Pochi studiosi hanno notato che a comandare certe formazioni partigiane nel Nord-Est dell’Italia siano stati degli slavi. Alcuni storici della Resistenza hanno fatto passare tale fatto rientrante nello spirito internazionalista proletario. È proprio vero? Oppure c’era qualche piano segreto iugoslavo nazionalista per impossessarsi di altre terre, oltre all’Istria, a Fiume e a Zara? È dal Trattato di pace di Rapallo (1920) e atti seguenti che tali zone facevano parte dell’Italia, in seguito alla Prima guerra mondiale e all’Irredentismo, che sin dall’Ottocento riscaldò gli animi sulla costa orientale del Mare Adriatico. Il fascismo finì per intorbidire le acque con l’italianizzazione forzata (già sbandierata ai tempi dell’Italia liberale, 1866), le leggi razziali (1938), l’invasione della Jugoslavia (1941) e con la creazione dei Campi di concentramento di Arbe e di Gonars (UD) per internati sloveni e croati. A rimetterci furono gli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, che pagarono con i loro beni economici i danni della Seconda guerra mondiale persa da tutta l’Italia fascista. Il punto massimo delle tensioni nelle terre perdute fu raggiunto con l’uccisione di italiani nelle foibe da parte dei miliziani di Tito (1943-1945) e con l’esodo giuliano dalmata (1943-1963) di 350mila profughi. Certi storici sostengono che furono solo 280-300mila gli italiani in fuga dalle grinfie di Tito e che l’esodo durò sino al 1956, mentre altri studiosi (Patrizio Zanella e Andrea Romoli) datano la conclusione del fenomeno agli anni ’60, se non intorno al Trattato di Osimo (1975) che sancì i confini definitivi tra Italia e Jugoslavia, in mezzo ad una vasta messe di polemiche.
Dopo la Caduta del Muro di Berlino (1989) e venendo meno lo scontro ideologico della Guerra fredda cominciò a vacillare la lettura storica generale offerta dopo il 1945. Claudio Pavone, col suo Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, nel 1991, mette sulla scena i temi riguardanti l’etica della Resistenza, con le fucilazioni attuate persino nel dopoguerra. Oggi ci sono alcuni storici e certi giornalisti d’indagine che intravvedono la longa manus dell’Ozna, il servizio segreto di Tito, nel piazzare il più possibile comandanti partigiani iugoslavi a capo delle bande partigiane in Friuli, Veneto e nella Venezia Giulia. È solo un mistero dell’Ozna?
La “Odeljenje za Zaštitu Naroda” (Ozna) è la sigla che significa: Dipartimento per la Sicurezza del Popolo. C’è una seconda versione che così spiega la sigla: “Oddelek za zaščito naroda”; letteralmente: Dipartimento per la protezione del popolo. Era parte dei servizi segreti militari iugoslavi e fu attiva dal 1944 fino al 1952. L’organizzazione titina, programmata da Tito e Milovan Gilas, era dotata di carceri proprie e attuava requisizioni, vessazioni ed addirittura ha programmato la pulizia etnica a Pola contro gli italiani. La pianificazione delle uccisioni di italiani in Istria, Fiume e Dalmazia per mano titina è stata documentata da Orietta Moscarda Oblak a pp. 57-58 di un suo saggio. Agenti dei servizi segreti di Tito negli anni ‘50 si infiltrano perfino nei Centri raccolta profughi (Crp) sparsi in Nord Italia e a Roma per carpire notizie sui rifugiati e per altre operazioni di stampo terroristico nelle città. Dal 1946 al 1991 la polizia segreta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia diviene “Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti” o Udba; letteralmente: “Amministrazione Sicurezza Statale”.
I Reparti per la difesa del popolo, ossia gli agenti dell’Ozna, agiscono autonomamente dal Fronte di Liberazione sloveno (Osvobodilna Fronta) e dai militari del IX Corpus dell’Esercito popolare di Liberazione iugoslavo (in sloveno, Novj=Narodnoosvobodilna vojska in partizanski odredi Jugoslavije). Tutti i membri dell’Ozna provengono dalle file del Partito Comunista Iugoslavo, come voluto da Tito e da Aleksandar Ranković, uno dei suoi più fidati collaboratori. L’organizzazione dell’Ozna è istruita da esperti sovietici, per trasformarla in un’efficiente strumento di repressione alle dipendenze di Belgrado. I suoi addetti giungono a Fiume, Gorizia, Pola e Trieste con le liste di proscrizione già preparate nei mesi precedenti su segnalazione di attivisti locali, includendo tutti coloro che potessero essere pericolosi per il nuovo potere: membri di unità armate, civili ritenuti fascisti o collaborazionisti e recalcitranti all’occupazione slava delle città italiane. Gli attivisti locali dell’Ozna sono suddivisi per comitati rionali; alcuni di essi sono stati appena trasferiti dall’interno iugoslavo. Sono tutte spie dell’Ozna, esperte in armi ed esplosivi. Agli arresti da parte titina seguono le eliminazioni nelle foibe, o l’internamento nei Campi di concentramento iugoslavi, come quello di Borovnica, presso Lubiana. Per esempio nel capoluogo giuliano è citato El Triestin Ceccalin antifascista comunista e spia dell’Ozna, secondo i messaggi in Facebook di S. Ser., di Parenzo del 24 ottobre 2020.
Secondo le ricerche di Nevenka Troha a Lubiana, dove peraltro non esistono archivi centrali dell’Ozna (qualcosa è rintracciabile altrove, o a Belgrado), tra il 4 e l’8 maggio 1945, nell’odierna provincia di Trieste vengono uccise, o gettate nelle foibe, o muoiono in prigionia 582 persone, delle quali il nucleo forte è dato da guardie di finanza, poliziotti, militi della RSI, membri della Milizia di difesa territoriale, o della Guardia Civica, come ha riferito, nel 1995, Joze Pirjevec, citato in bibliografia.
La guerra partigiana in Jugoslavia inizia alla fine di aprile 1941. La struttura di guerriglia si dota ben presto di un servizio segreto, il Vos. La sigla Vos si esplica così: Varnostno Obvasovalna Služba – Servizio informazioni della difesa. È proprio il Vos che organizza una rappresaglia partigiana contro i paesani di Circhina (provincia di Gorizia), accusati di fiancheggiare i nazisti. Il 3 febbraio 1944 agenti del Vos fucilano e gettano nella foiba 15 abitanti di Circhina, per vendicare 48 vittime partigiane dei nazisti. In sostanza i nazisti, il 27 gennaio 1944 a Circhina, sparando anche dal campanile, massacrano 48 partigiani su 109 corsisti ospitati in zona per frequentare un corso del partito comunista per futuri ufficiali dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo. C’è però un sopravvissuto, Giuseppe Baucon, che racconta tutto. Pur ferito duramente, egli riesce a risalire dalla piccola foiba, come dichiarò ai discendenti. Tra i fucilatori del Vos ci sono pure “alcuni commercianti comunisti invidiosi dei successi di Giuseppe Baucon nel commercio”, come sostengono i suoi familiari e discendenti (vedi: E. Varutti, Giuseppe Baucon, di Gradisca, salvatosi dalla fucilazione titina e dalla foiba a Circhina nel 1944).
Ritornando a Milovan Gilas si ricorda che, processato e incarcerato da Tito, dal 1954 al 1966, come dissidente lo stesso Gilas, nel 1991, riguardo all’Istria del 1945-‘46, dichiarò al giornalista Alvaro Ranzoni, del settimanale italiano «Panorama»: “Gli italiani erano la maggioranza solo nei centri abitati e non nei villaggi. Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto”. Gravi dichiarazioni mai smentite quelle di Gilas, che fu segretario del Komunisticna Partija Iugoslavije (Partito comunista iugoslavo). Egli ammise inoltre in un suo noto memoriale, a p. 12, che in Jugoslavia gli “arresti effettuati al di fuori della legge, come in tempo di guerra, continuavano a essere la pratica corrente” (vedi: M. Gilas, Se la memoria non m’inganna… Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962).
Comandanti slavi partigiani in Veneto
Il tenente colonnello Vittorio Silvio Premuda è comandante della Brigata “Fratelli d’Italia” di partigiani non comunisti attivi tra Piave e Livenza. Egli non è disposto a passare sotto il comando dei partigiani garibaldini (filo-titini), come espressamente gli fu richiesto, per tale motivo, il 19 agosto 1944, lo slavo Kubricevic Svetiovar, detto “Felice”, ne decreta la morte nella zona di Codognè (TV). Il massacro di Vittorio Premuda avviene ben sei mesi prima dell’eccidio di Porzus, in Comune di Attimis (UD). Quest’ultimo è il più noto eccidio di partigiani della Brigata Osoppo (di orientamento cattolico, monarchico e laico-socialista,) avvenuto per mano di partigiani comunisti. Pure qui che ci sia lo zampino dell’Ozna? Secondo la sentenza della Corte d’Assise di Treviso del 3 dicembre 1946 e dagli articoli de «Il Gazzettino» di quel periodo, Premuda fu attirato con una scusa in una trappola dal comandante comunista “Tigre”, poi venne arrestato e fucilato da partigiani garibaldini comunisti, guidati dallo slavo Kubricevic Svetiovar, detto “Felice” e dallo stesso capo partigiano italiano Attilio Da Ros, detto “Tigre”, comunista di Oderzo (TV).
Detto per inciso il comandante Kubricevic è un ufficiale della marina iugoslava (vedi: Maria Pia Premuda Marson, L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 58), allora viene modestamente da chiedersi: di quali barche slave si doveva preoccupare Kubricevic mentre operava sulle verdi colline di Vittorio Veneto? Ecco affacciarsi l’ombra dell’Ozna. È stata Maria Pia Premuda Marson a ribaltare l’interpretazione di certi storici novecenteschi che derubricavano la fucilazione di Vittorio Premuda, come un fatto d’invidia tra partigiani di opposte formazioni politiche, anzi l’autrice scrive delle spinte annessionistiche iugoslave riguardo a tutta la provincia di Udine, fino oltre il fiume Livenza, in territorio veneto sulle rive del Piave (vedi: La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda…, 2020, p. 15).
Si sa, infine, che diversi partigiani russi hanno combattuto contro i nazifascisti in Friuli dall’inizio del 1944. A Forni di Sopra (UD) c’era il battaglione Stalin, che operava in Carnia. Un altro battaglione di garibaldini sovietici agiva tra Veneto e Friuli, poi c’era il battaglione Kirov, attivo nel Pian del Cansiglio (BL, PN e TV). Infine c’era nientemeno che il figlio primogenito di Stalin nella Brigata partigiana Piave, operativa sulle colline di Vittorio Veneto (TV); egli si celava sotto il nominativo di Giorgio Vorazoscvilj “Monti” («Il Gazzettino» Cronaca di Treviso, 29 agosto 2015, citato dalla Premuda Marson, 2017). Con tutti questi reparti militari, non fa mistero che ci fossero pure certi agenti dei loro servizi segreti, in alleanza con quelli iugoslavi, come l’Ozna. Proprio Maria Pia Premuda Marson afferma che “Agenti speciali sovietici si erano inseriti nelle formazioni partigiane denominate ‘Brigate Garibaldine” (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 17).
Sul Cansiglio, a Vittorio Veneto e nel Bellunese operava anche Roberto Anelli Monti, col nome di battaglia di “Milos”, o Milo, in ricordo di un capo partigiano iugoslavo ucciso in uno scontro coi tedeschi, che gli muore tra le braccia. Nato a Udine nel 1922, Milos è al comando della Brigata d’assalto della Garibaldi, Divisione “Nino Nannetti” nel 1945.
Capi partigiani slavi nella Venezia Giulia
Pochi studiosi spiegano che i titini, oltre ad occupare Fiume, Pola, Trieste e Gorizia, sono giunti sino a Monfalcone, Romans d’Isonzo, Cividale del Friuli, Aquileia e Cervignano del Friuli, nella Bassa friulana. Una jeep di artificieri iugoslavi fu vista da partigiani della Osoppo sulle rive del Tagliamento, vicino ad un ponte. Come ha scritto, a p. 83, Maria Grazia Ziberna a Gorizia “il periodo dell’occupazione titina, dal 2 maggio al 12 giugno 1945, vide la costituzione nella Venezia Giulia dello Slovensko Primorje, cioè il Litorale Sloveno, che aveva come capoluogo Trieste e comprendeva anche il circondari di Gorizia, diviso in sedici distretti e composto anche dai comuni di Cividale del Friuli, Tarvisio e Tarcento [della provincia di Udine], considerati slavofoni”.
I Titini a Gorizia operano coi consiglieri sovietici. È risaputo che l’occupazione di Gorizia dal 1° maggio 1945 da parte dei miliziani di Tito, assistiti da tecnici sovietici, durò 40 giorni, durante i quali furono arrestati e deportati centinaia di italiani. La presenza sovietica rientra nella dicitura “formazioni poliziesche”, come l’Ozna, che affiancano l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia (vedi: Lidia Luzzatto Bressan, p. 16). Gli artificieri iugoslavi fanno persino saltare due ponti sull’Isonzo, rallentando così l’arrivo delle truppe alleate, per procedere meglio alla caccia degli italiani, facendo innalzare i cartelli “Gorica je naša” (Gorizia è nostra). Poi puntano sul Tagliamento ed oltre. Esiste un elenco di 651 civili e militari arrestati a Gorizia e deportati dai titini fra il 1° maggio e il 12 giugno 1945 che, pur necessitando di ovvi aggiornamenti, rappresenta il teatro delle eliminazioni al confine orientale. In ogni pattuglia titina aggirantesi per la città con tanto di elenco, durante la cattura, partecipa pure un partigiano garibaldino italiano, per individuare meglio i potenziali prigionieri.
A Trieste e a Muggia, secondo certi autori, elementi slavi dell’Ozna nel 1944 si fanno delatori nei confronti degli stessi compagni del Partito Comunista Italiano in seno al Cln, facendoli arrestare dai nazisti. i comunisti italiani erano considerati poco favorevoli alla linea annessionistica iugoslava, che intendeva prendere Trieste, Gorizia (nella Venezia Giulia), Udine, Pordenone (allora in Veneto), se non qualcosa in più. In particolare il muggesano Luigi Frausin, segretario federale del Pci, assieme ad altri esponenti (Kolarich, Facchin, Morgan e Spadaro) riprendono in mano il partito dopo l’8 settembre 1943, rientrando dal confino o dalle galere regie. Essi riconoscono la necessità di un accordo che assegni alla Jugoslavia il territorio abitato da slavi, ma non Trieste, né Gorizia, né la costiera istriana. Peggio, il Frausin non è per niente d’accordo con la delibera del cosiddetto governo provvisorio croato, che nel settembre 1943, a Pisino, prima dell’arrivo dei tedeschi, ha proclamato – sic et simpliciter – l’annessione dell’Istria alla Croazia e quindi alla Jugoslavia, decisione festosamente accolta e ufficialmente riconosciuta dal governo jugoslavo dei partigiani di Tito.
Come ha scritto Fulvio Farba, “ecco che il destino viene a dare una mano agli slavi, tra maggio ed ottobre del 1944 i tedeschi catturano ed eliminano prima un forte gruppo di resistenti muggesani, sostenitori di Frausin, poi fucilano Kolarich ed infine vengono arrestati e deportati Luigi Frausin ed il nipote Ezio, che moriranno nei lager. Poco dopo toccherà a Vincenzo Gigante, Martino Solieri ed altri. A questo punto si impone una domanda, che a quanto pare i comunisti italiani non si sono posti, o non hanno voluto porsi: poiché Natale Kolarich cade in una imboscata ad opera di un traditore e poiché, come dice la motivazione della Medaglia d’Oro al V. M. concessa a Frausin, questi fu catturato a seguito di delazione slava, non si potrebbe ritenere che le persone maggiormente contrarie ai piani jugoslavi, non altrimenti eliminabili in quanto antifascisti convinti dal limpido passato, fossero state volutamente consegnate ai tedeschi? E, naturalmente, da chi poteva trarre maggiori vantaggi dalla loro scomparsa. Le conseguenze di questi avvenimenti si vedono subito: a capo del Partito Comunista Italiano della Venezia Giulia si installano elementi slavi (Rudi Ursich, Frane Stoka, Destradi, Giustincich, Francovich e Karis); alcuni mesi dopo, il rappresentante comunista che ha sostituito Frausin in seno al Cln, Giustincich, abbandonerà il Comitato, reo di non aver voluto sottostare alle imposizioni slave e cesserà ogni collaborazione. Così aumenterà l’antagonismo fra l’ente rappresentativo della resistenza italiana e l’omologo jugoslavo. Inizia cosi allora la svolta comunista pro-Jugoslavia, che suscitò, bisogna dirlo, proteste e risentimenti fra gli aderenti al partito, ma non servirono a nulla. Il Partito comunista italiano era diventato di fatto partito comunista jugoslavo, e tornerà a chiamarsi Pci dopo varie metamorfosi solamente nel 1957. La propaganda pro-Jugoslavia venne intensificata, e si passò a sostenere apertamente la pura e semplice annessione alla Jugoslavia”.
Sin dal 17 luglio 1944 il Comando Generale delle Brigate Garibaldi, attivo in Friuli e nella Venezia Giulia stipula un accordo col comando del IX Corpus del Novj per il quale i partigiani italiani comunisti passano alle dirette dipendenze degli slavi. Gli Osovani non accettano, provocando forti tensioni che sfociano nell’eccidio di Porzus e in vari morti per strani incidenti. Nella notte del 24 e 25 dicembre 1944 i Garibaldini guadano l’Isonzo e vanno a mettersi sotto il comando degli slavi, come ha scritto Giorgio Rochat.
Tale passaggio non è indolore, perché i partigiani italiani in territorio slovenofono sono maltrattati, messi alla fame, costretti a marce forzate e, pur male armati, devono andare alla battaglia di Voschia contro i nazisti. Voschia / Voisko, Comune di Idria (ex-provincia di Gorizia, poi Jugoslavia, oggi Slovenia). Le assurde vicissitudini patite sono descritte nel diario di Renato Rozio, classe 1924, contestato dai dirigenti comunisti. Studente e già partigiano a Mondovì (CN), rientra a casa a causa dei rastrellamenti. Si arruola militare ad Alessandria, al Comando tedesco, per non gravare sulla famiglia, viste le minacce naziste ai familiari dei renitenti alla leva (il bando relativo, del 2 aprile 1944, scrive di presa in “ostaggio dei genitori dei renitenti e all’incendio delle loro case”). Trasferito a Trieste e Fiume, viene addestrato ad Abbazia, in una caserma tedesca. Poi è destinato nella Valle dell’Isonzo (GO, poi Slovenia). Diserta a Bodres di Canale d’Isonzo (GO, poi Slovenia) e si arruola nei partigiani rossi della Divisione Garibaldi-Natisone a Breg di Medana (oggi in Slovenia), presso Dolegna del Collio (GO). Come accennato, tutta la Divisone partigiana nel 1944 si trasferisce da Albana, Comune di Prepotto (UD) verso Tolmino, Circhina (ex-provincia di Gorizia, poi Jugoslavia e Slovenia), Blegos Likar (presso Škofia Loka), Logatec e Lubiana (ex Jugoslavia, poi Slovenia). È ferito il 23 marzo 1945 nella battaglia di Voschia. Patisce fame, freddo e prepotenze demenziali del suo comandante, che vorrebbe fucilarlo, perché lo sorprende a dormire dopo del suo turno di guardia, in seguito a massacranti trasferimenti senza cibo. Poi, rientrato in Italia, vede che si sistemano solo i politicanti. Ecco alcune pagine del suo Diario. “Ti sparo, erano gli ingredienti coesivi del reparto [partigiano]”. È il comandante Lampo a sferzare così i suoi sottoposti italiani, in movimento in territorio slavofono (p. 48 del Diario di Rozio). “Li scortava Mirko, il partigiano slavo promosso caposquadra, noto per la fucilazione sul posto di una guardia addormentata” (p. 79 e p. 104).
Tra i partigiani italiani si infila un personaggio ambiguo. È il mongolo, un ufficiale medico russo caucasico appartenente prima alle file nemiche; è gentile con tutti, forse è un agente in missione segreta, in contatto con l’Ozna. “Dice di avere combattuto coi dissidenti polacchi” (p. 48). Il mongolo è poi passato coi partigiani. Era ottobre 1944. Al rancio di un giorno alle ore 12, il partigiano Siro si sente male: vomito e bava schiumosa. “Sparategli, non fatelo soffrire oltre! – urlò ad un tratto qualcuno impressionato e commosso, ma troppo compreso dei sistemi eccessivamente sbrigativi cui l’avevano abituato da tempo le dure necessità della guerriglia” (p. 50). Forse epilessia? Allo stesso tempo stanno male altri partigiani, per un probabile avvelenamento. Il giorno dopo è inscenato un processo popolare: “assemblea” (p. 53) contro il mongolo. La sentenza è: “Sparategli subito!” (p. 54). Infatti gli scaricheranno il mitra alle spalle e lo seppelliranno mezzo nudo (p. 55). Si muore di fame, di sonno, di fatica… i tedeschi possono apparire da un momento all’altro” (p. 65). Poi fucilano 2 dei nostri, per tentata diserzione (p. 65); uno di questi grida: “Mamute, mamute” (mammina, mammina, in friulano) e lancia il portafogli verso un gruppo di partigiani, tra i quali c’è Gino. I corpi vengono seppelliti nelle fosse preparate. Così era la vita quotidiana del partigiano garibaldino in Slovenia, alla faccia dell’internazionalismo proletario.
Il più grave attentato dell’Ozna contro gli italiani a guerra finita è la strage di Vergarolla, presso Pola, del 18 agosto 1946. Ci furono 116 vittime e oltre 200 feriti. Del resto, attentati dinamitardi titini si verificano, nel 1946, anche a Monfalcone e Trieste, come hanno documentato Paolo Radivo, nel 2016, oltre al «Messaggero Veneto» del 1946. Un altro attentato dell’Ozna si svolge a Gorizia, presso il Parco della Rimembranza il 9 agosto 1946. Si teneva una pacifica cerimonia italiana per il XXX anniversario delle Battaglie dell’Isonzo e del tricolore italiano esposto su Gorizia redenta nel 1916. Esagitati sloveni giunti da lontano dapprima tentano di contestare e di agitare la folla, ma vengono messi a tacere. Gli stessi provocatori slavi allora lanciano delle bombe a mano sulla gente assiepata, provocando vari feriti, tra i quali Sergio Zuccolo e, per puro caso, nessun morto, come ha scritto Primo Cresta, nel 1969.
Durante la Resistenza, nei centri urbani, agiscono i gappisti, che sono membri dei Gruppi di Azione Patriottica, appartenenti al Partito Comunista d’Italia. Vari gappisti al termine della guerra fuggono nella Jugoslavia di Tito molto bene accolti. Come mai? Perché sono legati all’Ozna. Nel 1946 anche Mario Toffanin “Giacca”, lo stragista di Porzùs, scappa a Capodistria, evitando il carcere successivo alla condanna comminatagli nel 1951 al processo della Corte d’Assise di Lucca. Pure certi Diavoli Rossi (gappisti della Bassa friulana collegati ai titini) fuggono in Jugoslavia, primo fra tutti il loro caporione Gelindo Citossi, poi pure Norberto Sguazzin e un certo “Tom”, di Mortegliano; “emigrano in Jugoslavia”, come ha scritto Francesca Artico. Alcuni di tali partigiani fuggiti in Istria, come “Giacca”, Mario Abram (partigiano rosso triestino), Nerino Gobbo (noto infoibatore) e Giuseppe Krevatin se la prendono coi preti italiani, minacciandoli e picchiandoli a sangue, come ha riportato il «Giornale di Trieste» del 23 novembre 1951. Poi quando i titini nel 1948 vogliono fare piazza pulita dei cominformisti, dei comunisti storici e degli stalinisti, certi partigiani italiani scappati nel “paradiso di Tito” svicolano in Cecoslovacchia, perché neanche Tito li vuole più tra i piedi. Quelli che riesce a beccare li deporta all’Isola Calva (Goli Otok) dove patiscono e muoiono di stenti, come in ogni campo di concentramento. Alcuni dei fuggitivi in Cecoslovacchia, forse per la coscienza sporca, cambiano addirittura nome, imbrogliando sui documenti.
È una scena sconvolgente quella cui assiste Antonio Zappador a Verteneglio, in Istria nel dopoguerra. “Mi è capitato di vedere tre agenti dell’Ozna – ha riferito Zappador – accoltellare a morte un compaesano, così in mezzo alla strada, come se niente fosse, poi mio padre ha fatto di tutto per tenermi nascosto dato che ero un testimone scomodo, hanno squartato quell’uomo come con i maiali al macello”. Quel tremendo ricordo vissuto verso il 1950 è contenuto pure in un verso di una recente raccolta poetica del testimone: “Ho rivisto la casa della mia fanciullezza, / pietre senza anima, / profanata dagli uomini dei pugnali” (Zappador, pag. 83).
Il colmo della situazione iugoslava è che ad un certo punto restano traumatizzati gli stessi infoibatori o eliminatori, come emerge da un’intervista. A Rovigno “si diceva che per ogni uccisione ci fosse il parere positivo dell’Ozna, il servizio segreto iugoslavo – ha detto Riccardo Simoni – so che alcuni ragazzi arruolati nell’Ozna sono rimasti poi colpiti per tutta la vita di ciò che è successo”.
Capitani partigiani slavi in Friuli
Nella Bassa friulana il 3 aprile 1945 è arrestato dai Repubblichini lo sloveno Angelo Cernig, Vinco, di 31 anni, della Brigata “Garibaldi Natisone”. Torturato per giorni dalla Banda Ruggiero nella caserma Piave di Palmanova (UD), viene impiccato il 7 aprile sui bastioni della città (Corte d’Assise di Udine, 1946).
Pure nelle zone montane del Friuli ci sono stati dei capi partigiani slavi violenti e crudeli con tutti, compresi i loro sottoposti, come ha documentato Giulio Del Bon nel 2018. Un certo comandante Mirko è menzionato alle pagine 24, 34, 46, 111 e 254 del suo volume. Verso la metà di marzo 1944 in Carnia nasce il primo nucleo di partigiani paracomunisti, il Btg “Friuli” della Garibaldi, di cui Mirko è il comandante e Italo Mestre, Diego, il commissario. Mirko Arko, nato in Slovenia nel 1921, è un ex ufficiale iugoslavo, fuggito sembra da un Campo di prigionia. Si era stabilito fra le borgate del Comune di Lauco, mentre avrebbe potuto tornarsene a casa. Il loro Comando era a Esemon di Sopra e poi a Pani di Raveo. “Mirko era un buon combattente, tuttavia era spietato e feroce non solo nella lotta e con la gente, ma anche nei confronti di noi combattenti”, in base alla testimonianza del garibaldino Giancarlo Fraceschinis, Checo, citata da Del Bon.
Mirko si macchia di un lungo elenco di violenze e di uccisioni, per le stesse fonti della Garibaldi. Lo slavo adotta “metodi violenti ed estremisti, contrari alla mentalità dei nostri resistenti italiani”. Mirko è definito “il re degli episodi violenti estranei ai veri e propri combattenti, lo spietato giudice delle spie, l’implacabile requisitore di beni ai fascisti o non fascisti” come ha testimoniato Osvaldo Fabian, citato ancora da Del Bon.
Dopo l’occupazione della Carnia da parte Cosacca e nazifascista, nell’autunno 1944, Mirko si ritira sui monti di Pani, a Raveo, assieme alla compagna Gisella Bonanni, Katia, da Raveo, forse incinta; per sopravvivere saccheggiarono viveri e armi in un magazzino garibaldino, perciò e per gli altri gravi motivi già menzionati gli stessi comandi della Garibaldi decisero la loro eliminazione, come ha scritto P.A. Carnier, alle pp. 253, 254 di un suo libro.
Negli scontri di Paluzza, avvenuti nei giorni 8-9 luglio 1944 tra partigiani della Garibaldi e 48 Waffen SS Karstjäger della I Kompanie partiti dalla caserma di Udine al comando del maresciallo Bauernschmid resta ferito un russo, ex soldato sovietico catturato e passato nelle file tedesche, di nome Lininowitch, poi morto in ospedale. Che fosse un’altra spia doppiogiochista? Nello scontro c’erano anche genieri della Wehrmacht per liberare la strada per Passo Monte Croce Carnico ostruita da massi (Del Bon, p. 104).
Come ha scritto Luigi Raimondi Cominesi: “Talvolta i prelievi [di generi alimentari ed altro] erano fatti arbitrariamente da personaggi che non erano partigiani ma che si spacciavano per tali. I ladri, se scoperti dai partigiani veri, venivano eliminati”. Nell’Archivio ANPI di Udine esistono dei buoni di prelievo originali, in bianco o usati. I buoni rilasciati dai partigiani vennero pagati dopo la guerra (p. 91). Ciò che colpisce, tuttavia, è la naturalezza con cui si scrive della “eliminazione” dei presunti ladri.
Ci sono infine comandanti partigiani della Divisione “Garibaldi-Natisone” assassinati dai loro stessi compagni. È successo il 30 aprile 1945 a Leo Scagliarini con un colpo alla nuca a Rizzolo di Reana del Rojale (UD). Pur essendo un democratico libertario, egli si aggrega nel 1944 alla brigata “Picelli”, col nome di battaglia “Ricciotti”, perché erano le unità più robuste per combattere i nazifascisti, ma con la metà di gennaio 1945 finiscono sotto il comando del IX Korpus titino. La spiegazione fornita dai partigiani invece narra di una morte per il fuoco amico di un aereo da caccia inglese che mitraglia una colonna di partigiani e l’autovettura con dentro “Ricciotti” il 29 aprile. Pare che l’assassino sia stato lo stesso “Giacca”, molto ostile a “Ricciotti”, che intendeva liberare Udine il 1° maggio con le bandiere tricolori e non con quelle rosse dei comunisti. Su tale eliminazione non è mai stata aperta un’indagine giudiziaria, come ha scritto Pansa (pp. 291-315).
Conclusioni – I valori umani si vedono dai comportamenti, senza che siano sbandierati. Forse sono l’elemento più importante della vita. L’individuo vive col valore dell’umanità, oppure dimentica l’umanità, compiendo gli atti del male. Come diceva Max Weber i valori vengono facilmente falsati in dichiarazioni programmatiche, scivolando banalmente nella retorica o nella predica. La disumanità dell’Ozna è così nota, che viene menzionata persino dai romanzieri, come Stefania Conte, nel suo La stanza di Piera, opera del 2020, ambientato in Istria nella Seconda guerra mondiale, compreso il dramma delle foibe.
Fonti orali – Riccardo Simoni, Rovigno 1940, trapiantato a San Casciano Val di Pesa (FI), int. telefonica di E. Varutti del 23-25 febbraio 2020. Antonio Zappador, Verteneglio 1939, int. di E. Varutti, del 23 febbraio 2020, a Fossoli di Carpi (MO).
Collezioni private: Coll. Gemma Valente, Bastajànawa, vedova Barbarino, Resia, titovka. Coll. privata Udine, elmetto, gavette, borraccia e tascapane militari.
Bibliografia, sitologia e ringraziamenti
Sono riconoscente all’architetto Franco Pischiutti, dell’ANVGD di Udine, per i consigli bibliografici ricevuti. Grazie a Maria Iole Furlan per i disegni messi a disposizione.
Francesca Artico, “Morto ‘Ferro’, partigiano dei Diavoli Rossi”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Cervignano Latisana Bassa, 19 aprile 2020, p. 37.
Corte d’Assise di Udine, sentenza n. 120 del 5 ottobre 1946, presidente G. Rota; estratto pubblicato sul «Messaggero Veneto».
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Giulio Del Bon, 1943-1945 Vicende di guerra. La Carnia durante l’occupazione nazista, Paluzza (UD), Associazione culturale “Elio cav. Cortolezzis”, 2018.
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Fulvio Farba, “Scelta comunista nella Venezia Giulia. La via jugoslava al socialismo”, «Arena di Pola», n. 2.376, 9 febbraio 1985, p. 6.
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Lidia Luzzatto Bressan, Gli scomparsi da Gorizia nel maggio 1945, a cura del Comune di Gorizia, Associazione Congiunti dei Deportati in Jugoslavia, 1980, pag. 16
Orietta Moscarda Oblak, “La presa del potere in Istria e in Jugoslavia. Il ruolo dell’OZNA”, «Quaderni del Centro Ricerche Storiche Rovigno», vol. XXIV, 2013, pp. 29-61.
Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria. Chi imprigiona la verità sulla guerra civile, Sperling & Kupfer, 2007.
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Maria Pia Premuda Marson, L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda tra le epurazioni finalizzate al tentativo di porre una parte del nostro stato sotto la sovranità della nascente confederazione jugoslava, Padova, Cleup, 2017.
Maria Pia Premuda Marson, La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda comandante della Brigata Fratelli d’Italia, campeggia nella lotta per la liberazione della seconda guerra mondiale nei ricordi della popolazione più anziana dei paesi tra Piave e Livenza, Padova, Cleup, 2020.
Paolo Radivo, La strage di Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive, Libero Comune di Pola in esilio, «L’Arena di Pola», 2016.
Luigi Raimondi Cominesi, Poesie di lotta e di speranza. Frammenti dal 1944 al 2009, a cura di Pietro Angelillo, Pordenone, Istituto Provinciale per la Storia del Movimento di Liberazione e dell’Età Contemporanea, 2010.
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Giorgio Rochat, Atti del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà, Milano, Angeli, 1972.
Renato Rozio, La paga del guerriero. Le vicissitudini di un partigiano della Divisone Garibaldi-Natisone sul Collio e in territorio sloveno (1944-1945), Udine, Del Bianco, 1997.
E. Varutti, Giuseppe Baucon, di Gradisca, salvatosi dalla fucilazione titina e dalla foiba a Circhina nel 1944, on line dal 20 settembre 2018 su blog-di-elio-varutti.webnode.it
Elio Varutti, L’Ozna di Tito in Nord Italia tra guerra e dopoguerra, on line dal 9 giugno 2020 su eliovarutti.wordpress.com
E. Varutti, L’ombra dell’Ozna in omicidi partigiani in Veneto. Il caso Vittorio Silvio Premuda, 1944, on line dal 10 agosto 2020 su eliovarutti.wordpress.com
Antonio Zappador, 29.200 giorni. Una vita piena di tutto… di più, Carpi (MO), stampato in proprio, 2019.
Maria Grazia Ziberna, Storia della Venezia Giulia da Gorizia all’Istria dalle origini ai nostri giorni, Gorizia, Lega nazionale, 2013.
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Testi e Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e Elio Varutti. Lettore: Enrico Modotti. Disegni di Maria Iole Furlan. Copertina: Maria Iole Furlan, Elementi dell’Ozna accoltellano un italiano a Verteneglio nel 1950, matita su carta, cm 16×22, 2021, courtesy dell’artista. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia, 29 – I piano, c/o ACLI – 33100 Udine – orario: da lunedì a venerdì ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.