontani parenti Premuda di Fiume e di Pola con cinque bambini. “Allora non comprendevo la causa di questo avvenimento strano, perché a me adolescente, era stata nascosta la tragica realtà” (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 74).

La Redazione del blog prende spunto da questi due interessanti volumi di Maria Pia Premuda Marson per effettuare alcune collimazioni con l’originale interpretazione dell’autrice stessa riguardo alle spinte annessionistiche iugoslave riguardo a tutta la provincia di Udine, fino oltre il fiume Livenza, in territorio veneto sulle rive del Piave (La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda…, 2020, p. 15).

Titini a Gorizia coi consiglieri sovietici – È risaputo che l’occupazione di Gorizia dal 1° maggio 1945 da parte dei miliziani di Tito, assistiti da consiglieri sovietici, durò 40 giorni, durante i quali furono arrestati e deportati centinaia di italiani. La presenza sovietica rientra nella dicitura “formazioni poliziesche”, come l’Ozna, che affiancano l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia. Gli artificieri iugoslavi fanno persino saltare due ponti sull’Isonzo, rallentando così l’arrivo delle truppe alleate, per procedere meglio alla caccia degli italiani, facendo innalzare i cartelli “Gorica je naša” (Gorizia è nostra). Poi puntano sul Tagliamento ed oltre. Esiste un elenco di 651 civili e militari arrestati a Gorizia e deportati dai titini fra il 1° maggio e il 12 giugno 1945 che, pur necessitando di ovvi aggiornamenti, rappresenta il teatro delle eliminazioni al confine orientale. In ogni pattuglia titina aggirantesi per la città con tanto di elenco, durante la cattura, partecipa pure un partigiano garibaldino italiano, per individuare meglio i potenziali prigionieri (Associazione Congiunti dei Deportati in Jugoslavia, Gli scomparsi da Gorizia nel maggio 1945, a cura del Comune di Gorizia, 1980, pag. 16).

Pochi imprigionati dai titini sono ricomparsi malconci in seguito, mentre altri nomi sono stati aggiunti alla lista dei deportati e scomparsi tanto che, nel 2019, essi ammonterebbero a 665 casi. Secondo l’elenco delle displaced persons prodotto dagli Alleati nel 1947, gli scomparsi a Gorizia furono 1.100, di cui 759 civili e 341 militari. Gli impiegati vennero licenziati in blocco e riammessi al lavoro solo firmando una dichiarazione di aderire agli ideali del Partito comunista iugoslavo. Commercianti e contadini vennero costretti a consegnare i raccolti, i prodotti alimentari e le merci in cambio di vaghe parole compilate su foglietti volanti senza intestazione o timbri ufficiali degli occupanti slavi (Dino Messina, Italiani due volte. Dalle foibe all’esodo: una ferita aperta della storia italiana, Milano, Solferino RCS Mediagroup, 2019, pp. 133-135).

Riguardo alla presenza di consiglieri russi Antonio Zappador, esule istriano, ha riferito che a Verteneglio due militari ucraini, in veste di consiglieri sovietici, avendo riconosciuto in casa sua madre Olga Alexsandrovna Rackowsckij, della nobiltà ucraina, le si sono inginocchiati accanto baciandole la veste, in barba ai fondamenti leninisti (Antonio Zappador, Verteneglio 1939. Intervista di Elio Varutti del 23 febbraio 2020 a Fossoli di Carpi, MO).

Pochi autori spiegano che i titini, oltre ad occupare Fiume, Pola, Trieste e Gorizia, sono giunti sino a Monfalcone, Romans d’Isonzo, Cividale del Friuli, Aquileia e Cervignano del Friuli, nella Bassa friulana. Una jeep di artificieri iugoslavi fu vista da partigiani della Osoppo sulle rive del Tagliamento, vicino ad un ponte. Come ha scritto Mara Grazia Ziberna a Gorizia “il periodo dell’occupazione titina, dal 2 maggio al 12 giugno 1945, vide la costituzione nella Venezia Giulia dello Slovensko Primorje, cioè il Litorale Sloveno, che aveva come capoluogo Trieste e comprendeva anche il circondari di Gorizia, diviso in sedici distretti e composto anche dai comuni di Cividale del Friuli, Tarvisio e Tarcento [della provincia di Udine], considerati slavofoni” (Maria Grazia Ziberna, Storia della Venezia Giulia da Gorizia all’Istria dalle origini ai nostri giorni, Gorizia, Lega nazionale, 2013,  p. 83).

Si sa, infine, che diversi partigiani russi hanno combattuto contro i nazifascisti in Friuli dall’inizio del 1944. A Forni di Sopra (UD) c’era il battaglione Stalin, che operava in Carnia. Un altro battaglione di garibaldini sovietici agiva tra Veneto e Friuli, poi c’era il battaglione Kirov, attivo nel Pian del Cansiglio (BL, PN e TV). Infine c’era nientemeno che il figlio primogenito di Stalin nella Brigata partigiana Piave, operativa sulle colline di Vittorio Veneto (TV); egli si celava sotto il nominativo di Giorgio Vorazoscvilj “Monti” («Il Gazzettino» Cronaca di Treviso, 29 agosto 2015, citato dalla Premuda Marson, 2017). Con tutti questi reparti militari, pare plausibile che ci fossero pure certi agenti dei loro servizi segreti, in alleanza con quelli iugoslavi, come l’Ozna. Proprio Maria Pia Premuda Marson afferma che “Agenti speciali sovietici si erano inseriti nelle formazioni partigiane denominate ‘Brigate Garibaldine” (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 17).

Vittorio Silvio Premuda

La moralità della Resistenza – I temi riguardanti l’etica della Resistenza non sono oggetto di indagini solo di Gampaolo Pansa, che ha iniziato ad indagare sulle eliminazioni nel Triangolo rosso di Reggio Emilia con Il sangue dei vinti (2005), con La Grande bugia (2006) ed altro. Essi sono stati messi sul piatto della bilancia sin dal 1991 da Claudio Pavone, col suo Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Poi, per i ricercatori, è stato come un fiume in piena fino, appunto, al ruolo dell’Ozna negli eccidi dell’Italia del Nord. 

Uno dei mandanti dell’omicidio Premuda è uno iugoslavo. Che ci faceva uno iugoslavo in territorio veneto ad oltre 130 km dalla sua vantata area slovenofona se non fosse stato una spia dell’Ozna, il servizio segreto di Tito? È un’ipotesi del recensore, suffragata da vari riferimenti. Si sa, ad esempio, che da un rapporto segreto del Ministero dell’Interno italiano, del 1946, l’Ozna era “già riuscita ad infiltrare molti elementi nelle file dei cetnici [ex monarchici serbi], specie tra i profughi giuliani che si trovano a Roma nei campi profughi di Forte Aurelio e Cinecittà”. Si veda in merito: O.Z.N.A.: La mano segreta di Tito, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Della P.S. – Divisione S.I.S., Roma, 19 novembre 1946,  consulenza di Aldo Giannuli, Università di Milano; nel sito web storiaveneta.it

Tra la fine della guerra e nel dopoguerra l’Ozna è presente in Italia del Nord. I suoi agenti si mimetizzano nei gruppi partigiani comunisti o nelle grandi città; osservano e prendono nota. Il loro obiettivo si lega allo sciovinismo-nazionalista di Tito, allargare l’area territoriale fino a superare Isonzo, Tagliamento, Livenza e Piave, facendo pesare il ruolo militare dell’Esercito Popolare di Liberazione iugoslavo il più possibile quando sarà il momento di sedersi attorno ad un tavolo della pace, Alleati permettendo. A Fasana, presso Pola, c’è la sede delle operazioni speciali che l’Ozna prepara per l’Alta Italia e per Roma.

Conclusioni – I fatti dell’esodo giuliano dalmata, dell’uccisione nelle foibe e delle eliminazioni di partigiani italiani autonomi o azionisti da parte dei titini dovevano restare nascosti perché c’era la Cortina di ferro, da Danzica a Trieste. Come disse Winston Churchill, nel marzo 1946, a separare l’Europa in due sfere politiche, una sovietica e l’altra angloamericana c’è la Cortina di ferro. In piena Guerra fredda e con le spie di tutto il mondo che ronzavano tra Gorizia, Trieste, Tarvisio, Venezia e Treviso non si doveva scomodare Tito, capo della Federativa Repubblica di Jugoslavia, che si stava staccando politicamente da Mosca e da Stalin, mentre gli agenti dell’Ozna gironzolavano nel Nord Italia e a Roma con i loro loschi obiettivi. È appena il caso di ricordare che la strage di Vergarolla, presso Pola, mentre la zona è controllata da reparti britannici, avviene per mano dell’Ozna, secondo vari storici; l’orribile attentato è del 18 agosto 1946 provocando 64 morti, centinaia di feriti (tutti italiani), oltre alla fuga del 95% degli abitanti del capoluogo istriano verso Trieste, Venezia e Ancona.

La “Odeljenje za Zaštitu Naroda” (Ozna) è la sigla che significa: Dipartimento per la Sicurezza del Popolo. C’è una seconda versione che così spiega la sigla: “Oddelek za zaščito naroda”; letteralmente: Dipartimento per la protezione del popolo. Era parte dei servizi segreti militari iugoslavi e fu attiva dal 1944 fino al 1952. L’organizzazione titina, programmata da Tito e Milovan Gilas, era dotata di carceri proprie e attuava requisizioni, vessazioni ed addirittura ha programmato la pulizia etnica a Pola contro gli italiani. La pianificazione delle uccisioni di italiani in Istria, Fiume e Dalmazia per mano titina è stata documentata da Orietta Moscarda Oblak a pp. 57-58 di un suo saggio (“La presa del potere in Istria e in Jugoslavia. Il ruolo dell’OZNA”, «Quaderni del Centro Ricerche Storiche Rovigno», vol. XXIV, 2013, pp. 29-61.). Agenti dei servizi segreti di Tito negli anni ‘50 si infiltrano perfino nei Centri raccolta profughi (CRP) sparsi in Nord Italia per carpire notizie sui rifugiati e per altre operazioni di stampo terroristico nelle città. Dal 1946 al 1991 la polizia segreta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia diviene “Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti” o Udba; letteralmente: “Amministrazione Sicurezza Statale”. Processato e incarcerato da Tito, dal 1954 al 1966, come dissidente lo stesso Milovan Gilas, nel 1991, riguardo all’Istria del 1945-‘46, dichiarò al giornalista Alvaro Ranzoni, del settimanale italiano «Panorama»: “Gli italiani erano la maggioranza solo nei centri abitati e non nei villaggi. Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto”. Gravi dichiarazioni mai smentite quelle di Gilas, che fu segretario del Komunisticna Partija Iugoslavije (Partito comunista iugoslavo); egli ammise inoltre in un suo noto memoriale, a p. 12, che in Jugoslavia gli “arresti effettuati al di fuori della legge, come in tempo di guerra, continuavano a essere la pratica corrente” (Se la memoria non m’inganna… Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962, ediz. originale: Vlast, London, Naša Reč, 1983, traduz. ital.: Bologna, Il Mulino, 1987).

La Società di Studi Fiumani di Roma ha documentato nell’opera bilingue (italiano e croato) – Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni, pubblicata nel 2002 a cura di Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski e presentata a Roma e a Zagabria – come andarono le cose dopo l’avvento della nuova dittatura comunista iugoslava. Sono oltre 580 le persone uccise a Fiume dalla polizia segreta dell’Ozna a guerra finita, senza umana giustizia. L’Ozna operò fino al 1952, assieme all’Udba, che poi prese le redini dei servizi segreti titini. La gente continua a chiamare le spie di Tito: quelli dell’Ozna.

I libri qui recensiti

Maria Pia Premuda Marson, L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda tra le epurazioni finalizzate al tentativo di porre una parte del nostro stato sotto la sovranità della nascente confederazione jugoslava, Padova, Cleup, 2017.

Maria Pia Premuda Marson, La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda comandante della Brigata Fratelli d’Italia, campeggia nella lotta per la liberazione della seconda guerra mondiale nei ricordi della popolazione più anziana dei paesi tra Piave e Livenza, Padova, Cleup, 2020.

Recensione di Elio Varutti. Attività di ricerca e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Copertina: Perasto, Bocche di Cattaro 1942, ediz. Libreria italiana Cattaro, dal web. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia 29, I piano – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Un libro sui profughi istriani del Villaggio S. Marco di Fossoli di Carpi (MO)

Colma una certa lacuna il volume di Roberto Riccò sul Villaggio San Marco di Fossoli, attivo dal 1954 al 1970. È ben vero che c’era già un testo miscellaneo assemblato in occasione dei 60 anni della sua nascita per il Convegno nazionale di studi a cura del Comitato Provinciale di Modena dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD). Detto elaborato è stato edito nel 2016. Mancava, tuttavia, un lavoro che raccogliesse ampie testimonianze dei protagonisti di quel momento di vita, dopo la fuga dall’Istria, Fiume e Dalmazia, fino all’integrazione nella società locale con le grandi difficoltà incontrate, poiché la popolazione autoctona aveva una visione politica di stampo comunista, mentre gli esuli fuggivano proprio dalle prevaricazioni dei comunisti iugoslavi, che occupavano le case, requisivano loro le ditte, i campi, i patrimoni, il letto e le sedie a favore del popolo iugoslavo. Le nuove autorità insediatesi non tenevano conto che soprattutto sulla costa gli antenati degli italiani d’Istria erano prevalentemente di lingua e di cultura veneziana, bizantina e romana. Il Regno d’Italia è arrivato nel 1918 e il fascismo dopo il 1922, andando a segnare sui libri di storia la pesante esperienza del cosiddetto fascismo di confine, la bonifica linguistica degli alloglotti, la proclamazione delle Leggi razziali nel 1938 e l’invasione della Jugoslavia nel 1941, sotto le forze dell’Asse. Di conseguenza gli iugoslavi vedevano in ogni italiano un fascista su cui rifarsi ammazzandolo nella foiba, per vendetta o per programmata pulizia etnica ordita dall’Ozna, il servizio segreto delle milizie di Tito.

Tali aspetti sono presentati nella prima parte del libro, trasformandolo in un grande atto di divulgazione. Poi c’è la cronistoria dell’arrivo a Fossoli delle prime famiglie di profughi istriani e del loro contrastato inserimento sociale, fino all’assegnazione degli appartamenti definitivi in via Ponente a Carpi, durante gli anni ’70.

Andiamo per ordine. Ci sono 7 fasi di attività del Campo di Fossoli. Sorto nel 1942, quando il Regio esercito italiano piantò delle tende per accogliere i prigionieri di guerra militari inglesi, sudafricani e neozelandesi, era il P.G. 73, ossia Campo di Prigionia n. 73, dove passarono 5.000 prigionieri. Dal 5 dicembre 1943 viene trasformato in Campo di concentramento per ebrei della Repubblica Sociale Italiana (RSI). Sotto la scorta armata di militi italiani partono i primi convogli di ebrei per i campi di sterminio nazisti. Il 22 febbraio 1944, col secondo trasporto, viaggia nei carri bestiame anche Primo Levi, arrestato nel dicembre 1943 in Valle d’Aosta con un gruppo partigiano. In quel periodo la struttura consta di decine di baracche in mattoni, tutte smantellate in seguito, è il cosiddetto Campo vecchio. Il 15 marzo 1944 è trasformato dai nazisti in Campo di Polizia e di Transito. È il principale Campo di concentramento italiano, dato che il lager di San Sabba a Trieste era in una zona di operazioni del Terzo Reich, non facendo più parte dell’Italia. Da Fossoli partono 2.844 ebrei e 2.000 reclusi politici.

Il 2 agosto 1944, con l’avanzare del fronte bellico, il Campo è chiuso e trasferito a Bolzano-Gries, così Fossoli è un centro di raccolta destinata al lavoro coatto nei territori del Reich con la Organizzazione Todt. Dopo la fine del conflitto il Campo accoglie i fascisti e i collaborazionisti militari e civili. Dal mese di agosto 1945 al 1947 accoglie profughi ed ebrei reduci dai campi di concentramento nazisti. Dal 1947 al 1952 don Zeno Saltini accoglie oltre 1.000 bambini e ragazzi abbandonati e orfani. Nel 1954 vengono costruiti 16 edifici per accogliere i profughi d’Istria, Fiume e Dalmazia fino al 1970; essi fuggono dalle loro terre assegnate dal Trattato di pace alla Jugoslavia. Si trattava di 250 famiglie, per 1.500 persone.

L’Autore del libro ha potuto effettuare le sue ricerche presso l’Archivio storico comunale di Carpi e nell’Archivio storico diocesano della cittadina modenese, oltre che nell’Istituto storico della Resistenza di Modena. Oltre che dell’aiuto della Banca Popolare dell’Emilia Romagna, la pubblicazione gode della collaborazione dell’Università della Terza Età locale e dell’ANVGD di Modena.

Il volume qui recensito

Roberto Riccò, Quegli strani italiani del Villaggio San Marco di Fossoli, «Terra e identità», n. 89, Modena, 2019, pagg. 192, con fotografie b/n, euro 12.

info@terraeidentita.it

Recensione di Elio Varutti. Ricerche e Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Fotografie di Elio Varutti, Paolo De Luise e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Mi scampo e i titini me spara drio, Trieste 1950

Fugge da Verteneglio a 11 anni Antonio Zappador, esule oggi a Carpi (MO). “C’era una manifestazione titina, nel 1950, e a me capita di strappare un pezzo di una gigantografia di Tito – ha detto Zappador – allora elementi dell’Ozna comunicano a mio padre che mi avrebbero dovuto mettere all’Istituto di rieducazione di Maribor, un vero lager per bambini”. Cosa succede, invece?

“Succede che un medico compiacente fa un certificato da cui risulta – è la risposta – che io sarei dovuto andare a Trieste per farmi operare d’ernia, accompagnato dai miei genitori, che ottengono a Verteneglio il  relativo permesso per Trieste, dovendo però rientrare subito in Jugoslavia”. Ha funzionato tutto bene?

“No, perché il certificato non era firmato – ha spiegato Zappador – poiché il medico temeva ritorsioni e al momento di partire col pullman per Trieste, mio padre è agitato per la paura dei titini, così gli viene un infarto; lo lasciamo a terra, poi si riprenderà, mentre la corriera parte. Al confine si scende per i controlli doganali, ma quando la comitiva si muove verso la sbarra degli angloamericani, io resto a piedi”. Ma, quand’è che le sparano addosso?

Villaggio San Marco, Fossoli di Carpi (MO); da sinistra: Varutti, Lugli, Riccò e Zappador. Sullo sfondo comitiva dell’ANVGD di Udine in visita al Campo profughi. Fotografia di Paolo De Luise

“Quando dalla guardiola della dogana esce un miliziano agitando il foglio di ricovero – ha aggiunto il testimone – poiché si era accorto che non era valido, urlava in slavo, ma io non capivo. Uno sconosciuto che aveva compreso tutto mi spinge verso il valico dicendomi: ‘Scampa picio’. Allora io corro, mentre i titini mi sparano dietro, sentivo le pallottole che mi fischiavano accanto. Quando arrivo al confine del Territorio Libero di Trieste mi aspetta a braccia aperte un soldatone nero-americano”. Così si è salvato la pelle, vero signor Zappador?

“Avevo più paura del soldatone che delle pallottole titine – ha replicato – dato che non avevo mai visto una persona di colore, tuttavia corro fra le braccia del militare Usa che mi salva la vita. Ho avuto gli incubi per anni di quel fatto e ho sentito sempre i fischi di quelle pallottole nei sogni angosciosi. So che qualche mese dopo la mia fuga, un altro ragazzo  tentò la sortita, ma fu colpito da due proiettili”. Quindi cosa è accaduto?

Villaggio San Marco di Fossoli – La casa dei Zappador dal 1954 al 1970 circa. Foto di E. Varutti

“Passate le ore a Trieste, mia madre doveva rientrare in Jugoslavia – ha detto Zappador – non sapeva a chi affidarmi alla stazione delle corriere, per fortuna si aggirava lì don Teseo Furlani, che mi prende con sé, portandomi al Villaggio del Fanciullo di Villa Opicina, sopra Trieste. In quel Centro profughi imparai il mestiere di compositore tipografico, determinante per il resto della mia vita”. Così sono finite le sorprese?

“Veramente no, perché a Villa Opicina incontro mio fratello Giorgio – ha specificato – scappato dalla Jugo mesi prima e dato per mitragliato e  morto dall’Ozna. Ai miei genitori quelli dell’Ozna dissero che il suo cadavere era rimasto all’aperto, come esempio. Poi siamo arrivati al Villaggio San Marco di Fossoli, dove l’accoglienza fu molto critica, perché ci sputavano dove si camminava e ci dicevano ‘trestèin fassisti’. Mi ricordo che giravo con un motorino, negli anni ’60, e vicino al Villaggio mi aspettavano quattro energumeni per picchiarmi, un’altra volta mi sono azzuffato con uno di loro e poi però siamo diventati amici”.

La testimonianza di Antonio Zappador è contenuta anche in un recente volume pubblicato sotto gli auspici del Comitato Provinciale di Modena dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD). Ne è autore Roberto Riccò, un amico degli esuli istriani (Riccò, pagg. 169-171; vedi in Bibliografia).

Un’altra scena sconvolgente cui assiste Antonio Zappador a Verteneglio si riferisce agli sgherri dell’Ozna, il servizio segreto di Tito che, dal 1946, cambia nome. “Mi è capitato di vedere due agenti dell’Ozna – ha riferito Zappador – accoltellare a morte un compaesano, così in mezzo alla strada, come se niente fosse, poi mio padre ha fatto di tutto per tenermi nascosto dato che ero un testimone scomodo”. Lo scrive pure in un verso di una sua recente raccolta poetica: “Ho rivisto la casa della mia fanciullezza, / pietre senza anima, / profanata dagli uomini dei pugnali” (Zappador, pag. 83).

Cartolina di fine ‘900; foto dal web

La “Odeljenje za Zaštitu Naroda” (Ozna) è la sigla che significa: Dipartimento per la Sicurezza del Popolo. C’è una seconda versione che così spiega la sigla: “Oddelek za zaščito naroda”; letteralmente: Dipartimento per la protezione del popolo. Era parte dei servizi segreti militari iugoslavi. L’organizzazione titina era dotata di carceri proprie e attuava requisizioni, vessazioni ed addirittura ha programmato le eliminazioni di italiani dell’Istria. La pianificazione delle uccisioni, per pulizia etnica, è stata descritta da Orietta Moscarda Oblak nel 2013, a pp. 57-58 di un suo saggio. Agenti dei servizi segreti di Tito negli anni ‘50 si infiltravano perfino nei Centri raccolta profughi (CRP) sparsi in Italia per carpire notizie sui rifugiati e sull’Organizzazione di Gladio, sorta per contrastare un’eventuale invasione sovietica del Friuli Venezia Giulia.

Dal 1946 al 1991 la polizia segreta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia diviene “Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti” o Udba; letteralmente: “Amministrazione Sicurezza Statale”, ma la gente continua a chiamarla Ozna.

Ecco una testimonianza riguardo a un agente dell’Ozna (o Udba)  in missione a Gorizia e a Grado (GO) negli anni Sessanta. “Quel de l’Ozna che sequestrava la roba ai italiani de Fasana se ciamava Nino M., deto Nini – ha riferito la signora Armida Villio – e un bel giorno nei anni sesanta el capita veramente a Grado nela mia nuova famiglia, gavevo sposado proprio un dei fradei Chersin, scampadi in barca nel 1948 con due barche a motor e i ze finidi fin sul delta del Po. ‘Sto omo de l’Ozna el ne domanda soldi per andare a Gorizia e dopo per tornar a casa in Jugo, el se gà butado in zenocio e dopo el gà chiesto scusa per i sequestri fati, così la mia famiglia commossa ghe gà dà el capoto, vestiti e i soldi per andar a Gorizia e per tornar a Fasana”.

Cartolina dei primi anni ’50; immagine dal web

I servizi segreti jugoslavi organizzano vari attentati a Arnaldo Harzarich, il maresciallo dei pompieri di Pola, che per primo andò a esumare le salme di italiani uccisi nelle foibe dai titini dal 1943. Cosa accadde nell’attentato dell’Udba a Harzarich a Bressanone? “Un tizio uscì da un cespuglio vicino a casa – ha detto Sara Harzarich, nipote del maresciallo Harzarich – sparando con una pistola, ma lo zio Arnaldo si salvò perché si era girato verso casa, dato che la moglie Stefania lo aveva richiamato per un ultimo bacio. Ecco, fu quel bacio a salvargli la vita ancora una volta”.

Un esule da Pirano, Paolo De Luise ha riferito che suo padre pescatore “nel 1953 giunge a Trieste, in seguito anche il resto della famiglia riesce a venir via”. Nel 1954 i nonni sono inviati a Udine, dove funzionava il Centro smistamento profughi. “Andarono ad abitare in un altro Campo di Udine – ha spiegato De Luise – in certe grandi baracche di lamiera, calde d’estate e fredde d’inverno”. Poi i De Luise si spostarono al Villaggio San Marco di Fossoli pur di stare tutti assieme (RICCÒ, pag. 161).

“Mio nonno Antonio Vegliani, nato nel 1911 a Umago e la nonna Palmira Gambo, classe 1920 – ha detto Monica Lugli – hanno vissuto al Villaggio San Marco e nonno Antonio era alla Manifattura Tabacchi”. Pure loro, come i vari profughi del Villaggio negli anni ’50 hanno passato momenti di mala accoglienza, come gli sputi o l’epiteto di “triestèin fassisti”. In seguito i comportamenti si acquietarono e diversi profughi si sono integrati mediante matrimonio con gli autoctoni, di tradizionale tendenza politica comunista.

Villaggio San Marco di Fossoli, 23.2.2020 – Zappador fa da cicerone alla comitiva dell’ANVGD di Udine in visita al Campo, oltre all’intervento professionale e assai competente della guida turistica Francesca. Foto di E. Varutti

Fonti orali

Interviste a cura di Elio Varutti con penna, taccuino e macchina fotografica. Si ringraziano i seguenti signori per il racconto esclusivo della loro esperienza, nonostante provochi ancor oggi dolore e disorientamento.

  • Paolo De Luise, Pirano 1949, int. del 23 febbraio 2020 a Fossoli di Carpi (MO).
  • Sara Harzarich, Pola 1931, int. del 13 febbraio 2015 a Pagnacco (UD).
  • Monica Lugli, Carpi (MO), int. del 23 febbraio 2020 a Fossoli di Carpi (MO).
  • Armida Villio, Fasana (Pola) 1933, int. a Grado (GO) del 30 agosto 2018; si ringrazia, per la collaborazione riservata, la signora Alda Devescovi, nata a Rovigno ed esule a Grado.
  • Antonio Zappador, Verteneglio 1939, int. del 23 febbraio 2020 a Fossoli di Carpi (MO).

Riferimenti bibliografici

Orietta Moscarda Oblak, “La presa del potere in Istria e in Jugoslavia. Il ruolo dell’OZNA”, «Quaderni del Centro Ricerche Storiche Rovigno», vol. XXIV, 2013, pp. 29-61.

Giacomo Pacini, Le altre Gladio: la lotta segreta anticomunista in Italia 1943-1991, Torino, Einaudi, 2014.

Roberto Riccò, Quegli strani italiani del Villaggio San Marco di Fossoli, «Terra e identità», n. 89, Modena, 2019.

Paolo Venanzi, Conflitto di spie e terroristi a Fiume e nella Venezia Giulia, Milano, L’Esule, 1982.

Antonio Zappador, 29.200 giorni. Una vita piena di tutto… di più, Carpi (MO), stampato in proprio, 2019.

Sitologia

E. Varutti, Esodo istriano di Armida da Fasana con la paura, i sequestri e le bugie dei titini, on line dal 31 agosto 2018.

E. Varutti, Visita a Fossoli di Carpi, Campo di concentramento e Villaggio San Marco di esuli istriani, on line dal 25 febbraio 2020.

Servizio giornalistico di Elio Varutti. Ricerche e Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Copertina: Antonio Zappador fotografato al Villaggio San Marco di Fossoli da E. Varutti. Fotografie di Elio Varutti, Paolo De Luise e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.