Capi partigiani slavi in Friuli, Veneto e nella Venezia Giulia. Misteri Ozna

Pochi studiosi hanno notato che a comandare certe formazioni partigiane nel Nord-Est dell’Italia siano stati degli slavi. Alcuni storici della Resistenza hanno fatto passare tale fatto rientrante nello spirito internazionalista proletario. È proprio vero? Oppure c’era qualche piano segreto iugoslavo nazionalista per impossessarsi di altre terre, oltre all’Istria, a Fiume e a Zara? È dal Trattato di pace di Rapallo (1920) e atti seguenti che tali zone facevano parte dell’Italia, in seguito alla Prima guerra mondiale e all’Irredentismo, che sin dall’Ottocento riscaldò gli animi sulla costa orientale del Mare Adriatico. Il fascismo finì per intorbidire le acque con l’italianizzazione forzata (già sbandierata ai tempi dell’Italia liberale, 1866), le leggi razziali (1938), l’invasione della Jugoslavia (1941) e con la creazione dei Campi di concentramento di Arbe e di Gonars (UD) per internati sloveni e croati. A rimetterci furono gli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, che pagarono con i loro beni economici i danni della Seconda guerra mondiale persa da tutta l’Italia fascista. Il punto massimo delle tensioni nelle terre perdute fu raggiunto con l’uccisione di italiani nelle foibe da parte dei miliziani di Tito (1943-1945) e con l’esodo giuliano dalmata (1943-1963) di 350mila profughi. Certi storici sostengono che furono solo 280-300mila gli italiani in fuga dalle grinfie di Tito e che l’esodo durò sino al 1956, mentre altri studiosi (Patrizio Zanella e Andrea Romoli) datano la conclusione del fenomeno agli anni ’60, se non intorno al Trattato di Osimo (1975) che sancì i confini definitivi tra Italia e Jugoslavia, in mezzo ad una vasta messe di polemiche.

Dopo la Caduta del Muro di Berlino (1989) e venendo meno lo scontro ideologico della Guerra fredda cominciò a vacillare la lettura storica generale offerta dopo il 1945. Claudio Pavone, col suo Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, nel 1991, mette sulla scena i temi riguardanti l’etica della Resistenza, con le fucilazioni attuate persino nel dopoguerra. Oggi ci sono alcuni storici e certi giornalisti d’indagine che intravvedono la longa manus dell’Ozna, il servizio segreto di Tito, nel piazzare il più possibile comandanti partigiani iugoslavi a capo delle bande partigiane in Friuli, Veneto e nella Venezia Giulia. È solo un mistero dell’Ozna?

La “Odeljenje za Zaštitu Naroda” (Ozna) è la sigla che significa: Dipartimento per la Sicurezza del Popolo. C’è una seconda versione che così spiega la sigla: “Oddelek za zaščito naroda”; letteralmente: Dipartimento per la protezione del popolo. Era parte dei servizi segreti militari iugoslavi e fu attiva dal 1944 fino al 1952. L’organizzazione titina, programmata da Tito e Milovan Gilas, era dotata di carceri proprie e attuava requisizioni, vessazioni ed addirittura ha programmato la pulizia etnica a Pola contro gli italiani. La pianificazione delle uccisioni di italiani in Istria, Fiume e Dalmazia per mano titina è stata documentata da Orietta Moscarda Oblak a pp. 57-58 di un suo saggio. Agenti dei servizi segreti di Tito negli anni ‘50 si infiltrano perfino nei Centri raccolta profughi (Crp) sparsi in Nord Italia e a Roma per carpire notizie sui rifugiati e per altre operazioni di stampo terroristico nelle città. Dal 1946 al 1991 la polizia segreta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia diviene “Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti” o Udba; letteralmente: “Amministrazione Sicurezza Statale”.

I Reparti per la difesa del popolo, ossia gli agenti dell’Ozna, agiscono autonomamente dal Fronte di Liberazione sloveno (Osvobodilna Fronta) e dai militari del IX Corpus dell’Esercito popolare di Liberazione iugoslavo (in sloveno, Novj=Narodnoosvobodilna vojska in partizanski odredi Jugoslavije). Tutti i membri dell’Ozna provengono dalle file del Partito Comunista Iugoslavo, come voluto da Tito e da Aleksandar Ranković, uno dei suoi più fidati collaboratori. L’organizzazione dell’Ozna è istruita da esperti sovietici, per trasformarla in un’efficiente strumento di repressione alle dipendenze di Belgrado. I suoi addetti giungono a Fiume, Gorizia, Pola e Trieste con le liste di proscrizione già preparate nei mesi precedenti su segnalazione di attivisti locali, includendo tutti coloro che potessero essere pericolosi per il nuovo potere: membri di unità armate, civili ritenuti fascisti o collaborazionisti e recalcitranti all’occupazione slava delle città italiane. Gli attivisti locali dell’Ozna sono suddivisi per comitati rionali; alcuni di essi sono stati appena trasferiti dall’interno iugoslavo. Sono tutte spie dell’Ozna, esperte in armi ed esplosivi. Agli arresti da parte titina seguono le eliminazioni nelle foibe, o l’internamento nei Campi di concentramento iugoslavi, come quello di Borovnica, presso Lubiana. Per esempio nel capoluogo giuliano è citato El Triestin Ceccalin antifascista comunista e spia dell’Ozna, secondo i messaggi in Facebook di S. Ser., di Parenzo del 24 ottobre 2020.

Secondo le ricerche di Nevenka Troha a Lubiana, dove peraltro non esistono archivi centrali dell’Ozna (qualcosa è rintracciabile altrove, o a Belgrado), tra il 4 e l’8 maggio 1945, nell’odierna provincia di Trieste vengono uccise, o gettate nelle foibe, o muoiono in prigionia 582 persone, delle quali il nucleo forte è dato da guardie di finanza, poliziotti, militi della RSI, membri della Milizia di difesa territoriale, o della Guardia Civica, come ha riferito, nel 1995, Joze Pirjevec, citato in bibliografia.

La guerra partigiana in Jugoslavia inizia alla fine di aprile 1941. La struttura di guerriglia si dota ben presto di un servizio segreto, il Vos. La sigla Vos si esplica così: Varnostno Obvasovalna Služba – Servizio informazioni della difesa. È proprio il Vos che organizza una rappresaglia partigiana contro i paesani di Circhina (provincia di Gorizia), accusati di fiancheggiare i nazisti. Il 3 febbraio 1944 agenti del Vos fucilano e gettano nella foiba 15 abitanti di Circhina, per vendicare 48 vittime partigiane dei nazisti. In sostanza i nazisti, il 27 gennaio 1944 a Circhina, sparando anche dal campanile, massacrano 48 partigiani su 109 corsisti ospitati in zona per frequentare un corso del partito comunista per futuri ufficiali dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo. C’è però un sopravvissuto, Giuseppe Baucon, che racconta tutto. Pur ferito duramente, egli riesce a risalire dalla piccola foiba, come dichiarò ai discendenti. Tra i fucilatori del Vos ci sono pure “alcuni commercianti comunisti invidiosi dei successi di Giuseppe Baucon nel commercio”, come sostengono i suoi familiari e discendenti (vedi: E. Varutti, Giuseppe Baucon, di Gradisca, salvatosi dalla fucilazione titina  e dalla foiba a Circhina nel 1944).

Maria Iole Furlan, Nazisti fucilatori a Cividale 1944, fotocopia colorata da un’immagine diffusa nel web, cm 20,5×29, 2021. Fonte e didascalia dell’Archivio ANPI: I comandanti del plotone corazzato del Karstjäger di stanza a Cividale del Friuli, SS Oberscharführer Cavagna, tedesco nonostante il nome; gli SS Unterscharführer Dufke e Walter, posano davanti a un carro armato P40 nella caserma “Principe di Piemonte”. Fonte dell’immagine: http://beutepanzer.ru/Beutepanzer/italy/tanks/P40/p40-1.htm

Ritornando a Milovan Gilas si ricorda che, processato e incarcerato da Tito, dal 1954 al 1966, come dissidente lo stesso Gilas, nel 1991, riguardo all’Istria del 1945-‘46, dichiarò al giornalista Alvaro Ranzoni, del settimanale italiano «Panorama»: “Gli italiani erano la maggioranza solo nei centri abitati e non nei villaggi. Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto”. Gravi dichiarazioni mai smentite quelle di Gilas, che fu segretario del Komunisticna Partija Iugoslavije (Partito comunista iugoslavo). Egli ammise inoltre in un suo noto memoriale, a p. 12, che in Jugoslavia gli “arresti effettuati al di fuori della legge, come in tempo di guerra, continuavano a essere la pratica corrente” (vedi: M. Gilas, Se la memoria non m’inganna… Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962).

Comandanti slavi partigiani in Veneto

Il tenente colonnello Vittorio Silvio Premuda è comandante della Brigata “Fratelli d’Italia” di partigiani non comunisti attivi tra Piave e Livenza. Egli non è disposto a passare sotto il comando dei partigiani garibaldini (filo-titini), come espressamente gli fu richiesto, per tale motivo, il 19 agosto 1944, lo slavo Kubricevic Svetiovar, detto “Felice”, ne decreta la morte nella zona di Codognè (TV). Il massacro di Vittorio Premuda avviene ben sei mesi prima dell’eccidio di Porzus, in Comune di Attimis (UD). Quest’ultimo è il più noto eccidio di partigiani della Brigata Osoppo (di orientamento cattolico, monarchico e laico-socialista,) avvenuto per mano di partigiani comunisti. Pure qui che ci sia lo zampino dell’Ozna? Secondo la sentenza della Corte d’Assise di Treviso del 3 dicembre 1946 e dagli articoli de «Il Gazzettino» di quel periodo, Premuda fu attirato con una scusa in una trappola dal comandante comunista “Tigre”, poi venne arrestato e fucilato da partigiani garibaldini comunisti, guidati dallo slavo Kubricevic Svetiovar, detto “Felice” e dallo stesso capo partigiano italiano Attilio Da Ros, detto “Tigre”, comunista di Oderzo (TV).

Detto per inciso il comandante Kubricevic è un ufficiale della marina iugoslava (vedi: Maria Pia Premuda Marson, L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 58), allora viene modestamente da chiedersi: di quali barche slave si doveva preoccupare Kubricevic mentre operava sulle verdi colline di Vittorio Veneto? Ecco affacciarsi l’ombra dell’Ozna. È stata Maria Pia Premuda Marson a ribaltare l’interpretazione di certi storici novecenteschi che derubricavano la fucilazione di Vittorio Premuda, come un fatto d’invidia tra partigiani di opposte formazioni politiche, anzi l’autrice scrive delle spinte annessionistiche iugoslave riguardo a tutta la provincia di Udine, fino oltre il fiume Livenza, in territorio veneto sulle rive del Piave (vedi: La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda…, 2020, p. 15).

Si sa, infine, che diversi partigiani russi hanno combattuto contro i nazifascisti in Friuli dall’inizio del 1944. A Forni di Sopra (UD) c’era il battaglione Stalin, che operava in Carnia. Un altro battaglione di garibaldini sovietici agiva tra Veneto e Friuli, poi c’era il battaglione Kirov, attivo nel Pian del Cansiglio (BL, PN e TV). Infine c’era nientemeno che il figlio primogenito di Stalin nella Brigata partigiana Piave, operativa sulle colline di Vittorio Veneto (TV); egli si celava sotto il nominativo di Giorgio Vorazoscvilj “Monti” («Il Gazzettino» Cronaca di Treviso, 29 agosto 2015, citato dalla Premuda Marson, 2017). Con tutti questi reparti militari, non fa mistero che ci fossero pure certi agenti dei loro servizi segreti, in alleanza con quelli iugoslavi, come l’Ozna. Proprio Maria Pia Premuda Marson afferma che “Agenti speciali sovietici si erano inseriti nelle formazioni partigiane denominate ‘Brigate Garibaldine” (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 17).

Confini orientali 1946-1947

Sul Cansiglio, a Vittorio Veneto e nel Bellunese operava anche Roberto Anelli Monti, col nome di battaglia di “Milos”, o Milo, in ricordo di un capo partigiano iugoslavo ucciso in uno scontro coi tedeschi, che gli muore tra le braccia. Nato a Udine nel 1922, Milos è al comando della Brigata d’assalto della Garibaldi, Divisione “Nino Nannetti” nel 1945.

Capi partigiani slavi nella Venezia Giulia

Pochi studiosi spiegano che i titini, oltre ad occupare Fiume, Pola, Trieste e Gorizia, sono giunti sino a Monfalcone, Romans d’Isonzo, Cividale del Friuli, Aquileia e Cervignano del Friuli, nella Bassa friulana. Una jeep di artificieri iugoslavi fu vista da partigiani della Osoppo sulle rive del Tagliamento, vicino ad un ponte. Come ha scritto, a p. 83, Maria Grazia Ziberna a Gorizia “il periodo dell’occupazione titina, dal 2 maggio al 12 giugno 1945, vide la costituzione nella Venezia Giulia dello Slovensko Primorje, cioè il Litorale Sloveno, che aveva come capoluogo Trieste e comprendeva anche il circondari di Gorizia, diviso in sedici distretti e composto anche dai comuni di Cividale del Friuli, Tarvisio e Tarcento [della provincia di Udine], considerati slavofoni”.

I Titini a Gorizia operano coi consiglieri sovietici. È risaputo che l’occupazione di Gorizia dal 1° maggio 1945 da parte dei miliziani di Tito, assistiti da tecnici sovietici, durò 40 giorni, durante i quali furono arrestati e deportati centinaia di italiani. La presenza sovietica rientra nella dicitura “formazioni poliziesche”, come l’Ozna, che affiancano l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia (vedi: Lidia Luzzatto Bressan, p. 16). Gli artificieri iugoslavi fanno persino saltare due ponti sull’Isonzo, rallentando così l’arrivo delle truppe alleate, per procedere meglio alla caccia degli italiani, facendo innalzare i cartelli “Gorica je naša” (Gorizia è nostra). Poi puntano sul Tagliamento ed oltre. Esiste un elenco di 651 civili e militari arrestati a Gorizia e deportati dai titini fra il 1° maggio e il 12 giugno 1945 che, pur necessitando di ovvi aggiornamenti, rappresenta il teatro delle eliminazioni al confine orientale. In ogni pattuglia titina aggirantesi per la città con tanto di elenco, durante la cattura, partecipa pure un partigiano garibaldino italiano, per individuare meglio i potenziali prigionieri.

A Trieste e a Muggia, secondo certi autori, elementi slavi dell’Ozna nel 1944 si fanno delatori nei confronti degli stessi compagni del Partito Comunista Italiano in seno al Cln, facendoli arrestare dai nazisti. i comunisti italiani erano considerati poco favorevoli alla linea annessionistica iugoslava, che intendeva prendere Trieste, Gorizia (nella Venezia Giulia), Udine, Pordenone (allora in Veneto), se non qualcosa in più. In particolare il muggesano Luigi Frausin, segretario federale del Pci, assieme ad altri esponenti (Kolarich, Facchin, Morgan e Spadaro) riprendono in mano il partito dopo l’8 settembre 1943, rientrando dal confino o dalle galere regie. Essi riconoscono la necessità di un accordo che assegni alla Jugoslavia il territorio abitato da slavi, ma non Trieste, né Gorizia, né la costiera istriana. Peggio, il Frausin non è per niente d’accordo con la delibera del cosiddetto governo provvisorio croato, che nel settembre 1943, a Pisino, prima dell’arrivo dei tedeschi, ha proclamato – sic et simpliciter – l’annessione dell’Istria alla Croazia e quindi alla Jugoslavia, decisione festosamente accolta e ufficialmente riconosciuta dal governo jugoslavo dei partigiani di Tito.

Come ha scritto Fulvio Farba, “ecco che il destino viene a dare una mano agli slavi, tra maggio ed ottobre del 1944 i tedeschi catturano ed eliminano prima un forte gruppo di resistenti muggesani, sostenitori di Frausin, poi fucilano Kolarich ed infine vengono arrestati e deportati Luigi Frausin ed il nipote Ezio, che moriranno nei lager. Poco dopo toccherà a Vincenzo Gigante, Martino Solieri ed altri. A questo punto si impone una domanda, che a quanto pare i comunisti italiani non si sono posti, o non hanno voluto porsi: poiché Natale Kolarich cade in una imboscata ad opera di un traditore e poiché, come dice la motivazione della Medaglia d’Oro al V. M. concessa a Frausin, questi fu catturato a seguito di delazione slava, non si potrebbe ritenere che le persone maggiormente contrarie ai piani jugoslavi, non altrimenti eliminabili in quanto antifascisti convinti dal limpido passato, fossero state volutamente consegnate ai tedeschi? E, naturalmente, da chi poteva trarre maggiori vantaggi dalla loro scomparsa. Le conseguenze di questi avvenimenti si vedono subito: a capo del Partito Comunista Italiano della Venezia Giulia si installano elementi slavi (Rudi Ursich, Frane Stoka, Destradi, Giustincich, Francovich e Karis); alcuni mesi dopo, il rappresentante comunista che ha sostituito Frausin in seno al Cln, Giustincich, abbandonerà il Comitato, reo di non aver voluto sottostare alle imposizioni slave e cesserà ogni collaborazione. Così aumenterà l’antagonismo fra l’ente rappresentativo della resistenza italiana e l’omologo jugoslavo. Inizia cosi allora la svolta comunista pro-Jugoslavia, che suscitò, bisogna dirlo, proteste e risentimenti fra gli aderenti al partito, ma non servirono a nulla. Il Partito comunista italiano era diventato di fatto partito comunista jugoslavo, e tornerà a chiamarsi Pci dopo varie metamorfosi solamente nel 1957. La propaganda pro-Jugoslavia venne intensificata, e si passò a sostenere apertamente la pura e semplice annessione alla Jugoslavia”.

Sin dal 17 luglio 1944 il Comando Generale delle Brigate Garibaldi, attivo in Friuli e nella Venezia Giulia stipula un accordo col comando del IX Corpus del Novj per il quale i partigiani italiani comunisti passano alle dirette dipendenze degli slavi. Gli Osovani non accettano, provocando forti tensioni che sfociano nell’eccidio di Porzus e in vari morti per strani incidenti. Nella notte del 24 e 25 dicembre 1944 i Garibaldini guadano l’Isonzo e vanno a mettersi sotto il comando degli slavi, come ha scritto Giorgio Rochat.

Tale passaggio non è indolore, perché i partigiani italiani in territorio slovenofono sono maltrattati, messi alla fame, costretti a marce forzate e, pur male armati, devono andare alla battaglia di Voschia contro i nazisti. Voschia / Voisko, Comune di Idria (ex-provincia di Gorizia, poi Jugoslavia, oggi Slovenia). Le assurde vicissitudini patite sono descritte nel diario di Renato Rozio, classe 1924, contestato dai dirigenti comunisti. Studente e già partigiano a Mondovì (CN), rientra a casa a causa dei rastrellamenti. Si arruola militare ad Alessandria, al Comando tedesco, per non gravare sulla famiglia, viste le minacce naziste ai familiari dei renitenti alla leva (il bando relativo, del 2 aprile 1944, scrive di presa in “ostaggio dei genitori dei renitenti e all’incendio delle loro case”). Trasferito a Trieste e Fiume, viene addestrato ad Abbazia, in una caserma tedesca. Poi è destinato nella Valle dell’Isonzo (GO, poi Slovenia). Diserta a Bodres di Canale d’Isonzo (GO, poi Slovenia) e si arruola nei partigiani rossi della Divisione Garibaldi-Natisone a Breg di Medana (oggi in Slovenia), presso Dolegna del Collio (GO). Come accennato, tutta la Divisone partigiana nel 1944 si trasferisce da Albana, Comune di Prepotto (UD) verso Tolmino, Circhina (ex-provincia di Gorizia, poi Jugoslavia e Slovenia), Blegos Likar (presso Škofia Loka), Logatec e Lubiana (ex Jugoslavia, poi Slovenia). È ferito il 23 marzo 1945 nella battaglia di Voschia. Patisce fame, freddo e prepotenze demenziali del suo comandante, che vorrebbe fucilarlo, perché lo sorprende a dormire dopo del suo turno di guardia, in seguito a massacranti trasferimenti senza cibo. Poi, rientrato in Italia, vede che si sistemano solo i politicanti. Ecco alcune pagine del suo Diario. “Ti sparo, erano gli ingredienti coesivi del reparto [partigiano]”. È il comandante Lampo a sferzare così i suoi sottoposti italiani, in movimento in territorio slavofono (p. 48 del Diario di Rozio). “Li scortava Mirko, il partigiano slavo promosso caposquadra, noto per la fucilazione sul posto di una guardia addormentata” (p. 79 e p. 104).

Tra i partigiani italiani si infila un personaggio ambiguo. È il mongolo, un ufficiale medico russo caucasico appartenente prima alle file nemiche; è gentile con tutti, forse è un agente in missione segreta, in contatto con l’Ozna. “Dice di avere combattuto coi dissidenti polacchi” (p. 48). Il mongolo è poi passato coi partigiani. Era ottobre 1944. Al rancio di un giorno alle ore 12, il partigiano Siro si sente male: vomito e bava schiumosa. “Sparategli, non fatelo soffrire oltre! – urlò ad un tratto qualcuno impressionato e commosso, ma troppo compreso dei sistemi eccessivamente sbrigativi cui l’avevano abituato da tempo le dure necessità della guerriglia” (p. 50). Forse epilessia? Allo stesso tempo stanno male altri partigiani, per un probabile avvelenamento. Il giorno dopo è inscenato un processo popolare: “assemblea” (p. 53) contro il mongolo. La sentenza è: “Sparategli subito!” (p. 54). Infatti gli scaricheranno il mitra alle spalle e lo seppelliranno mezzo nudo (p. 55). Si muore di fame, di sonno, di fatica… i tedeschi possono apparire da un momento all’altro” (p. 65). Poi fucilano 2 dei nostri, per tentata diserzione (p. 65); uno di questi grida: “Mamute, mamute” (mammina, mammina, in friulano) e lancia il portafogli verso un gruppo di partigiani, tra i quali c’è Gino. I corpi vengono seppelliti nelle fosse preparate. Così era la vita quotidiana del partigiano garibaldino in Slovenia, alla faccia dell’internazionalismo proletario.

Il più grave attentato dell’Ozna contro gli italiani a guerra finita è la strage di Vergarolla, presso Pola, del 18 agosto 1946. Ci furono 116 vittime e oltre 200 feriti. Del resto, attentati dinamitardi titini si verificano, nel 1946, anche a Monfalcone e Trieste, come hanno documentato Paolo Radivo, nel 2016, oltre al «Messaggero Veneto» del 1946. Un altro attentato dell’Ozna si svolge a Gorizia, presso il Parco della Rimembranza il 9 agosto 1946. Si teneva una pacifica cerimonia italiana per il XXX anniversario delle Battaglie dell’Isonzo e del tricolore italiano esposto su Gorizia redenta nel 1916. Esagitati sloveni giunti da lontano dapprima tentano di contestare e di agitare la folla, ma vengono messi a tacere. Gli stessi provocatori slavi allora lanciano delle bombe a mano sulla gente assiepata, provocando vari feriti, tra i quali Sergio Zuccolo e, per puro caso, nessun morto, come ha scritto Primo Cresta, nel 1969.

Cimeli militari. Elmetto italiano 1939-1945. Tascapane militare, post 1945, guerra fredda. Borraccia USA 1939-1954. Gavetta di un alpino di Codroipo 1939-1945, con coperchio antecedente (oggetto in alluminio più grande). Gavetta del fante italiano G.G. di Percoto, 1939-1945. Bustina partigiana, detta “titovka” di un appartenente al IX Corpus di Tito dell’Osvobodilna Fronta. Da una ricerca scolastica dell’Istituto Stringher di Udine, 2015.

Durante la Resistenza, nei centri urbani, agiscono i gappisti, che sono membri dei Gruppi di Azione Patriottica, appartenenti al Partito Comunista d’Italia. Vari gappisti al termine della guerra fuggono nella Jugoslavia di Tito molto bene accolti. Come mai? Perché sono legati all’Ozna. Nel 1946 anche Mario Toffanin “Giacca”, lo stragista di Porzùs, scappa a Capodistria, evitando il carcere successivo alla condanna comminatagli nel 1951 al processo della Corte d’Assise di Lucca. Pure certi Diavoli Rossi (gappisti della Bassa friulana collegati ai titini) fuggono in Jugoslavia, primo fra tutti il loro caporione Gelindo Citossi, poi pure Norberto Sguazzin e un certo “Tom”, di Mortegliano; “emigrano in Jugoslavia”, come ha scritto Francesca Artico. Alcuni di tali partigiani fuggiti in Istria, come “Giacca”, Mario Abram (partigiano rosso triestino), Nerino Gobbo (noto infoibatore) e Giuseppe Krevatin se la prendono coi preti italiani, minacciandoli e picchiandoli a sangue, come ha riportato il «Giornale di Trieste» del 23 novembre 1951. Poi quando i titini nel 1948 vogliono fare piazza pulita dei cominformisti, dei comunisti storici e degli stalinisti, certi partigiani italiani scappati nel “paradiso di Tito” svicolano in Cecoslovacchia, perché neanche Tito li vuole più tra i piedi. Quelli che riesce a beccare li deporta all’Isola Calva (Goli Otok) dove patiscono e muoiono di stenti, come in ogni campo di concentramento. Alcuni dei fuggitivi in Cecoslovacchia, forse per la coscienza sporca, cambiano addirittura nome, imbrogliando sui documenti.

È una scena sconvolgente quella cui assiste Antonio Zappador a Verteneglio, in Istria nel dopoguerra. “Mi è capitato di vedere tre agenti dell’Ozna – ha riferito Zappador – accoltellare a morte un compaesano, così in mezzo alla strada, come se niente fosse, poi mio padre ha fatto di tutto per tenermi nascosto dato che ero un testimone scomodo, hanno squartato quell’uomo come con i maiali al macello”. Quel tremendo ricordo vissuto verso il 1950 è contenuto pure in un verso di una recente raccolta poetica del testimone: “Ho rivisto la casa della mia fanciullezza, / pietre senza anima, / profanata dagli uomini dei pugnali” (Zappador, pag. 83).

Il colmo della situazione iugoslava è che ad un certo punto restano traumatizzati gli stessi infoibatori o eliminatori, come emerge da un’intervista. A Rovigno “si diceva che per ogni uccisione ci fosse il parere positivo dell’Ozna, il servizio segreto iugoslavo – ha detto Riccardo Simoni – so che alcuni ragazzi arruolati nell’Ozna sono rimasti poi colpiti per tutta la vita di ciò che è successo”.

Capitani partigiani slavi in Friuli

Nella Bassa friulana il 3 aprile 1945 è arrestato dai Repubblichini lo sloveno Angelo Cernig, Vinco, di 31 anni, della Brigata “Garibaldi Natisone”. Torturato per giorni dalla Banda Ruggiero nella caserma Piave di Palmanova (UD), viene impiccato il 7 aprile sui bastioni della città (Corte d’Assise di Udine, 1946). 

Pure nelle zone montane del Friuli ci sono stati dei capi partigiani slavi violenti e crudeli con tutti, compresi i loro sottoposti, come ha documentato Giulio Del Bon nel 2018. Un certo comandante Mirko è menzionato alle pagine 24, 34, 46, 111 e 254 del suo volume. Verso la metà di marzo 1944 in Carnia nasce il primo nucleo di partigiani paracomunisti, il Btg “Friuli” della Garibaldi, di cui Mirko è il comandante e Italo Mestre, Diego, il commissario. Mirko Arko, nato in Slovenia nel 1921, è un ex ufficiale iugoslavo, fuggito sembra da un Campo di prigionia. Si era stabilito fra le borgate del Comune di Lauco, mentre avrebbe potuto tornarsene a casa. Il loro Comando era a Esemon di Sopra e poi a Pani di Raveo. “Mirko era un buon combattente, tuttavia era spietato e feroce non solo nella lotta e con la gente, ma anche nei confronti di noi combattenti”, in base alla testimonianza del garibaldino Giancarlo Fraceschinis, Checo, citata da Del Bon.

Mirko si macchia di un lungo elenco di violenze e di uccisioni, per le stesse fonti della Garibaldi. Lo slavo adotta “metodi violenti ed estremisti, contrari alla mentalità dei nostri resistenti italiani”. Mirko è definito “il re degli episodi violenti estranei ai veri e propri combattenti, lo spietato giudice delle spie, l’implacabile requisitore di beni ai fascisti o non fascisti” come ha testimoniato Osvaldo Fabian, citato ancora da Del Bon.

Maria Iole Furlan, Ospedaletto, 3 maggio 1945, Carro armato P 40 della Karstjäger-Division colpito dagli inglesi, con il monte San Simeone sullo sfondo, fotocopia colorata da un’immagine diffusa da Stefano Di Giusto, cm 20,5×29, 2021.

Dopo l’occupazione della Carnia da parte Cosacca e nazifascista, nell’autunno 1944, Mirko si ritira sui monti di Pani, a Raveo, assieme alla compagna Gisella Bonanni, Katia, da Raveo, forse incinta; per sopravvivere saccheggiarono viveri e armi in un magazzino garibaldino, perciò e per gli altri gravi motivi già menzionati gli stessi comandi della Garibaldi decisero la loro eliminazione, come ha scritto P.A. Carnier, alle pp. 253, 254 di un suo libro.

Negli scontri di Paluzza, avvenuti nei giorni 8-9 luglio 1944 tra partigiani della Garibaldi e 48 Waffen SS Karstjäger della I Kompanie partiti dalla caserma di Udine al comando del maresciallo Bauernschmid resta ferito un russo, ex soldato sovietico catturato e passato nelle file tedesche, di nome Lininowitch, poi morto in ospedale. Che fosse un’altra spia doppiogiochista? Nello scontro c’erano anche genieri della Wehrmacht per liberare la strada per Passo Monte Croce Carnico ostruita da massi (Del Bon, p. 104).

Come ha scritto Luigi Raimondi Cominesi:  “Talvolta i prelievi [di generi alimentari ed altro] erano fatti arbitrariamente da personaggi che non erano partigiani ma che si spacciavano per tali. I ladri, se scoperti dai partigiani veri, venivano eliminati”. Nell’Archivio ANPI di Udine esistono dei buoni di prelievo originali, in bianco o usati. I buoni rilasciati dai partigiani vennero pagati dopo la guerra (p. 91). Ciò che colpisce, tuttavia, è la naturalezza con cui si scrive della “eliminazione” dei presunti ladri.

Ci sono infine comandanti partigiani della Divisione “Garibaldi-Natisone” assassinati dai loro stessi compagni. È successo il 30 aprile 1945 a Leo Scagliarini con un colpo alla nuca a Rizzolo di Reana del Rojale (UD). Pur essendo un democratico libertario, egli si aggrega nel 1944 alla brigata “Picelli”, col nome di battaglia “Ricciotti”, perché erano le unità più robuste per combattere i nazifascisti, ma con la metà di gennaio 1945 finiscono sotto il comando del IX Korpus titino. La spiegazione fornita dai partigiani invece narra di una morte per il fuoco amico di un aereo da caccia inglese che mitraglia una colonna di partigiani e l’autovettura con dentro “Ricciotti” il 29 aprile. Pare che l’assassino sia stato lo stesso “Giacca”, molto ostile a “Ricciotti”, che intendeva liberare Udine il 1° maggio con le bandiere tricolori e non con quelle rosse dei comunisti. Su tale eliminazione non è mai stata aperta un’indagine giudiziaria, come ha scritto Pansa (pp. 291-315).

Conclusioni – I valori umani si vedono dai comportamenti, senza che siano sbandierati. Forse sono l’elemento più importante della vita. L’individuo vive col valore dell’umanità, oppure dimentica l’umanità, compiendo gli atti del male. Come diceva Max Weber i valori vengono facilmente falsati in dichiarazioni programmatiche, scivolando banalmente nella retorica o nella predica. La disumanità dell’Ozna è così nota, che viene menzionata persino dai romanzieri, come Stefania Conte, nel suo La stanza di Piera, opera del 2020, ambientato in Istria nella Seconda guerra mondiale, compreso il dramma delle foibe.

Documento partigiano interessante datato a Gimino (Istria) 20 marzo 1944 e firmato dal Commissario Osman Kovačić (con grafia serbo-croata) per la richiesta di una radio. Il timbro d’intestazione “K.K. Žminj”, vista la firma, potrebbe essere esplicato con: “Komunistički komesar Žminj” (Commissario comunista di Gimino). Molto interessante l’uso della lingua italiana (pur con molte licenze grammaticali) tra partigiani della Venezia Giulia con comando slavo. Coll. privata Udine

Fonti orali – Riccardo Simoni, Rovigno 1940, trapiantato a San Casciano Val di Pesa (FI),  int. telefonica di E. Varutti del 23-25 febbraio 2020.  Antonio Zappador, Verteneglio 1939, int. di E. Varutti, del 23 febbraio 2020, a Fossoli di Carpi (MO).

Collezioni private: Coll. Gemma Valente, Bastajànawa, vedova Barbarino, Resia, titovka.  Coll. privata Udine, elmetto, gavette, borraccia e tascapane militari.

Bibliografia, sitologia e ringraziamenti

Sono riconoscente all’architetto Franco Pischiutti, dell’ANVGD di Udine, per i consigli bibliografici ricevuti. Grazie a Maria Iole Furlan per i disegni messi a disposizione.

Francesca Artico, “Morto ‘Ferro’, partigiano dei Diavoli Rossi”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Cervignano Latisana Bassa, 19 aprile 2020, p. 37.

Corte d’Assise di Udine, sentenza n. 120 del 5 ottobre 1946, presidente G. Rota; estratto pubblicato sul «Messaggero Veneto».

Pier Arrigo Carnier, Lo sterminio mancato, Milano, 1982.

Primo Cresta, Un partigiano dell’Osoppo al confine orientale, Udine, Del Bianco, 1969.

Giulio Del Bon, 1943-1945 Vicende di guerra. La Carnia durante l’occupazione nazista, Paluzza (UD), Associazione culturale “Elio cav. Cortolezzis”, 2018.

Stefano Di Giusto, P 40 della Karstjäger-Division a Ospedaletto, PDF nel web, 2017.

Fulvio Farba, “Scelta comunista nella Venezia Giulia. La via jugoslava al socialismo”, «Arena di Pola», n. 2.376, 9 febbraio 1985, p. 6.

Milovan Gilas, o Ðjilas, Vlast, London, Naša Reč, 1983, traduz. ital.: Se la memoria non m’inganna… Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962, Bologna, Il Mulino, 1987.

Lidia Luzzatto Bressan, Gli scomparsi da Gorizia nel maggio 1945, a cura del Comune di Gorizia, Associazione Congiunti dei Deportati in Jugoslavia, 1980, pag. 16

Orietta Moscarda Oblak, “La presa del potere in Istria e in Jugoslavia. Il ruolo dell’OZNA”, «Quaderni del Centro Ricerche Storiche Rovigno», vol. XXIV, 2013, pp. 29-61.

Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria. Chi imprigiona la verità sulla guerra civile, Sperling & Kupfer, 2007.

Joze Pirjevec, “Il ruolo del Fronte di Liberazione”, in Pietro Spirito, Roberto Spazzali (a cura di), L’altra Resistenza. La guerra di liberazione a Trieste e nella Venezia Giulia, Ote SpA, «Il Piccolo», Trieste, 1995, pp. 47-54.

Maria Pia Premuda Marson, L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda tra le epurazioni finalizzate al tentativo di porre una parte del nostro stato sotto la sovranità della nascente confederazione jugoslava, Padova, Cleup, 2017.

Maria Pia Premuda Marson, La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda comandante della Brigata Fratelli d’Italia, campeggia nella lotta per la liberazione della seconda guerra mondiale nei ricordi della popolazione più anziana dei paesi tra Piave e Livenza, Padova, Cleup, 2020.

Paolo Radivo, La strage di Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive, Libero Comune di Pola in esilio, «L’Arena di Pola», 2016.

Luigi Raimondi Cominesi, Poesie di lotta e di speranza. Frammenti dal 1944 al 2009, a cura di Pietro Angelillo, Pordenone, Istituto Provinciale per la Storia del Movimento di Liberazione e dell’Età Contemporanea, 2010.

Alvaro Ranzoni, “Se interviene anche l’Islam”, «Panorama», 21 luglio 1991.

Giorgio Rochat, Atti del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà, Milano, Angeli, 1972.

Renato Rozio, La paga del guerriero. Le vicissitudini di un partigiano della Divisone Garibaldi-Natisone sul Collio e in territorio sloveno (1944-1945), Udine, Del Bianco, 1997.

E. Varutti, Giuseppe Baucon, di Gradisca, salvatosi dalla fucilazione titina e dalla foiba a Circhina nel 1944, on line dal 20 settembre 2018 su blog-di-elio-varutti.webnode.it

Elio Varutti, L’Ozna di Tito in Nord Italia tra guerra e dopoguerra, on line dal 9 giugno 2020 su eliovarutti.wordpress.com

E. Varutti, L’ombra dell’Ozna in omicidi partigiani in Veneto. Il caso Vittorio Silvio Premuda, 1944, on line dal 10 agosto 2020 su eliovarutti.wordpress.com

Antonio Zappador, 29.200 giorni. Una vita piena di tutto… di più, Carpi (MO), stampato in proprio, 2019.

Maria Grazia Ziberna, Storia della Venezia Giulia da Gorizia all’Istria dalle origini ai nostri giorni, Gorizia, Lega nazionale, 2013.

Testi e Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e Elio Varutti. Lettore: Enrico Modotti. Disegni di Maria Iole Furlan. Copertina: Maria Iole Furlan, Elementi dell’Ozna accoltellano un italiano a Verteneglio nel 1950, matita su carta, cm 16×22, 2021, courtesy dell’artista. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia, 29 – I piano, c/o ACLI – 33100 Udine – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

L’ombra dell’Ozna in omicidi partigiani in Veneto. Il caso Vittorio Silvio Premuda, 1944

Certi libri hanno un’anima. Ne sa qualcosa l’autrice Maria Pia Premuda Marson che intende coltivare la memoria alla stessa stregua di un bene culturale. Questi libri squarciano la tela del silenzio riguardo all’uccisione di partigiani italiani da parte di altri italiani, sotto la guida di un burattinaio slavo. La sua battaglia culturale inizia nel 2013, quando dà alle stampe Rievocazioni storiche di Vittorio Silvio e di Nicolò Premuda: documenti, storia e tracce della famiglia, per l’editrice Cleup di Padova. Sin da quell’esordio editoriale sui temi del secondo conflitto mondiale si nota una disperata ricerca della verità riguardo l’assassinio di Vittorio Silvio Premuda, partigiano della formazione “Fratelli d’Italia”, oltre che suo caro zio, da parte di partigiani comunisti italiani guidati da un comandante slavo. I libri che seguono e che qui si recensiscono sono la prosecuzione e l’approfondimento dell’indagine volta a recuperare la memoria del tenente colonnello Vittorio Silvio Premuda, come recita il sottotitolo del volume del 2017: L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda tra le epurazioni finalizzate al tentativo di porre una parte del nostro stato sotto la sovranità della nascente confederazione jugoslava.

Il problema per Maria Pia Premuda Marson è che la letteratura e certi storici novecenteschi della Resistenza derubricano la fucilazione di Vittorio Premuda, avvenuta il 19 agosto 1944, come un fatto d’invidia tra partigiani di opposte formazioni politiche. Oppure ascrivono all’impreparazione militare della compagine del Premuda la tremenda fine “in un lago di sangue del suo comandante”, come ha scritto, senza contattare i discendenti né consultare gli atti della Corte d’Assise di Treviso, Roberto Binotto in Personaggi illustri della Marca Trevigiana, 1996. Per giunta è del tutto paradossale scrivere che un tenente colonnello di fanteria del Regio esercito, sia impreparato, vista la sua carriera militare che lo vide per anni impegnato in Libia, Tunisia, Veneto, Campania e poi passato alla macchia, dopo l’8 settembre 1943, per sfuggire ai lager nazisti.

Allora, chi ha ucciso Vittorio Silvio Premuda? Non è una scaramuccia fra partigiani con un comandante rimbecillito che ordina fucilazioni a vanvera. Secondo la sentenza della Corte d’Assise di Treviso del 3 dicembre 1946 e dagli articoli de «Il Gazzettino» di quel periodo, egli fu attirato con una scusa in una trappola dal comandante comunista “Tigre”, poi venne arrestato e fucilato da partigiani garibaldini comunisti, guidati dallo slavo Kubricevic Svetiovar, detto “Felice” e dallo stesso capo partigiano italiano “Tigre”, comunista di Oderzo (TV). Gli assassini sono tanti contro uno. Essi arrivano in camion e si nascondono per catturarlo meglio. Tra l’altro il Kubricevic è un ufficiale della marina iugoslava (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 58), allora viene modestamente da chiedersi: di quali barche slave si stava egli occupando mentre operava sulle colline di Vittorio Veneto? Ecco affacciarsi l’ombra dell’Ozna, il servizio segreto titino.

Nel 1994 l’Amministrazione comunale di Codognè (TV), nella persona del sindaco Mario Gardenal, promuove la commemorazione di Vittorio Silvio Premuda, in occasione del 50° anniversario del suo massacro. Come scrive la nipote, tra le autorità che si notarono c’era il vescovo di Vittorio Veneto Eugenio Ravignani, nativo di Pola, l’ingegnere Silvio Cattalini, esule da Zara e presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, assieme a molte autorità militari e rappresentanze d’Arma (La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda…, 2020, p. 13).

I due volumi del 2017 e del 2020 della Premuda Marson fanno luce su un fatto rimasto nell’ombra per la congiura del silenzio, rottasi solo dopo la caduta del Muro di Berlino (1989). Le uccisioni fra partigiani, secondo la retorica novecentesca di gran parte degli storici della Resistenza è sempre meglio classificarle come vendetta e invidia tra personaggi facinorosi e strambi. L’ottima divulgatrice che è Maria Pia Premuda Marson, bilaureata della classe 1927 nonché socia dell’ANVGD di Udine, colma un vuoto assordante nella vicenda del massacro del tenente colonnello Vittorio Silvio Premuda, comandante della Brigata “Fratelli d’Italia” di partigiani non comunisti attivi tra Piave e Livenza. Egli non era disposto a passare sotto il comando dei partigiani garibaldini, come espressamente gli fu richiesto, per tale motivo lo slavo Kubricevic Svetiovar, detto “Felice”, ne decretò la morte, ben sei mesi prima dell’eccidio di Porzus, in Comune di Attimis (UD). Altro ammazzamento fra partigiani più tristemente noto rispetto all’eliminazione del Premuda stesso.

Si tenga presente poi che il comandante della Brigata “Fratelli d’Italia” era in contatto tramite il generale Cugini “Castelli” con gli angloamericani che lo rifornivano con lanci aerei di vario materiale bellico, previo messaggio su Radio Londra (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 4). Tutto ciò dava molto fastidio ai partigiani garibaldini, guidati da Kubricevic Svetiovar, detto “Felice”, probabile agente dell’Ozna.

Dopo la morte e il riconoscimento del cadavere di Vittorio Silvio Premuda, il comando della sua unità partigiana passò al fratello Nicolò Premuda, “Nipro”. Nel mese di aprile 1945 i patrioti di detta formazione erano oltre 700 e collaborano con altri partigiani contro i tedeschi, fino all’arrivo dei Neozelandesi. Nicolò Premuda, volontario irredentista nella Grande Guerra, in seguito fu sindaco per 14 anni a Codognè fino al 1970. Egli, nel tentativo di evitare una guerra fratricida alla fine della seconda guerra mondiale, fu ferito gravemente il 27 aprile 1947. Chi gli spara? Voleva  trattare la resa col maggiore Gulmanelli, comandante della Guardia Nazionale Repubblicana di Codognè. Durante le concitate trattative, mentre erano essi diretti a Oderzo, ci fu uno scontro a fuoco “da partigiani contrari ai suoi ordini di evitare una guerra fratricida; cadde svenuto nel sangue ed il maggiore dei fascisti, urlò spiegazioni ma vedendosi in balia di ribelli, si sparò e la orribile strage che mio padre [Nicolò] voleva evitare, incominciò a Camino di Oderzo e poi venne perpetrata sul Piave a Susegana” (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda, 2017, p. 75)

L’autrice riporta in qualche pagina finale pure la toccante vicenda dei suoi avi dell’Isola di Premuda, situata tra Lussino e Zara, oltre ad altri suoi antenati di Lussino (Istria, ora: Croazia) e di Perasto alle Bocche del Cattaro (Dalmazia, ora: Montenegro). Qualche facciata è dedicata pure all’esodo giuliano dalmata, quando nel settembre 1943 la famiglia della sorella di suo padre Nicolò si trova ad ospitare a Roverbasso di Codognè (TV) certi lontani parenti Premuda di Fiume e di Pola con cinque bambini. “Allora non comprendevo la causa di questo avvenimento strano, perché a me adolescente, era stata nascosta la tragica realtà” (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 74).

La Redazione del blog prende spunto da questi due interessanti volumi di Maria Pia Premuda Marson per effettuare alcune collimazioni con l’originale interpretazione dell’autrice stessa riguardo alle spinte annessionistiche iugoslave riguardo a tutta la provincia di Udine, fino oltre il fiume Livenza, in territorio veneto sulle rive del Piave (La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda…, 2020, p. 15).

Titini a Gorizia coi consiglieri sovietici – È risaputo che l’occupazione di Gorizia dal 1° maggio 1945 da parte dei miliziani di Tito, assistiti da consiglieri sovietici, durò 40 giorni, durante i quali furono arrestati e deportati centinaia di italiani. La presenza sovietica rientra nella dicitura “formazioni poliziesche”, come l’Ozna, che affiancano l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia. Gli artificieri iugoslavi fanno persino saltare due ponti sull’Isonzo, rallentando così l’arrivo delle truppe alleate, per procedere meglio alla caccia degli italiani, facendo innalzare i cartelli “Gorica je naša” (Gorizia è nostra). Poi puntano sul Tagliamento ed oltre. Esiste un elenco di 651 civili e militari arrestati a Gorizia e deportati dai titini fra il 1° maggio e il 12 giugno 1945 che, pur necessitando di ovvi aggiornamenti, rappresenta il teatro delle eliminazioni al confine orientale. In ogni pattuglia titina aggirantesi per la città con tanto di elenco, durante la cattura, partecipa pure un partigiano garibaldino italiano, per individuare meglio i potenziali prigionieri (Associazione Congiunti dei Deportati in Jugoslavia, Gli scomparsi da Gorizia nel maggio 1945, a cura del Comune di Gorizia, 1980, pag. 16).

Pochi imprigionati dai titini sono ricomparsi malconci in seguito, mentre altri nomi sono stati aggiunti alla lista dei deportati e scomparsi tanto che, nel 2019, essi ammonterebbero a 665 casi. Secondo l’elenco delle displaced persons prodotto dagli Alleati nel 1947, gli scomparsi a Gorizia furono 1.100, di cui 759 civili e 341 militari. Gli impiegati vennero licenziati in blocco e riammessi al lavoro solo firmando una dichiarazione di aderire agli ideali del Partito comunista iugoslavo. Commercianti e contadini vennero costretti a consegnare i raccolti, i prodotti alimentari e le merci in cambio di vaghe parole compilate su foglietti volanti senza intestazione o timbri ufficiali degli occupanti slavi (Dino Messina, Italiani due volte. Dalle foibe all’esodo: una ferita aperta della storia italiana, Milano, Solferino RCS Mediagroup, 2019, pp. 133-135).

Riguardo alla presenza di consiglieri russi Antonio Zappador, esule istriano, ha riferito che a Verteneglio due militari ucraini, in veste di consiglieri sovietici, avendo riconosciuto in casa sua madre Olga Alexsandrovna Rackowsckij, della nobiltà ucraina, le si sono inginocchiati accanto baciandole la veste, in barba ai fondamenti leninisti (Antonio Zappador, Verteneglio 1939. Intervista di Elio Varutti del 23 febbraio 2020 a Fossoli di Carpi, MO).

Pochi autori spiegano che i titini, oltre ad occupare Fiume, Pola, Trieste e Gorizia, sono giunti sino a Monfalcone, Romans d’Isonzo, Cividale del Friuli, Aquileia e Cervignano del Friuli, nella Bassa friulana. Una jeep di artificieri iugoslavi fu vista da partigiani della Osoppo sulle rive del Tagliamento, vicino ad un ponte. Come ha scritto Mara Grazia Ziberna a Gorizia “il periodo dell’occupazione titina, dal 2 maggio al 12 giugno 1945, vide la costituzione nella Venezia Giulia dello Slovensko Primorje, cioè il Litorale Sloveno, che aveva come capoluogo Trieste e comprendeva anche il circondari di Gorizia, diviso in sedici distretti e composto anche dai comuni di Cividale del Friuli, Tarvisio e Tarcento [della provincia di Udine], considerati slavofoni” (Maria Grazia Ziberna, Storia della Venezia Giulia da Gorizia all’Istria dalle origini ai nostri giorni, Gorizia, Lega nazionale, 2013,  p. 83).

Si sa, infine, che diversi partigiani russi hanno combattuto contro i nazifascisti in Friuli dall’inizio del 1944. A Forni di Sopra (UD) c’era il battaglione Stalin, che operava in Carnia. Un altro battaglione di garibaldini sovietici agiva tra Veneto e Friuli, poi c’era il battaglione Kirov, attivo nel Pian del Cansiglio (BL, PN e TV). Infine c’era nientemeno che il figlio primogenito di Stalin nella Brigata partigiana Piave, operativa sulle colline di Vittorio Veneto (TV); egli si celava sotto il nominativo di Giorgio Vorazoscvilj “Monti” («Il Gazzettino» Cronaca di Treviso, 29 agosto 2015, citato dalla Premuda Marson, 2017). Con tutti questi reparti militari, pare plausibile che ci fossero pure certi agenti dei loro servizi segreti, in alleanza con quelli iugoslavi, come l’Ozna. Proprio Maria Pia Premuda Marson afferma che “Agenti speciali sovietici si erano inseriti nelle formazioni partigiane denominate ‘Brigate Garibaldine” (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 17).

Vittorio Silvio Premuda

La moralità della Resistenza – I temi riguardanti l’etica della Resistenza non sono oggetto di indagini solo di Gampaolo Pansa, che ha iniziato ad indagare sulle eliminazioni nel Triangolo rosso di Reggio Emilia con Il sangue dei vinti (2005), con La Grande bugia (2006) ed altro. Essi sono stati messi sul piatto della bilancia sin dal 1991 da Claudio Pavone, col suo Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Poi, per i ricercatori, è stato come un fiume in piena fino, appunto, al ruolo dell’Ozna negli eccidi dell’Italia del Nord. 

Uno dei mandanti dell’omicidio Premuda è uno iugoslavo. Che ci faceva uno iugoslavo in territorio veneto ad oltre 130 km dalla sua vantata area slovenofona se non fosse stato una spia dell’Ozna, il servizio segreto di Tito? È un’ipotesi del recensore, suffragata da vari riferimenti. Si sa, ad esempio, che da un rapporto segreto del Ministero dell’Interno italiano, del 1946, l’Ozna era “già riuscita ad infiltrare molti elementi nelle file dei cetnici [ex monarchici serbi], specie tra i profughi giuliani che si trovano a Roma nei campi profughi di Forte Aurelio e Cinecittà”. Si veda in merito: O.Z.N.A.: La mano segreta di Tito, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Della P.S. – Divisione S.I.S., Roma, 19 novembre 1946,  consulenza di Aldo Giannuli, Università di Milano; nel sito web storiaveneta.it

Tra la fine della guerra e nel dopoguerra l’Ozna è presente in Italia del Nord. I suoi agenti si mimetizzano nei gruppi partigiani comunisti o nelle grandi città; osservano e prendono nota. Il loro obiettivo si lega allo sciovinismo-nazionalista di Tito, allargare l’area territoriale fino a superare Isonzo, Tagliamento, Livenza e Piave, facendo pesare il ruolo militare dell’Esercito Popolare di Liberazione iugoslavo il più possibile quando sarà il momento di sedersi attorno ad un tavolo della pace, Alleati permettendo. A Fasana, presso Pola, c’è la sede delle operazioni speciali che l’Ozna prepara per l’Alta Italia e per Roma.

Conclusioni – I fatti dell’esodo giuliano dalmata, dell’uccisione nelle foibe e delle eliminazioni di partigiani italiani autonomi o azionisti da parte dei titini dovevano restare nascosti perché c’era la Cortina di ferro, da Danzica a Trieste. Come disse Winston Churchill, nel marzo 1946, a separare l’Europa in due sfere politiche, una sovietica e l’altra angloamericana c’è la Cortina di ferro. In piena Guerra fredda e con le spie di tutto il mondo che ronzavano tra Gorizia, Trieste, Tarvisio, Venezia e Treviso non si doveva scomodare Tito, capo della Federativa Repubblica di Jugoslavia, che si stava staccando politicamente da Mosca e da Stalin, mentre gli agenti dell’Ozna gironzolavano nel Nord Italia e a Roma con i loro loschi obiettivi. È appena il caso di ricordare che la strage di Vergarolla, presso Pola, mentre la zona è controllata da reparti britannici, avviene per mano dell’Ozna, secondo vari storici; l’orribile attentato è del 18 agosto 1946 provocando 64 morti, centinaia di feriti (tutti italiani), oltre alla fuga del 95% degli abitanti del capoluogo istriano verso Trieste, Venezia e Ancona.

La “Odeljenje za Zaštitu Naroda” (Ozna) è la sigla che significa: Dipartimento per la Sicurezza del Popolo. C’è una seconda versione che così spiega la sigla: “Oddelek za zaščito naroda”; letteralmente: Dipartimento per la protezione del popolo. Era parte dei servizi segreti militari iugoslavi e fu attiva dal 1944 fino al 1952. L’organizzazione titina, programmata da Tito e Milovan Gilas, era dotata di carceri proprie e attuava requisizioni, vessazioni ed addirittura ha programmato la pulizia etnica a Pola contro gli italiani. La pianificazione delle uccisioni di italiani in Istria, Fiume e Dalmazia per mano titina è stata documentata da Orietta Moscarda Oblak a pp. 57-58 di un suo saggio (“La presa del potere in Istria e in Jugoslavia. Il ruolo dell’OZNA”, «Quaderni del Centro Ricerche Storiche Rovigno», vol. XXIV, 2013, pp. 29-61.). Agenti dei servizi segreti di Tito negli anni ‘50 si infiltrano perfino nei Centri raccolta profughi (CRP) sparsi in Nord Italia per carpire notizie sui rifugiati e per altre operazioni di stampo terroristico nelle città. Dal 1946 al 1991 la polizia segreta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia diviene “Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti” o Udba; letteralmente: “Amministrazione Sicurezza Statale”. Processato e incarcerato da Tito, dal 1954 al 1966, come dissidente lo stesso Milovan Gilas, nel 1991, riguardo all’Istria del 1945-‘46, dichiarò al giornalista Alvaro Ranzoni, del settimanale italiano «Panorama»: “Gli italiani erano la maggioranza solo nei centri abitati e non nei villaggi. Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto”. Gravi dichiarazioni mai smentite quelle di Gilas, che fu segretario del Komunisticna Partija Iugoslavije (Partito comunista iugoslavo); egli ammise inoltre in un suo noto memoriale, a p. 12, che in Jugoslavia gli “arresti effettuati al di fuori della legge, come in tempo di guerra, continuavano a essere la pratica corrente” (Se la memoria non m’inganna… Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962, ediz. originale: Vlast, London, Naša Reč, 1983, traduz. ital.: Bologna, Il Mulino, 1987).

La Società di Studi Fiumani di Roma ha documentato nell’opera bilingue (italiano e croato) – Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni, pubblicata nel 2002 a cura di Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski e presentata a Roma e a Zagabria – come andarono le cose dopo l’avvento della nuova dittatura comunista iugoslava. Sono oltre 580 le persone uccise a Fiume dalla polizia segreta dell’Ozna a guerra finita, senza umana giustizia. L’Ozna operò fino al 1952, assieme all’Udba, che poi prese le redini dei servizi segreti titini. La gente continua a chiamare le spie di Tito: quelli dell’Ozna.

I libri qui recensiti

Maria Pia Premuda Marson, L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda tra le epurazioni finalizzate al tentativo di porre una parte del nostro stato sotto la sovranità della nascente confederazione jugoslava, Padova, Cleup, 2017.

Maria Pia Premuda Marson, La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda comandante della Brigata Fratelli d’Italia, campeggia nella lotta per la liberazione della seconda guerra mondiale nei ricordi della popolazione più anziana dei paesi tra Piave e Livenza, Padova, Cleup, 2020.

Recensione di Elio Varutti. Attività di ricerca e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Copertina: Perasto, Bocche di Cattaro 1942, ediz. Libreria italiana Cattaro, dal web. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia 29, I piano – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

L’Ozna di Tito in Nord Italia tra guerra e dopoguerra

Certi studiosi sostengono che nel Nord Italia e a Roma ci sia stata l’azione di agenti dell’Ozna, la polizia segreta iugoslava (vedi in Sitologia: Marenghi). Le spie di Tito non sono necessariamente tutte iugoslave; ad esempio, tra di loro ci può essere qualche stalinista italiano dal fervente spirito internazionalista, oltre che alla ricerca di protezione per le malefatte commesse sul suolo italico.

Da un rapporto segreto del Ministero dell’Interno italiano, del 1946, l’Ozna era “già riuscita ad infiltrare molti elementi nelle file dei cetnici [ex monarchici serbi], specie tra i profughi giuliani che si trovano a Roma nei campi profughi di Forte Aurelio e Cinecittà”. La stessa organizzazione segreta iugoslava, in base al citato rapporto, ha stretti contatti con i sovietici (vedi: Ozna, in Sitologia).

Le fucilazioni nel Nord Italia

A fine aprile 1945 ci sono decine di fucilazioni da parte di partigiani col fazzoletto rosso nelle prigioni di Pordenone e in quelle di Milano con l’accusa ai prigionieri di essere fascisti. A Trieste alla fine di maggio 1945, durante l’occupazione titina, durata dal 1° maggio al 12 giugno, si verifica un violento fatto strano. Un ordigno esplode a Villa Segre, dove sono acquartierati i partigiani garibaldini italiani, in teoria, filo-titini. Ci sono 5 vittime. È un increscioso incidente, oppure un attentato dell’Ozna contro i partigiani italiani “troppo poco comunisti e sciovinisti”? I partigiani garibaldini friulani sono giunti a Trieste il 20 maggio, come ha scritto Luciano Santin, al comando di Giovanni Padovan, commissario della Divisione Garibaldi e vice del raggruppamento “Friuli”, su 13 carri armati e autoblinde. Così sentenzia il quotidiano titino di Trieste «Il Nostro Avvenire» si tratta delle: “brigate italiane dell’Armata di Tito”. Questi partigiani hanno sì il fazzoletto rosso al collo, ma poco propensi a vedere sventolare solo la bandiera iugoslava nella sfilata in programma. Tito si aspetta un intervento di appoggio alle rivendicazioni slave su Trieste, Gorizia e parti del Friuli, ma Padovan “Vanni” al comizio nulla dice sulla nascente Settima Repubblica della Federativa di Jugoslavia, che nei piani titini avrebbe avuto per capitale Trst (Trieste) e arrivare fino al Tagliamento, compresa Videm (Udine). Ecco i retroscena del sanguinoso attentato di Villa Segre a Trieste.

Nel mese di giugno e nei primi giorni di luglio del 1945 accadono altri gravi fatti di sangue in varie città del Nord Italia, che possono essere riconducibili all’Ozna. Squadre di partigiani comunisti attaccano le carceri col mitra per eliminare i detenuti, uccidendo pure i poliziotti. L’8 giugno si assiste all’attacco armato alle prigioni di Ferrara, che provoca 18 morti (vedi: Bruno Vespa), incluso Costantino Satta, comandante delle carceri giudiziarie, abbattuto a colpi di rivoltella.

Il 15 giugno successivo c’è l’assalto alla prigioni di Carpi, in provincia di Modena, che causa 14 cadaveri. Il bilancio complessivo tra Carpi e Ferrara è di 32 morti e circa 50 feriti, tra i quali ci sono alcuni fascisti, o presunti tali. Nella notte fra il 6 ed il 7 luglio 1945 c’è l’assalto partigiano al carcere di Schio, in provincia di Vicenza, che provoca la morte di 54 individui, comprese varie donne, reputati in blocco o in parte fascisti. Si può individuare un’unica strategia nei repulisti delle varie città italiane menzionate. Gli ordini probabilmente giungono dall’Est e sono condivisi, con spirito internazionalista, dai dirigenti locali del Pci succubi a Tito. Le citate carneficine sono collegabili per gli obiettivi generali cominformisti ad altri massacri, come l’eccidio di Porzùs (1945), in Friuli e la strage di Vergarolla, a Pola, in Istria (1946), pure ordita dall’Ozna. Di Vergarolla si sa il numero esatto dei morti identificati e sepolti, che sono 64, come segnato sulla lapide in San Giusto a Trieste. Nessun morto o ferito si registra fra i filo-iugoslavi a Vergarolla. Si sa con minore precisione il nome delle vittime non identificate e dei numerosi feriti, sui funerali, sul cordoglio e la solidarietà di polesi e di altri.

È il 18 agosto 1946. La guerra è finita da più di un anno ormai. Pola, in Istria, è un’enclave italiana amministrata dagli alleati, mentre gran parte della penisola istriana è stata occupata dalle forze militari titine. Anche Trieste coi suoi dintorni sta per diventare un’entità indipendente; è il Territorio Libero di Trieste, amministrato dagli alleati, fino al 1954, quando la città giuliana ripassa all’Italia. Sulla spiaggia di Vergarolla di Pola, affollata di bagnanti italiani, famigliole e bimbi, c’è chi assiste alle gare di nuoto della coppa Scarioni. Pochi polesani si preoccupano delle numerose mine e delle bombe di profondità ben disinnescate e ammucchiate lì vicino. È un deposito d’esplosivi a cielo aperto. Qualcuno va ad innescarne una, oppure piazza una bomba, per fare saltare “per simpatia” tutto il resto, come direbbe un artificiere. Chi è l’autore dell’efferato gesto? Lo si è scoperto nel 2008, dopo l’apertura degli archivi militari inglesi, come ha riportato «Il Gazzettino» del 18 agosto 2014. La responsabilità del misfatto è da attribuirsi all’Ozna, la polizia segreta di Tito, ma tale conclusione è stata contestata da parte slava. È a Fasana la sede dell’Ozna competente per le operazioni su Pola. Del resto, attentati dinamitardi titini si verificano, nel 1946, anche a Monfalcone e Trieste, come hanno documentato Paolo Radivo, nel 2016, oltre al «Messaggero Veneto» del 1946. “Tra la paura delle foibe e la strage di Vergarolla – dicono gli esuli riparati in Italia, come l’ingegnere Sergio Satti, esule a Udine – da Pola, la mia città, se ne andò il 90 per cento degli abitanti, tutti italiani”.

I temi riguardanti l’etica della Resistenza non sono oggetto di indagini solo di Gampaolo Pansa, che ha iniziato ad indagare sulle eliminazioni nel Triangolo rosso di Reggio Emilia con Il sangue dei vinti (2005), con La Grande bugia (2006) ed altro. Essi sono stati messi sul piatto della bilancia sin dal 1991 da Claudio Pavone, col suo Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Poi, per i ricercatori, è stato come un fiume in piena fino, appunto, al ruolo dell’Ozna negli eccidi dell’Italia del Nord. 

Un passo indietro al 1943

Nelle città italiane, dopo l’8 settembre 1943, operano in armi contro i tedeschi i Gruppi di Azione Patriottica (Gap), appartenenti al Partito Comunista d’Italia. In Friuli c’è la Divisione Garibaldi Natisone e i partigiani garibaldini, dal fazzoletto rosso, sono di orientamento politico soprattutto comunista. Altri partigiani agiscono col fazzoletto verde e sono le Brigate Osoppo Friuli (BOF), di orientamento cattolico, monarchico e laico-socialista. Tutta la resistenza armata dovrebbe dipendere dal Comitato di Liberazione Nazionale (Cln), con esponenti politici della Democrazia Cristiana, Democrazia del Lavoro, del Partito d’Azione, del Partito Repubblicano, del Partito Socialista, del Partito Liberale e del Pci. Il Cln esige che sia fatto un processo prima di ammazzare qualcuno imprigionato con l’accusa di essere fascista, ma certe bande garibaldine filo-titine non seguono tale dettame, oppure intentano processi farsa, senza avvocato difensore o peggio ancora. L’occupazione titina di Trieste dal 1° maggio al 12 giugno 1945 provoca la deportazione di alcune migliaia di italiani o la loro uccisione ed eliminazione nelle foibe limitrofe. L’occupazione slava di Gorizia causa 1.048 deportati, tra i quali oltre 900 risultano scomparsi, eliminati nelle foibe, nelle cave, nelle fosse anticarro o nei campi di concentramento titini (i gulag di Tito), come in quello di Borovnica, tra Idria e Lubiana.

Vari gappisti al termine della guerra fuggono dal Friuli e dal Veneto nella Jugoslavia di Tito, che si annette l’Istria, Fiume e la Dalmazia, ove permangono forti presenze di italofoni, nonostante le violenze titine. Nel 1946 Mario Toffanin “Giacca”, lo stragista di Porzùs, fugge a Capodistria, evitando il carcere successivo alla condanna comminatagli nel 1951 al processo della Corte d’Assise di Lucca. Nell’Istria titina riesce a trovare tutta quell’accoglienza, che sia collegato all’Ozna? Il 7 febbraio 1945 avviene l’eccidio di Porzùs, in Comune di Faedis (UD); è un tragico ammazzamento fra partigiani. Quel giorno, infatti, alle malghe di Porzùs, diciassette partigiani (tra cui una donna, loro ex prigioniera) della Brigata Osoppo Friuli (BOF), sono fucilati da parte di un gruppo di partigiani, in prevalenza giovani gappisti di San Giovanni al Natisone (UD) e dintorni, comandati, o per meglio dire, terrorizzati da “Giacca”. Ciò segna il punto massimo delle tensioni fra partigiani garibaldini (pro-titini sloveni) e le BOF, che invece difendevano l’italianità del territorio, contro l’espansionismo nazionalista iugoslavo. È il signor B.V. a riportarmi in merito certe notizie, il 22 giugno 2015. Si riferiscono a suo padre Antonio (nome di fantasia, per riservatezza). Piuttosto che i ragazzi sotto leva finissero nella Organizzazione TODT (a lavorare per i nazisti), o nella Milizia Difesa Territoriale dei fascisti, o peggio, nelle Waffen SS italiane, i partigiani se li portano dietro in bosco. Il racconto fatto da Antonio, il requisito dai partigiani garibaldini, continua così: “Si sapeva che Giacca voleva fare pulizia, allora, si veve plui pôre di lui che dai todescs (si aveva più paura di lui che dei tedeschi)”. Giacca è il nome di battaglia di Mario Toffanin (Padova 1912 – Sesana, Slovenia 1999), il comandante partigiano che, su mandato del Comando del IX Korpus sloveno e dei dirigenti della Federazione del PCI di Udine, effettuò le uccisioni a Porzùs. Sono loro stessi, i partigiani dal fazzoletto rosso, a parlare di pulizia, un lessico tipico dell’Ozna.

Volantino partigiano della Divisione Garibaldi Natisone inneggiante a Tito, mentre i titini a Trieste dal 1° maggio 1945 deportavano e uccidevano nelle foibe gli italiani

Pure certi gappisti attivi tra Palmanova e Cervignano del Friuli, con l’appellativo di Diavoli Rossi se la svignano in Jugoslavia, primo fra tutti il loro caporione Gelindo Citossi, poi pure Norberto Sguazzin e un certo “Tom”, di Mortegliano; essi “emigrano in Jugoslavia”, come ha scritto Francesca Artico. Alcuni di tali partigiani fuggiti in Istria, come “Giacca”, Mario Abram (partigiano rosso triestino), Nerino Gobbo (noto infoibatore) e Giuseppe Krevatin se la prendono coi preti italiani, minacciandoli e picchiandoli a sangue, come ha riportato il «Giornale di Trieste» del 23 novembre 1951. I Diavoli Rossi, in base a quanto scritto da Elio Bartolini nel romanzo storico Il Ghebo, sono crudeli e con scarsa disciplina (pp. 12 e 34), pronti a rubare camion pieni di roba durante la guerra da portare oltre il Collio, in quella che sarà la Jugoslavia di Tito, per far bella figura coi titini, che li hanno ben posti sotto il Comando militare del IX Korpus. Bartolini, che aveva partecipato alla Resistenza nella zona, spiega che gli slavi vorrebbero annettersi, oltre all’Istria, Fiume e Dalmazia, anche un pezzo di Friuli, fino al Tagliamento (Bartolini, pp. 55, 65 e 102).

Tutti questi partigiani rossi veneti e friulani hanno un’accoglienza fraterna tra i titini che hanno invaso l’Istria, Fiume e Dalmazia, forse perché erano collegati all’Ozna. Li aspetta, tuttavia, una brutta sorpresa. Nel 1948 Tito rompe i patti con Stalin e i titini vogliono fare piazza pulita dei cominformisti, dei comunisti storici e degli stalinisti iugoslavi e italiani, annessi, ospitati, oppure organici dell’Ozna. Ci sono arresti ed uccisioni fra comunisti a Fiume e a Pola. Allora certi partigiani italiani scappati prima nel “paradiso di Tito”, poiché rei di crimini in Italia, svicolano in Cecoslovacchia, perché neanche Tito li vuole più tra i piedi. Quelli che Tito riesce a fare arrestare, li deporta all’Isola Calva, o Goli Otok (Gilas, p. 259); in quel gulag patiscono e muoiono di stenti, come in ogni campo di concentramento delle dittature. Alcuni dei fuggitivi italiani in Cecoslovacchia, forse per la coscienza sporca, cambiano addirittura nome, imbrogliando sui documenti.

La strage al carcere di Schio, luglio 1945

L’eccidio di Schio (VI) è un’operazione stragista perpetrata da 15 partigiani comunisti nella notte fra il 6 ed il 7 luglio 1945. A guerra finita, senza processo alcuno, muoiono nel carcere di Schio 54 detenuti (tra i quali 14 donne), poiché considerati in parte, forse o del tutto fascisti. Dopo i colpi di mitraglia qualcuno chiama i soccorsi. Un primo gruppo di barellieri viene respinto e minacciato e solo successivamente i feriti vengono trasportati all’ospedale. Anche qui medici ed infermieri, dediti alla cura dei sopravvissuti feriti, subiscono continue minacce dai partigiani garibaldini.

Al processo condotto dagli angloamericani, tenutosi a Vicenza nel settembre del 1945, dalle testimonianze degli imputati, ossia cinque partigiani appartenenti al battaglione di polizia ausiliaria “Ramina Bedin” e dai verbali da essi rilasciati e firmati, emergono le responsabilità di comando dell’operazione. In base alle testimonianze dei sottoposti i nomi dei comandanti della strage sono: Igino Piva, detto “Romero”, Nello Pegoraro, “Guido” o “Nello” e Ruggero Maltauro, “Attila”, come ha scritto nel 2020 Giorgio Marenghi, in Eccidio di Schio: le novità. Oltre alla Corte alleata si deve aggiungere l’azione della magistratura italiana che convoca un processo in Corte di Assise a Milano nel 1952. Un solo imputato è in catene; si tratta di Ruggero Maltauro, mentre altri sette si sono già rifugiati all’estero, alcuni di essi in Istria, annessa dal 1947 alla Jugoslavia di Tito.

Tra la fine della guerra e nel dopoguerra l’Ozna è presente in Italia del Nord. I suoi agenti si mimetizzano nei gruppi partigiani comunisti o nelle grandi città; osservano e prendono nota. Il loro obiettivo si lega allo sciovinismo-nazionalista di Tito, allargare l’area territoriale fino a superare Isonzo e Tagliamento, far pesare il ruolo militare dell’Esercito Popolare di Liberazione iugoslavo il più possibile quando sarà il momento di sedersi attorno ad un tavolo della pace, Alleati permettendo.

Quando scoppia la guerra civile spagnola Igino Piva è nelle Brigate Internazionali. Non si risparmia, il suo fisico resta segnato per sempre dalla battaglia di Guadalajara e da quella dell’Ebro. In Spagna conosce e stringe amicizia con una nota figura del comunismo, Vittorio Vidali, un personaggio scomodo, ma anche una testa politica con cui Piva fatica a confrontarsi. A luglio del 1944 Piva diventa comandante dei gruppi GAP nella provincia padovana. Questo impegno lo assorbe fino al dicembre del 1944 quando cambia nuovamente zona. Dal Veneto, su incarico dei vertici del PCI, giunge in Val D’Ossola per una missione partigiana sia militare che d’intelligence. Il caos del mese di aprile 1945 vede il Piva riparare a Milano dove svolge un compito decisamente stragista. Collabora, ma soprattutto dirige decine di fucilazioni con centinaia di morti, tra i prigionieri fascisti e i borghesi in odore di fascismo. Poi, finita la guerra, Piva torna in Veneto divenendo niente meno che dirigente dell’Ufficio investigativo della polizia ausiliaria partigiana, una pulita etichetta che nasconde solo la voglia di spremere notizie ai fascisti incarcerati. È in tal contesto che organizza il cruento assalto alle carceri di Schio del 6 luglio 1945.

La fuga in Istria

Poi, consapevole di ciò che ha comandato, Piva fugge nell’Istria da poco iugoslava. Non è solo un esilio, un approdo per un bisogno immediato di sottrarsi alla cattura degli angloamericani che lo vanno a cercare in Trentino. A Fasana, presso Pola, c’è la sede delle operazioni speciali che l’Ozna prepara per l’Alta Italia e per Roma. In quel mentre Piva incrocia sul suo cammino Vittorio Tinelli, un comunista friulano.

Il 1° agosto 1945 Igino Piva, assieme a Nello Pegoraro, è già a Capodistria e ha incontri con ufficiali del IX Korpus titino. Si noti che il territorio controllato dagli iugoslavi, aldilà del TLT, vede gli italiani in una situazione delicata. Italiano vuol dire esodo dall’Istria verso il TLT e Monfalcone, in Italia. Nel periodo in cui Piva inizia a muoversi in Istria avviene una ristrutturazione importante dei servizi segreti jugoslavi. Gli italiani sono malvisti dai titini. Come mai Piva riceve un’accoglienza coi fiocchi, e addirittura sale al comando, se non è collegato all’Ozna? Egli è accolto a braccia aperte, riverito, onorato e indirizzato a Pirano con il grado di comandante della Difesa Popolare della cittadina dell’Istria, nella Zona B del TLT, sotto controllo slavo. Anche gli altri seguaci vengono inglobati nella stessa struttura, ma per breve tempo. Igino Piva, oltre al Comando della Difesa Popolare di Pirano diventa anche membro del Comitato Distrettuale del Partito Comunista della Regione Giulia (Pcrg). È una costola del PCI che, basandosi dell’appoggio dell’intero Comintern, sosteneva che nel dopoguerra il problema dei confini avrebbe dovuto essere risolto a livello internazionale. Quindi il Pcrg è un partito nuovo che sostiene la fusione della comunità italiana con quella slava per aderire agli ordinamenti politici del comunismo di Tito.

Piva, nel 1945 sceglie la linea di Tito che si basa sull’espulsione graduale dell’elemento italiano, ma la sua gloria non dura molto. Il 3 dicembre 1946, viene espulso dal Pcrg “per aver sposato una donna non adatta, una ragazza piranese di ottima famiglia, dalla quale ebbe una figlia” (Cfr. Marenghi che cita M. Bonifacio, p. 57). Nel 1947 Piva lascia il comando della Difesa Popolare, si trova un lavoro e si prepara a una nuova fuga. Quando nel 1948 il Comintern bolla come “eretico nazionalista” Josip Broz Tito, Igino Piva, aiutato da Vittorio Vidali, comunista triestino, attraversa il confine iugoslavo, passa in Ungheria e poi in Cecoslovacchia. Dell’accordo con l’Ozna non gli rimangono neanche le briciole.

Conclusioni

I fatti dell’esodo giuliano dalmata e dell’uccisione nelle foibe dovevano restare nascosti perché c’era la Cortina di ferro, da Danzica a Trieste. Come disse Winston Churchill, nel marzo 1946, a separare l’Europa in due sfere politiche, una sovietica e l’altra angloamericana c’è la Cortina di ferro. In piena Guerra fredda e con le spie di tutto il mondo che ronzavano tra Trieste, Tarvisio e Gorizia non si doveva scomodare Tito, capo della Federativa Repubblica di Jugoslavia, che si stava staccando politicamente da Mosca e da Stalin, mentre gli agenti dell’Ozna gironzolavano nel Nord Italia e a Roma con i loro obiettivi.

La “Odeljenje za Zaštitu Naroda” (Ozna) è la sigla che significa: Dipartimento per la Sicurezza del Popolo. C’è una seconda versione che così spiega la sigla: “Oddelek za zaščito naroda”; letteralmente: Dipartimento per la protezione del popolo. Era parte dei servizi segreti militari iugoslavi e fu attiva dal 1944 fino al 1952. L’organizzazione titina, programmata da Tito e Milovan Gilas, era dotata di carceri proprie e attuava requisizioni, vessazioni ed addirittura ha programmato la pulizia etnica a Pola contro gli italiani. La pianificazione delle uccisioni di italiani in Istria, Fiume e Dalmazia per mano titina è stata documentata da Orietta Moscarda Oblak nel 2013, a pp. 57-58 di un suo saggio (vedi in Bibliografia). Agenti dei servizi segreti di Tito negli anni ‘50 si infiltrano perfino nei Centri raccolta profughi (CRP) sparsi in Nord Italia per carpire notizie sui rifugiati e per altre operazioni di stampo terroristico nelle città. Dal 1946 al 1991 la polizia segreta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia diviene “Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti” o Udba; letteralmente: “Amministrazione Sicurezza Statale”. Processato e incarcerato da Tito, dal 1954 al 1966, come dissidente lo stesso Milovan Gilas, nel 1991, riguardo all’Istria del 1945-‘46, dichiarò al giornalista Alvaro Ranzoni, del settimanale italiano «Panorama»: “Gli italiani erano la maggioranza solo nei centri abitati e non nei villaggi. Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto”. Gravi dichiarazioni mai smentite quelle di Gilas, che fu segretario del Komunisticna Partija Iugoslavije (Partito comunista iugoslavo); egli ammise inoltre in un suo noto memoriale che in Jugoslavia gli “arresti effettuati al di fuori della legge, come in tempo di guerra, continuavano a essere la pratica corrente” (Gilas, p. 12).

La Società di Studi Fiumani di Roma ha documentato nell’opera bilingue (italiano e croato) – Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni, pubblicata nel 2002 a cura di Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski e presentata a Roma e a Zagabria, come andarono le cose dopo l’avvento della nuova dittatura comunista iugoslava. Sono oltre 580 le persone uccise a Fiume dalla polizia segreta dell’Ozna a guerra finita, senza umana giustizia. L’Ozna operò fino al 1952, assieme all’Udba, che poi prese le redini dei servizi segreti titini. La gente continua a chiamare le spie di Tito: quelli dell’Ozna.

Bibliografia e sitologia

  • Francesca Artico, “Morto ‘Ferro’, partigiano dei Diavoli Rossi”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Cervignano Latisana Bassa, 19 aprile 2020, p. 37.
  • Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski (a cura di / uredili), Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1947) / Žrtve talijanske nacionalnosti u Rijeci i okolici (1939.-1947.), Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per gli Archivi, 2002; anche nel web.
  • Elio Bartolini, Il Ghebo, Udine, La Nuova Base, 1970.
  • Mario Bonifacio, “La seconda resistenza del CLN italiano a Pirano d’Istria 1945-1946”, «Quaderni di Quale Storia» n. 15, Trieste, 2005.
  • “La criminosa impresa organizzata dopo un invito al ‘popolo’ ad agire contro il clero”, «Giornale di Trieste», 23 novembre 1951.
  • István Deák, Europe on Trial. The Story of Collaboration, Resistance, and Retribution During World War II, Boulder, CO, Westview Press, 2015, traduzione ital. di Maria Luisa Bassi: Europa a processo. Collaborazionismo, resistenza e giustizia fra guerra e dopoguerra, Bologna, Il Mulino 2019.
  • Milovan Gilas, Se la memoria non m’inganna… Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962, (ediz. originale: Vlast, London, Naša Reč, 1983), Bologna, Il Mulino, 1987.
  • Orietta Moscarda Oblak, “La presa del potere in Istria e in Jugoslavia. Il ruolo dell’OZNA”, «Quaderni del Centro Ricerche Storiche Rovigno», vol. XXIV, 2013, pp. 29-61.
  • O.Z.N.A.: La mano segreta di Tito, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Della P.S. – Divisione S.I.S., Roma, 19 novembre 1946,  consulenza di Aldo Giannuli, Università di Milano; nel sito web storiaveneta.it
  • Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria. Chi imprigiona la verità sulla guerra civile, Sperling & Kupfer, 2007.
  • Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati-Boringhieri, 1991.
  • Paolo Radivo, La strage di Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive, Libero Comune di Pola in esilio, «L’Arena di Pola», 2016.
  • Alvaro Ranzoni, “Se interviene anche l’Islam”, «Panorama», 21 luglio 1991.
  • Luciano Santin, “Quando i titini se la presero con il capo garibaldino Sciovinista italiano”, «Messaggero Veneto», 19 giugno 2020, p. 38.
  • Bruno Vespa, Vincitori e vinti. Le stagioni dell’odio delle leggi razziali a Prodi a Berlusconi, Milano, Mondadori, 2005.

Messaggi dal web

Giuseppe Ritschl, di Torino, figlio di esuli che vive a Senigallia (AN), il 9 giugno 2020, nel gruppo Anvgd Arezzo di Facebook, ha scritto: “Mio padre mi raccontò che agli inizi degli anni ‘70 componenti dell’Ozna erano presenti nel posto di lavoro a Torino; li riconobbe perché erano compaesani al servizio degli Slavi.

Giorgio Hervato, lo stesso giorno, ha aggiunto: “Dai racconti di mio padre, erano peggio gli stessi paesani italiani dichiarati partecipanti dell’Ozna che gli stessi slavi; sempre dai racconti, la peggior specie erano i comunisti italiani di lingua slava passati alla parte di Tito”.

Servizio giornalistico, di ricerca e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Copertina: La banda dei Diavoli rossi; archivio ANPI Udine. Fotografie da collezioni private e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Massacro gappista del Ghebo, in Friuli e i poliziotti di Udine al lager, 1944-’45

L’uccisione di persone inermi da parte dei partigiani spesso non è passata alla storia. La retorica partigiana del dopoguerra è orientata ad esaltare solo certe vicende, tacendone invece quelle troppo scomode, come hanno scritto Giampaolo Pansa e Andrea Zannini. Questo non è stato un buon servizio alla storia della Resistenza che, a detta di molti autori, ha come principale merito quello di aver contribuito, con gli alleati, alla sconfitta dei nazisti.

La notizia sul massacro gappista del Ghebo risale al 21 novembre 2013. I gappisti sono i Gruppi di Azione Patriottica, appartenenti al Partito Comunista d’Italia. Quel giorno sul «Messaggero Veneto» compare un commento del signor Renzo Piccoli intorno al dibattito apertosi nella Bassa friulana sull’intitolazione di una strada a un capo partigiano. Il titolo del brano è “Quel partigiano tanto osannato sotto Natale ha ucciso mio padre”. Il partigiano da ricordare sarebbe Gelindo Citossi (1913-1977) di San Giorgio di Nogaro, nome di battaglia Romano il Mancino, il cui covo era nel Casale Papais, pare nel Codroipese. Detto Citossi, al comando dei Diavoli rossi, partigiani garibaldini, è celebre per l’assalto al carcere di Udine travestiti da tedeschi, un’arrogante azione che ebbe risonanza fino all’estero. Accadde il 7 febbraio 1945, anche se di scarso profitto bellico, l’operazione fa liberare 73 detenuti, ma vengono uccisi due poliziotti giudiziari. Ciò provoca la rabbiosa rappresaglia nazista con la fucilazione di 23 partigiani e ostaggi sul muro del Cimitero di Udine. I nazisti attuano tale dura rappresaglia, come ci si poteva aspettare avendo un briciolo di tattica militare. Si tenga conto poi che tra i poliziotti di Udine c’è un sentimento badogliano e, addirittura, come riferito da don Emilio De Roja, ci sono questurini che passano ai preti atti di liberazione firmati in bianco, per far uscire proprio i detenuti partigiani, in barba ai tedeschi (vedi in bibliografia: Don Emilio 1992, p. 41). Proprio dei questurini di Udine vicini alla Resistenza ne riparleremo più sotto.

Qualche autore ha rilevato la coincidenza della data scelta da Romano il Manzin, comandante dei Diavoli Rossi. Il 7 febbraio è lo stesso giorno dell’eccidio di Porzùs, Comune di Faedis (UD), anzi sembra fatto apposta per oscurare quel triste ammazzamento fra partigiani. Il 7 febbraio 1945, infatti, alle malghe di Porzùs, diciassette partigiani (tra cui una donna, loro ex prigioniera) della Brigata Osoppo Friuli (BOF), di orientamento cattolico, monarchico e laico-socialista, sono fucilati da parte di un gruppo di partigiani, in prevalenza gappisti di San Giovanni al Natisone (UD) e dintorni. Ciò segna il punto massimo delle tensioni fra partigiani garibaldini (pro-titini sloveni) e le BOF, che invece difendevano l’italianità del territorio, contro l’espansionismo iugoslavo.

Copertina del romanzo di Elio Bartolini

Ritorniamo al massacro del Ghebo, termine dialettale per un canale d’acqua nei pressi di Codroipo (UD). Tale parola è utilizzata sia nella Bassa friulana (vedi: Corso Regeni) che nel vicino Veneto. La notizia della nuova intitolazione stradale al suddetto partigiano “mi ha toccato nel profondo – ha scritto Renzo Piccoli – e più di un pensiero ho rivolto a mia madre e mia sorella, che non ci sono più, per il fatto che questo ‘eroe’ partigiano garibaldino, è stato autore di un episodio per me malvagio, commesso in nome della Resistenza. Dopo settanta anni, lungi da me l’idea di alimentare polemiche, desidero ricordare l’episodio che ha visto protagonista l’eroe che ha sconvolto e distrutto la mia famiglia. Il fatto è avvenuto il 16 dicembre 1944, protagonista quel tale, incensato con una pubblicazione e addirittura con un brano musicale”. Renzo Piccoli è nato a Fiume nel 1937 da Firminio e Vittoria Simeoni “dove mio padre friulano si era recato a lavorare nel locale silurificio negli anni ‘20 e nel 1943 vedendo tempi bui spinse mia madre a rientrare in Friuli a Segnacco di Tarcento con i bambini presso i nonni”.

Firminio Piccoli resta a Fiume e diventa autista personale dell’ingegnere capo del Genio civile dell’Istria e Dalmazia, viene militarizzato con il compito di guidare un camion a gasogeno che fa la spola tra Fiume, il Friuli e il Veneto per trasportare generi alimentari. I prodotti sono destinati alla popolazione civile da distribuirsi con la tessera annonaria, come emerge dal Dossier Firmino Piccoli, fornitomi dallo stesso Renzo Piccoli, nel 2019.

In occasione delle feste natalizie 1944, in viaggio nel Basso Friuli, l’autista Piccoli, in abiti civili, “è stato intercettato dalla banda di partigiani garibaldini sulla strada che da San Martino di Codroipo conduce al paese di Lonca, nei pressi di Villa Manin di Passariano – continua lo scritto di Renzo Piccoli sul «Messaggero Veneto» –. Qui i partigiani, rubato o requisito il carico, considerato un esproprio proletario, hanno ucciso mio padre (36 anni) e il suo aiutante, addetto alla legna nella caldaia del gasogeno, lasciandoli stesi nell’acqua delle Risorgive. Di questo eccidio non si è avuto riscontro nei giornali di allora, ma si trova traccia in una pubblicazione con l’elenco delle vittime della Resistenza. Negli anni ‘60 mi sono attivato per conoscere meglio il fatto e il luogo: sono venuto a sapere da un fattore, che lavorava i terreni di proprietà Kechler, che, giunto primo sul luogo, ha scoperto i cadaveri avvertendo le autorità comunali di Codroipo”.

Renzo Piccoli, oltre ad avere alcune testimonianze di partigiani locali, come l’osovano Marco Cesselli, ha anche un contatto con lo scrittore Elio Bartolini, che aveva partecipato alla Resistenza nella zona. “Bartolini – prosegue lo scritto di Piccoli – nel suo primo libro descrive sia il luogo, chiamato con il titolo ‘Il Ghebo’, sia le gesta del capo partigiano, che chiama ‘Il monco’, crudele, feroce, spietato nelle sue scorrerie con i suoi seguaci, giovani attratti dalla sua personalità e intraprendenza, ma nulla della sorte di mio padre. A me è rimasta l’amarezza per l’episodio: sopprimere a freddo, due vite, due padri di famiglia, per poi festeggiare con i generi alimentari. Mi permetto infine di ricordare, che allora, tre fratelli di mio padre si recarono nel cimitero di Codroipo per ritirare la bara con un triciclo. Impiegarono tre giorni ad arrivare nella casa dei miei nonni. Il funerale si è svolto la vigilia dell’ultimo Natale di guerra. Ricordo ancora bene, io (6 anni) e mia sorella (14 anni), soli, perché la mamma era disperata e sconvolta, dietro la bara di mio padre che era portata a spalle da uomini anziani del paese, arrancando sulla salita al cimitero di Sant’Eufemia. Questa è la tragedia di cui è stato capace tale che alcuni intendono osannare, mentre lui è subito fuggito in Jugoslavia con i suoi rimorsi. Caro direttore, mi creda, per la mia famiglia è stato un dramma. Ringrazio per l’ospitalità. Renzo Piccoli, Udine”.

Si può aggiungere che i tre fratelli Piccoli con la bara del congiunto Firmino sul triciclo nel viaggio di tre giorni da Codroipo a Segnacco di Tarcento hanno rischiato non poco con i cacciabombardieri anglo-americani che dominavano i cieli del Friuli. Si fa solo un cenno conclusivo alla famiglia sconvolta dall’eccidio del Ghebo. La mamma di Renzo, Edda Piccoli, rimasta vedova, mette in collegio i figli e emigra in Svizzera per lavorare in una fabbrica di calze femminili. Renzo Piccoli si diploma geometra all’Istituto “A. Zanon” nel 1956. Lavora presso studi tecnici della città, poi vince un concorso in Provincia e lavora anche all’Istituto Autonomo delle Case Popolari, fino al pensionamento.

Fiume, 1945, esodo. Luciana Stella commenta: “In primo piano, il secondo da destra, mio zio materno Livio Fantini, anche lui se ne sta andando, insieme ad altri esuli fiumani, spingendo un carretto: “Nello spingere quel carretto, non sapevo se ridere o piangere. Ridere perché ero contento di andare via, ovunque, con la speranza di ricominciare una vita nuova, piangere per la paura di non ritornare più nella mia cara Fiume”. Foto tratta dal libro di storia ed emigrazione dal titolo: Per l’Australia, scritto da Julia Church e la collaborazione di Pino Bartolomè. Grazie a Luciana Stella, di Milano, che ha scritto in Facebook il 6 febbraio 2020, tale messaggio.

Le sanguinarie gesta dei Diavoli rossi

Paolo Barbaro, negli anni ’80 del Novecento descrive in una serie di racconti la vita nella pianura veneta tra vari corsi d’acqua (Brenta, Bacchiglione, Zovòn, Ceresone…). Sono storie contadine di famiglie numerose, dove otto di dodici cugini “con la giusta età erano distribuiti fra Albania, Grecia, Croazia Africa e Russia…”. Oltre alle guerre fasciste e ai conseguenti morti lo scrittore non va. Si occupa molto di emigrazione in un clima di umile saga padana. Paolo Barbaro pubblica così Storie di Ronchi nel 1993.

Chissà perché il romanzo storico di Elio Bartolini, ambientato nella primavera del 1945 e intitolato Il Ghebo, sulle gesta dei partigiani gappisti tra Codroipo e Palmanova, scritto nel 1946, invece fu respinto dalla pubblicazione da Elio Vittorini? Trova un editore solo nel 1970 a Udine, lontano dalle piazze culturali nazionali, ancora intente ad incensare i partigiani in base ad una linea unidirezionale, indiscussa ed indiscutibile.

Forse perché Bartolini, partigiano egli stesso nel Basso Friuli, è uno che parla chiaro. Accenna all’eccidio di Porzùs, pur non nominandone il sito (vedi Il Ghebo, pagg. 55 e 88). Descrive egli l’uccisione di partigiani effettuata da altri partigiani, per assecondare l’espansionismo iugoslavo. È troppo politico, come ha rilevato furbescamente Elio Vittorini, dopo aver letto le bozze di una stampa poi da lui stesso bloccata.Ècritico nei confronti di una spietata banda partigiana, quella comandata da Il Monco, facilmente individuabile in Romano il Mancino. Come si muovono costoro e cosa fanno? Nelle 150 pagine del romanzo si nota che detti partigiani sono spesso ubriachi (pp. 10, 37, 38 e 51) sia alla Cartera, sede delle loro operazioni, che in altri luoghi. Sono crudeli e con scarsa disciplina (pp. 12 e 34), ben pronti a fregare camion pieni di roba da portare oltre il Collio, in quella che sarà la Jugoslavia di Tito, per far bella figura coi titini, che li hanno ben posti sotto il Comando militare del IX Corpus. Bartolini spiega che gli slavi volevano annettersi, oltre all’Istria, Fiume e Dalmazia, anche un pezzo di Friuli, fino al Tagliamento (pp. 55, 65 e 102). Spietati e sanguinari, detti partigiani sono pronti a fucilare senza processo dei civili con la presunta accusa di spionaggio, andando contro le disposizione del Comitato di Liberazione Nazionale, il CLN (p. 61) o addirittura i loro stessi compagni  di battaglia fuggiti dopo che il mitragliatore si inceppa (p. 117). È gente pronta a fare la leva obbligatoria tra Palmanova e Codroipo, come gli Sloveni nel Collio (p. 85). Rubano oggetti ai cadaveri (p. 101) e sono pronti nell’accusare gli altri di far borsa nera, mentre loro stessi hanno dei magazzini pieni di ogni ben di dio (pp. 9 e 97). Sono così mal preparati militarmente che nei loro magazzini pieni di roba rubata non sanno nemmeno mettere qualcuno di guardia (p. 139).

Vari gappisti al termine della guerra fuggono nella Jugoslavia di Tito. Nel 1946 anche Mario Toffanin “Giacca”, lo stragista di Porzùs, se la svigna a Capodistria, evitando il carcere successivo alla condanna comminatagli nel 1951 al processo della Corte d’Assise di Lucca. Pure certi Diavoli Rossi se la mocano in Jugoslavia, primo fra tutti il loro caporione Gelindo Citossi, poi pure Norberto Sguazzin e un certo “Tom”, di Mortegliano; “emigrano in Jugoslavia”, come ha scritto Francesca Artico. Alcuni di tali partigiani fuggiti in Istria, come “Giacca”, Mario Abram (partigiano rosso triestino), Nerino Gobbo (noto infoibatore) e Giuseppe Krevatin se la prendono coi preti italiani, minacciandoli e picchiandoli a sangue, come ha riportato il «Giornale di Trieste» del 23 novembre 1951. Poi quando i titini vogliono fare piazza pulita dei cominformisti, dei comunisti storici e degli stalinisti, certi partigiani italiani scappati nel “paradiso di Tito” svicolano in Cecoslovacchia, perché neanche Tito li vuole più tra i piedi. Quelli che riesce a beccare li deporta all’Isola Calva (Goli Otok) dove patiscono e muoiono di stenti, come in ogni campo di concentramento. Alcuni dei fuggitivi in Cecoslovacchia, forse per la coscienza sporca, cambiano addirittura nome, imbrogliando sui documenti.

Ci sono poi comandanti partigiani della Divisione “Garibaldi-Natisone” assassinati dai loro stessi compagni. È successo il 30 aprile 1945 a Leo Scagliarini con un colpo alla nuca a Rizzolo di Reana del Rojale (UD). Pur essendo un democratico libertario, egli si aggrega nel 1944 alla brigata “Picelli”, col nome di battaglia “Ricciotti”, perché erano le unità più robuste per combattere i nazifascisti, ma con la metà di gennaio 1945 finiscono sotto il comando del IX Corpus titino. La spiegazione fornita dai partigiani invece narra di una morte per il fuoco amico di un aereo da caccia inglese che mitraglia una colonna di partigiani e l’autovettura con dentro “Ricciotti” il 29 aprile. Pare che l’assassino sia stato lo stesso “Giacca”, molto ostile a “Ricciotti”, che intendeva liberare Udine il 1° maggio con le bandiere tricolori e non con quelle rosse dei comunisti. Su tale eliminazione non è mai stata aperta un’indagine giudiziaria, come ha scritto Pansa (pp. 291-315).

Mario Savino, vice commissario di Polizia a Udine, 1944. Fotografia famiglia Savino

Mario Savino, vice commissario di polizia a Udine e i suoi colleghi 1944-1945

Parliamo ora di un poliziotto che lavorava a Udine nel 1944-1945. È un milite italiano che “conobbe gli orrori di Dachau, Ebersen e Mauthausen”, come si legge sul quotidiano «Libertà» 13 marzo 1946. Si tratta di Mario Savino, vice commissario di Pubblica Sicurezza a Udine. Catturato dai nazisti con l’accusa di collaborazione col movimento partigiano, fu deportato nei lager dove trovò la morte. “Non piangere, che tanto tornerò” – disse dal vagone bestiame alla fidanzata a Udine, mentre lo stavano portando via, assieme a un gruppo di alcuni suoi colleghi poliziotti. La fidanzata, la signora V., nata nel 1924 a Tarvisio, intendendo la lingua tedesca, venuta a conoscenza su dove si trovasse, non si perse d’animo e volle raggiungerlo, assieme ad una sorella, per portargli un pacco di vestiario e di viveri, come ha raccontato Clelia Savino. Il vice commissario aveva chiesto alla fidanzata un pacco di farina di carrube, forse per avere qualcosa di molto nutritivo, con buone calorie (tra il 50 e il 60% di zucchero) e di facile assimilazione in prigionia.

La signora V. e la sorella giunsero fino al Campo di concentramento di Ebersen, sotto-campo di Mauthausen. Trovato un tizio che lavorava nel campo stesso, furono consigliate di andare via, altrimenti avrebbero preso pure loro. Lasciarono il pacco, ma non seppero più nulla del dottor Mario Savino, cui dal 2005 è dedicata una lapide nel cortile della Questura di Udine, assieme ad altri otto funzionari e poliziotti sterminati nei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald. Mario Savino era nato a Pozzuoli (Napoli) nel 1914 e morì a Mauthausen il 15 marzo 1945.

Lapide nel cortile della Questura di Udine, in viale Venezia in ricordo dei poliziotti deportati e massacrati nei lager nazisti. Fotografia famiglia Savino

Un altro fatto sconvolgente coinvolge la famiglia della signora V., che gestiva l’albergo “Trieste” a Tarvisio, coma ha raccontato Fulvia Zoratto. Il giovane fratello della signora V., essendo stato riformato per problemi cardiaci alla chiamata alle armi, si trova a lavorare dietro il bancone della ditta di famiglia dopo il 1943. Un giorno entrano un gruppo di soldati tedeschi, ai quali il barista tarvisiano risponde gentilmente in lingua tedesca. A un ufficiale non va giù che un giovane così solerte non sia a combattere per il grande Reich, così si mette a canzonare il ragazzo del bar. Ad un certo punto, presa in mano la pistola, l’ufficiale lo minaccia puntandogliela alla tempia. Colto dal panico, il giovane fratello della signora V. muore d’infarto, davanti al bullo, ma esterrefatto ufficiale tedesco. La notizia crea scalpore in tutto il paese, andando a scalfire il buon rapporto che i soldati di Hitler tentavano di instaurare nella Valle tedescofona, oltre che italofona e slovenofona.

Lapidi da correggere

L’ultima notazione riguarda il motivo per cui lo Sicherheitsdienst (SD), servizio segreto delle Waffen SS, il 22 luglio 1944 fa circondare da un plotone di soldati tedeschi la Questura di Udine, che allora ha sede in via Treppo per arrestare circa 30 poliziotti, alcuni dei quali deportati nei lager. Tutto è dovuto al ritrovamento di una lista di dirigenti e poliziotti compromessi con la Resistenza, vergata secondo le informazioni di Guglielmo Iacuzzi, di Sedegliano. Come ha scritto Bruno Bonetti, tale Iacuzzi, già al servizio della SD germanica a Udine, in quanto doppiogiochista passa alle formazioni partigiane. Dal marzo 1944 Iacuzzi è a capo dell’Ufficio SD 1724 di via Lovaria 4, che poi cambia sede in via Montenero 4, disponendo di oltre 15 uomini alle sue dipendenze ed essendo in contatto con altri servizi segreti (Bonetti, p. 68-77). Quindi lo spione, nella veste di partigiano tarocco viene arrestato e fucilato al carcere il 10 dicembre 1944 in via Verdi, assieme ad altri tre patrioti veri. Incredibile che una lapide a ricordo della fucilazione dei quattro detenuti sia ancora lì integra, compreso il nome del doppiogiochista, nonostante si sappia dalla recente ricerca storica che Iacuzzi sia una volgare spia infiltrata tra i partigiani.

Udine, via Verdi, lapide in ricordo di 4 partigiani uccisi dai nazisti, tra i quali c’è ancora il nome di Iacuzzi, spia dello Sicherheitsdienst (SD), il servizio segreto delle Waffen SS

Spari al carcere di Via Spalato a Udine

Tra i luoghi di detenzione a Udine c’era il carcere di Via Spalato, oltre alle celle del tribunale di Via Treppo, davanti al quale furono fucilati quattro partigiani, come il giovane Antonio Friz “Wolf”, di Pontebba, più precisamente “in vie de Roe”, ossia al civico n. 30 di via Verdi, dove scorre la roggia. Sul muro del tribunale fu posta una lapide, che ricorda i quattro partigiani lì fucilati, tra i quali appunto Friz e una spia.

A livello popolare la prigione cittadina era detta “Al Grande Albergo di Via Spalato”, come ha scritto Plinio Palmano, incarcerato nel luglio 1944. Il carcere era per 250 posti, ma erano reclusi centinaia di individui, in attesa di essere trasferiti ai Campi di concentramento nazisti. Palmano cita il maresciallo delle Waffen SS Hans Kitzmüller, che compì il voltafaccia, facendo liberare alcuni reclusi fra i quali “Verdi” [Candido Grassi], “Mario” [Manlio Cencig] e altri (p. 100). Ecco il numero dei detenuti passati per il carcere di Via Spalato a Udine tra l’8 settembre 1943 e la fine di aprile 1945. Vedi la tabella n 1. Per i nomi dei comandanti partigiani si è visto il libro di Primo Cresta.

Tabella n. 1 –  Detenuti entrati al carcere di Udine, 1943-1945

Condannati a morte (sentenza eseguita)                 98

Deportati in Germania                                           7.414

Deportati per lavori dalla TODT                              753

Rimessi in libertà                                                    1.647                

TOTALE                                                                 9.912

Fonte: Plinio Palmano, “Al Grande Albergo di Via Spalato”, «Avanti cul Brun!», 1946, p. 106.

Oltre a via Spalato e al carcere del tribunale di via Treppo, le Waffen SS avevano altre prigioni per interrogatori nelle case requisite agli udinesi. Ad esempio “in una villa sulla strada per Tricesimo da piazzale Osoppo – ha detto Franco Pischiutti – nell’attuale viale Volontari della Libertà [allora viale Principe Umberto], ci fu un comando delle Waffen SS”. Lo stabile è a sinistra dopo i moderni condomini; lì si dice che siano stati torturati e uccisi certi prigionieri dai tedeschi e, forse, sepolti in loco. Ne fa cenno la Carta della Gestapo, pubblicata dall’ANPI di Udine nel 2019; in genere non si sa che il documento originario di tale mappa era nelle mani dell’onorevole Lorenzo Biasutti, dimenticato da qualcuno nella osteria Alla Buona Vite di via Treppo, poi fu consegnata al professor Luigi Raimondi Cominesi, che la studiò a lungo. Che la villa di viale Principe Umberto “della famiglia Agostinelli” fosse un comando tedesco lo scrive Bruna Sibille Sizia, a pag. 125, del suo libro intitolato Diario di una ragazza della Resistenza. Friuli 1943-‘45.

Poi si sa che: “Le Waffen SS avevano un comando a Udine sud – ha aggiunto Franco Pischiutti – so che in via San Martino avevano occupato la villa Elisa, proprietà di ebrei rifugiatisi in Veneto, per sfuggire alle deportazioni naziste. Certi Gentilli si erano rifugiati clandestini a Gemona del Friuli presso la famiglia Cesarino Sabidussi”. Che cosa dicevano i vecchi udinesi dei tedeschi? “Si è saputo che i nazisti a Udine cercavano gli ebrei possidenti per derubarli, prima della deportazione nei lager – secondo le fonti del quartiere – questi gerarchi tedeschi chiedevano agli ebrei di Udine e dintorni se potessero pagare con denaro, gioielli, oro ed altri valori così avrebbero avuto una specie di salvacondotto per salvare la pelle, ma poi li avrebbero comunque fatti deportare nei Campi di concentramento”.

Oltre alle testimonianze, si sa dal libro di Fölkel, che a Udine, in via San Martino, dal mese di dicembre 1943 funziona l’Abteilung R/3, alle dipendenze di Franz Stangl, in collegamento alle Waffen SS ucraine di stanza a campo di concentramento triestino di San Sabba, con servizi anche a Castelnuovo d’Istria. Il gruppo specializzato nella cattura di ebrei nella zona di Fiume è l’Abteilung R/2, sotto il comando di Reichleitner. Ogni comando d’azione Reinhard (Aktion Reinhard) agisce tra Carso, Friuli ed Istria con retate, fucilazioni e impiccagioni. È suddiviso in tre gruppi: a Trieste, San Sabba c’è l’Abteilung R/1, a Fiume l’Abteilung R/2 e a Udine  l’Abteilung R/3 (Fölkel p. 53, 56, 123).

Certe fonti riferiscono che davanti al carcere di via Spalato, dove erano reclusi sospetti partigiani, ebrei e militari italiani in attesa della deportazione, ci fossero dei fascisti in abiti civili che, per intimidire, sparavano alle spalle delle donne che portavano vestiti puliti e cibo ai prigionieri. In carcere tra i partigiani rastrellati, c’è Luigi Barbarino, Matiònow (Resia 1914 – Flossembürg 1945). Era egli un appartenente al “Rozajanski bataljon”, collegato al IX Korpus di Tito dell’Osvobodilna Fronta – Fronte di Liberazione della Jugoslavia, con i capi venuti dalla Slovenia interna. Fu catturato a Resia dai nazisti, per una delazione e morì nel lager, per le ripetute percosse. “Ce lo raccontava sempre la zia Anna Valente – ha detto Lucillo Barbarino – che certi civili le sparavano alle spalle, per farle paura, gridando: ‘partigiana, partigiana’; la zia abitava in via Cisis e portava una gavetta di minestra a mio padre Luigi Barbarino. Lei e mio zio Odorico Valente aiutavano sempre la gente di Resia, che scendeva in treno dal paese in pianura a cercare cibo e aiuti vari. Ricordo che nel dopoguerra, mentre ritornavo a casa a Resia dal collegio di Cividale del Friuli per la domenica, vedevo salire in treno da Tricesimo a Gemona del Friuli le donne resiane, di Chiusaforte e di Pontebba con lo zaino pieno e il sacco di farina; erano andate a chiedere la carità ai friulani dei paesi, oppure scambiavano un po’ di noci, mele, o facevano qualche lavoro nei campi per avere roba da mangiare. C’era tanta fame e la gente dei paesi ci ha aiutato molto”.

Cimeli della Seconda Guerra mondiale. Bustina partigiana (titovka), Collez. di un resiano, elmetto italiano, gavetta italiana (piccola), gavetta di alpino (grande), borraccia americana e tascapane italiano. Coll. private Udine

Documenti originali

Renzo Piccoli, Dossier Firmino Piccoli, Udine, 18 marzo 2019, cc. 5, ms.

Fonti orali

Interviste effettuate da Elio Varutti con penna, taccuino e macchina fotografica a Udine. Lucillo Barbarino, Matjònawa, (Resia 1941), int. telefonica del 23 aprile 2020.

Renzo Piccoli, Fiume 1937, intervista del 18 marzo 2019.

Franco Pischiutti, Gemona del Friuli 1938, int. del 5 febbraio 2020.

Clelia Savino, Udine 1946, int. del 27 ottobre 2016.

Fulvia Zoratto, Udine 1950, int. del 19 marzo 2019.

Collezioni familiari. Lucillo Barbarino, Resia (UD), bustina partigiana 1944.

Giorgio Gorlato, esule da Dignano d’Istria a Udine, fotografia 2019.

Luciana Stella, di Milano, commento alla fotografia dell’esodo da Fiume 1945.

Famiglia Savino, Udine, fotografie, lettere, ritagli di giornali, 1944-2014.

Cenni bibliografici

Francesca Artico, “Morto ‘Ferro’, partigiano dei Diavoli Rossi”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Cervignano Latisana Bassa, 19 aprile 2020, p. 37.

Paolo Barbaro, Storie dei Ronchi, Venezia, Edizioni del Gazzettino, 1993.

Elio Bartolini, Il Ghebo, Udine, La Nuova Base, 1970.

Bruno Bonetti, Manlio Tamburlini e l’albergo nazionale di Udine, Pasian di Prato (UD), L’Orto della Cultura, 2017.

Rosanna Boratto (a cura di), La Carta della Gestapo. Decifrazioni e misteri di un itinerario della memoria, Udine ANPI, 2019.

Primo Cresta, Un partigiano dell’Osoppo al Confine orientale, Udine, Del Bianco, 1969.

“La criminosa impresa organizzata dopo un invito al ‘popolo’ ad agire contro il clero”, «Giornale di Trieste», 23 novembre 1951.

Julia Church, Per l’Australia: the story of Italian migration, Carlton Victoria (Melbourne), Miegunyah Press, in association with the Italian Historical Society (COASIT), 2005.

Maria Teresa Corso Regeni, Vocabolario maranese. Vocabolario fraseologico veneto-italiano varietà di Marano Lagunare (UD), Latisana (UD)-San Michele al Tagliamento (VE), la bassa / vocabolari 2, 1990.

Don Emilio, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1992.

Ferruccio Fölkel, La Risiera di San Sabba. L’Olocausto dimenticato: Trieste e il Litorale Adriatico durante l’occupazione nazista, Milano, Bur, 2000.

Plinio Palmano, “Al Grande Albergo di Via Spalato”, «Avanti cul Brun!», n. 46, 1946, pp. 99-107.

Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria. Chi imprigiona la verità sulla guerra civile, Sperling & Kupfer, 2007.

Bruna Sibille Sizia, Diario di una ragazza della Resistenza: Friuli 1943-’45, Udine, Kappa Vu, 1998.

Andrea Zannini, “Dal linciaggio di Solaro alla strage di Schio: alla fine della guerra scoppia la resa dei conti”, «Messaggero Veneto», 11 maggio 2020, p. 32.

Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Copertina: fotografia di Giorgio Gorlato a Renzo Piccoli durante una gita dell’ANVGD del 2019. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Percosse titine a mons. Bruni, parroco di Capodistria, 1951

In Istria nel mese di novembre 1951 i titini proseguono la violenta campagna di stampa contro il clero. Tra i primi a farne le spese è don Guido Bortuzzo, il parroco di Pirano. Contro di lui vengono inscenate aggressive forme di ostilità da parte di “striminziti gruppetti di scalmanati provenienti dalla campagna”, come scrive il «Giornale di Trieste» del 23 novembre 1951. La sua parrocchia è fatta oggetto di sassaiole serali, per intimidire il prelato. Notizie su Pirano si trovano nel testo di Mario Dugan.

Il quotidiano fiumano «La Voce del Popolo» pubblica il 9 novembre 1951 un editoriale furente contro i preti. I parroci di Parenzo, di Visignano e di Fontane di Orsera sono accusati di diffondere tra il popolo sfiducia e odio contro i poteri popolari, preannunciando nientemeno che un’occupazione angloamericana dell’Istria. Il nefasto editoriale si chiude con chiare minacce: “Le leggi socialiste vanno rispettate e quel pugno di nemici che, eludendole, continua a svolgere attività antipopolari sarà sottoposto alle loro severità”.

Poi c’è il pestaggio di monsignor Giorgio Bruni, nato a Pirano nel 1899, parroco di Capodistria e deceduto esule a Trieste nel 1962. Chi sono i mascalzoni che picchiano a sangue don Bruni? La risposta coinvolge il Friuli, in chiave storica. Già poiché il progetto di bastonare il presule, stando alla stampa triestina, viene allestito dalle autorità titine, dall’Udba, il servizio segreto iugoslavo, in combutta con certi massacratori delle malghe di Porzùs, del 1945. Si sa che taluni autori della strage friulana sono scappati a Capodistria nel 1946, come Mario Toffanin, detto Giacca, condannato nel 1951 al processo presso la Corte d’Assise di Lucca. Dal 1946 al 1991 la polizia segreta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia è la “Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti” (Udba); letteralmente: “Amministrazione Sicurezza Statale”.

L’eccidio di Porzùs – in dialetto sloveno: “Topli Uork”, in comune di Faedis, provincia di Udine – provocò l’uccisione, fra il 7 e il 18 febbraio 1945, di diciassette partigiani (tra cui una donna, loro ex prigioniera) della Brigata Osoppo, di orientamento cattolico, monarchico e laico-socialista, da parte di un gruppo di partigiani – in prevalenza gappisti (Gruppi di Azione Patriottica) – appartenenti al Partito Comunista Italiano.

Capodistria, un panorama nella cartolina degli anni ‘40

Oltre quindici degli aggressori del monsignore Bruni vengono da fuori. Fatti immigrare nella cittadina istriana con funzioni spionistiche e terroristiche, si occupano di aggredire e percuotere i preti e, in generale, gli italiani che non se ne vanno, per la pulizia etnica. Sono autori, ad esempio, del fallito rapimento di Albaro Vescovà, del 1° aprile 1950. È la località di Scoffíe, in sloveno: Spodnje Škofije. Poi essi danno una caccia ostinata agli italiani esponenti cominformisti e stalinisti, come pure a membri del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) della Venezia Giulia, organo politico formato da partiti democratici anticomunisti e al ‘Gruppo Resistenza Istriana’, che era in collegamento col ‘Gruppo Esuli Istriani’ (GEI) di Trieste. Si ricorda che le truppe  angloamericane controllano la Zona A del Territorio Libero di Trieste (TLT) fino al 1954. Il confine con l’Italia era a Duino.

La banda di picchiatori di Capodistria è manovrata dal tale Krevatin, forse di nome Josip. Vengono incitati a commettere le loro violenze da Mario Abram (partigiano rosso triestino scappato a Capodistria), da Nerino Gobbo, detto Gino (pure lui fanatico fuggito da Trieste dopo il 12 maggio 1945, alla fine dell’invasione slava) e da altri capoccia titini, come scrive il già citato «Giornale di Trieste». Il Gobbo fu accusato, tra le altre, di aver preparato le liste dei deportati durante i 40 giorni di occupazione iugoslava di Trieste. Un’ulteriore accusa, come per il Toffanin, massacratore di Porzùs, fu quella di ricevere la pensione dell’Inps, nonostante Gobbo fosse uno degli assassini di italiani nella foiba Plutone di Trieste.

Per l’imboscata a mons. Bruni viene utilizzato un camion dei vigili del fuoco di Capodistria, non si sa con quale autorizzazione; altri facinorosi si spostano in bicicletta. Domenica pomeriggio 11 novembre 1951 si appostano a Carcase (in sloveno: Krkavče) in attesa dell’autovettura col prelato, che è in giro per le cresime. Don Bruni era stato incaricato di cresimare i giovani nel 1950, dietro concessione della S. Sede, in seguito alle violenze titine subite dal vescovo Santin nel 1947. “E toccò a me! 1950-1951 – ha scritto don Bruni nel suo Memoriale – tutto bene nei grandi centri: Capodistria, Isola, Pirano, Buie, Umago, Cittanova, Verteneglio, Madonna del Carso… e financo a Truscolo! Tutto molto bene; con niun disturbo” (Bruni, p. 5; vedi in Bibliografia).

Il vescovo Santin benedice il sepolcro degli italiani uccisi nella foiba;
fotografia dal sito web di Francesco Lamendola:   
http://www.accademianuovaitalia.it/

Cinquanta contro tre

I violentatori di don Bruni si erano trovati il mattino a Monte di Capodistria in casa di un certo Cociancich, detto Fozic, tra varie bevute di grappa, per darsi coraggio. Come accennato, erano in agguato a Carcase, quando vedono il veicolo del presule, lo fermano in gruppo facendo scendere i passeggeri. Sono tanti, forse una cinquantina, contro tre e sono armati. L’autista del prete, un certo Bandel, o  Danvel (secondo le fonti), di Carcase, è preso a calci e pugni e cacciato via. Vincenzo Novacco, da Vergaluccio, accompagnatore del parroco viene pestato per bene e obbligato a rientrare a Capodistria, con labbra rotte e insanguinato. Rimasto in balia dell’orda titina, il monsignore viene sospinto all’interno del bosco, verso la Poiana. Per due ore lo bastonano, gli scagliano addosso le biciclette, lo prendono a calci selvaggiamente in varie parti del corpo, lo picchiano col tirapugni tanto che sanguinante, sviene tra e fronde, mentre il gruppo di assalitori si va via via diradando, forse perché comincia a piovere.

I due anziani dell’orda avevano “una… fotografia – ha scritto don Bruni – riproducente la benedizione di un gagliardetto fascista (credo nella chiesa di Monte). Prima ancora di chiedermi se mi riconoscessi nel sacerdote benedicente, devono essersi accorti di… sbagliare indirizzo (si trattava del povero mons. [Giovanni] Cosolo; infatti, qualche anno dopo, ingrandita, la stessa fotografia era applicata in piazza su grande albo; a mons. Cosolo però non toccò nulla, se non lo… spaghetto [=paura])” (Bruni, p. 6).

Ecco la descrizione pubblicata da padre Flaminio Rocchi, riferitagli dallo stesso monsignor Giorgio Bruni: “(…) lo prendono a pugni e calci, lo rialzano e lo scaraventano a terra e lo rialzano varie volte, gli saltano sul torace fino a fratturargli cinque costole e, quando lo credono morto, lo abbandonano insanguinato e con gli occhi tumefatti” (Rocchi, pag. 95; vedi in Bibliografia).

A quel punto i violentatori soddisfatti risalgono sull’automezzo dei pompieri e se ne tornano a casa, convinti che don Bruni sia morto. Rientrano a Capodistria per riferire, come da programma, l’esito della sortita al superiore dell’Udba e al presidente del Comitato popolare circondariale Juli Beltram, come riportato dai giornali triestini.

Capodistria, il Palazzo del Podestà, facciata veneziana del 1447 in una cartolina degli anni ‘30

Nel frattempo mons. Bruni riprende conoscenza e cerca di rientrare in parrocchia con le proprie forze. Giunge lacero e ferito fino a Bossomarino e usa il carretto di un contadino, che gli concede il mezzo, ma si rifiuta di farlo salire, poiché terrorizzato da eventuali rappresaglie titine e dell’Udba. Del resto pure don Bruni non avrebbe sopportato i sobbalzi del carro in movimento. Comunque alla stazione di Bossamarin don Bruni scende; fa pochi passi oltre il Cimitero e incontra il figlio maggiore del Novacco e poi Lino Norbedo, il nipote del custode del Cimitero. Sostenuto da loro prosegue, ma su per il “rato di Brandolin” il suo ansare veniva sentito a lunga distanza. Qualcuno lo deve aver visto o riconosciuto. Veramente dalle 3 del pomeriggio tutta Capodistria sapeva in che mani era finito. Un autista, passando lungo la strada, era riuscito a riconoscerlo in balìa degli energumeni, poco dopo l’imboscata. Egli porta la notizia nella cittadina istriana, destando vivo scalpore. Lo si crede morto; chi vuole prender veicoli per andarlo a salvare; mons. Cosolo avverte la Polizia. Alle 8,30 di sera don Bruni si presenta dalla madre che, vedendolo, pensa ad un incidente stradale, ma viene resa edotta. Chiamata la dottoressa de Petris, dopo la visita medica stabilisce la commozione cerebrale e frattura delle costole. L’unico consiglio è il ricovero all’Ospedale di Trieste.

È la Croce Rossa a portare l’infermo all’Ospedale di Trieste, riuscendo a passare il blocco al confine dei graniciari (guardie confinarie serbe), che controllano solo i documenti e fanno passare l’autoambulanza con infermiere, medico e barellieri. Pure in questo frangente la dottoressa non esita a mostrare i suoi timori circa una probabile campagna di stampa e radio iugoslave per aver accompagnato il prete. Alle 11 di sera, infatti, c’è la prima notizia alla radio.

Alle ore nove del 12 novembre 1951 giunge a don Bruni il primo telegramma di saluto da Roma, dal reverendo P. Alfonso Orlini, già ministro generale dei Minori Conventuali dei Frari di Venezia. Alle 10 quello del vescovo Santin, nel pomeriggio c’è il messaggio del dottor Gino Palutan, presidente della Zona A del TLT. L’indomani mattina, il sindaco Gianni Bartoli. E poi per due mesi visite tutti i giorni, a tutte le ore, nonostante il cartello fatto affiggere sulla porta della camera. Poi l’omaggio floreale del CLN dell’Istria e telegrammi, doni, lettere, missive anche da sconosciuti. Tutto ciò fino al 14 gennaio 1952, data del suo ritorno a Capodistria. Al rientro nessuno gli dice nulla, per la solita paura delle angherie titine. Solo qualche mese dopo don Bruni chiede un incontro col “famigerato presidente del Comitato circondariale Giulio Beltram”, che gli chiede scusa per le “violenze fisiche”. Poi tutto pareva finito lì. Il giorno 8 ottobre 1953 un altro gruppo di 50 energumeni invade la casa del prevosto, per espellerlo dalla Zona B immediatamente. Dalla sera del 9 ottobre 1953 mons. Bruni è stato esule a Trieste, come ha annotato nel suo Memoriale.

Il 22 novembre 1951 don Bruni riceve la visita in ospedale di mons. Antonio Santin, vescovo di Trieste e Capodistria, a sua volta già brutalmente malmenato dai titini il 19 giugno 1947, quando gli americani avevano già pronta un’autocolonna per andare a salvarlo nella Zona B, amministrata dagli iugoslavi.

A mons. Bruni giungono molti auguri di guarigione dai fedeli affettuosi di Capodistria, pure dai contadini slovenofoni, offesi per l’imboscata perpetrata dagli scalmanati venuti da fuori. Alla vigilia della orrenda aggressione a don Bruni l’esecutivo distrettuale dell’Unione Antifascista Italo Slovena (Uais) di Capodistria aveva votato una mozione contro di lui, dando il placet delle istituzioni iugoslave all’orribile assalto.

Il CLN dell’Istria, nel 1951, ha informato il governo italiano della vile aggressione titina patita da mons. Bruni, che ha ricevuto la visita di vari capodistriani esuli a Trieste. L’obiettivo titino era di dividere la diocesi di Capodistria (nella Zona B, controllata dagli slavi) da quella di Trieste (nella Zona A del TLT, sotto gli USA), con minacce, persecuzioni e violenze ai preti, ai maestri e agli italiani in genere.

Il 15 febbraio 1952 mons. Santin denuncia con una documentata lettera la persecuzione anticlericale dei titini in Istria. Il 6 aprile successivo il vescovo ausiliare di New York condanna pubblicamente tali violenze perpetrate contro il clero inerme (Rocchi, p. 95). Nel 1959 mons. Santin compone la celebre preghiera dell’infoibato e nel 1975, col cambio di politica del Vaticano e con l’apertura al mondo slavo favorente il clero sloveno e croato, mons. Santin deve dare le dimissioni, atto che ha mascherato una vera e propria defenestrazione. Ritiratosi dalla ribalta pubblica, muore, amareggiato, a Trieste nel 1981.

Mons. Antonio Santin;
fotografia dal sito web:  
http://www-montegrisa-org

Per concludere il presente articolo si propone una poesia del 2019 di Antonio Zappador, di Verteneglio. Una scena sconvolgente cui assiste nel 1948-’49 Zappador da bambino si riferisce agli sgherri dell’Ozna, il servizio segreto di Tito che, dal 1946, cambia nome in Udba. “Mi è capitato di vedere tre agenti dell’Ozna – ha riferito Zappador – accoltellare a morte un compaesano, così in mezzo alla strada, come se niente fosse, poi mio padre ha fatto di tutto per tenermi nascosto dato che ero un testimone scomodo”. Zappador scappa dall’Istria nel 1950 ed è accolto a Trieste da don Teseo Furlani.

Ho visto pugnali

La prima volta che ho visto uccidere un uomo

avevo ancora occhi da bambino

e la morte credevo fosse cosa finta.

Fu davanti al mulino di Cattunar,

l’uomo aveva mani bianche di farina

e nella mente bianche idee di libertà.

Tre gli assassini.

Vincitori di una guerra mai dichiarata

portavano l’ordine nuovo sulla punta dei fucili.

altre volte poi, fulmini di morte

hanno lacerato sogni e ideali

di una vita mai piegata, ma quella mattina

ho visto pugnali

squartare un uomo come al macello i maiali.

E stupore agghiacciante ho visto

dentro gli occhi di altri bambini come me.

La prima volta che ho visto uccidere un uomo

il grano era ancora verde nei capi

e la stagione per renderlo pane

si bruciò nei cieli della violenza.

Cominciò l’esilio.

La prima volta che ho visto uccidere un uomo

morì un poco anche il bambino,

ma non le bianche idee di libertà.

Antonio Zappador

Cartolina di Parenzo, dei primi del Novecento, con didascalia in dialetto

Messaggi dal web

Dopo la diffusione in Internet dell’articolo presente abbiamo ricevuto numerose condivisioni e messaggi, tra i quali ce ne sono alcuni che meritano una citazione in queste righe. Giorgi Paropat il 31 marzo 2020 nel gruppo di Facebook “Amici profughi istriani” ha scritto: “La mia famiglia era a Trieste dal 1946, ma il cuore era rimasto in Istria e ricordo la reazione di mia madre quando seppe delle percosse inflitte a monsignor Bruni, come del martirio di don Bonifacio e dell’attacco vile a monsignor Santin. Si può perdonare, ma non si deve dimenticare”. Sonia Ruzzier ha aggiunto: “Anche la mia era a Trieste (da Pirano) dal 1947 e ricordo che i miei genitori ne parlavano! Poi io ho avuto monsignor Bruni come professore all’Istituto ‘Gian Rinaldo Carli’ e ricordo com’era sfinito”.

Bibliografia e sitologia

Giorgio Bruni, Memorie di un parroco. Capodistria, 1946 – 1953; Trieste, edizione in proprio, 1992; testo in PDF nel web dal 2011 nel sito:  www.cherini.eu

Renzo Codarin, Il Vescovo Santin aggredito a Capodistria fu il simbolo delle sofferenze giuliane, on line dal 17 giugno 2016.

“La criminosa impresa organizzata dopo un invito al ‘popolo’ ad agire contro il clero”, «Giornale di Trieste», 23 novembre 1951.

Mario Dugan, Lo sviluppo del bacino dell’Alto Adriatico dal 15000 a. C. a oggi, Romagnano al Monte (SA), Booksprint, 2019, nel web.

Roberto Morelli, “Toffanin, pensionato delle foibe che non si pente”, «Corriere della Sera», 30 agosto 1996, p. 15.

Ricciotti Giollo, “Un grande giorno di fede e d’amore dei Capodistriani a Trieste per S. Nazario”, «Arena di Pola», n. 1.077, 03 luglio 1957, p. 3.

Francesco Lamendola, Antonio Santin: quello sì, era un Vescovo, on line dal 23 gennaio 2019 nel sito  http://www.accademianuovaitalia.it/

Flaminio Rocchi, L’esodo dei 350 mila giuliani fiumani e dalmati, Roma, Associazione Nazionale Difesa Adriatica, 1990.

Elio Varutti, Mi scampo e i titini me spara drio, Trieste 1950, on line dal 29 febbraio 2020.

Fonte orale

Antonio Zappador, Verteneglio 1939, intervista di E. Varutti del 23 febbraio 2020 a Fossoli di Carpi (MO).

Servizio giornalistico e di Networking a cura di Girolamo Jacobson, Maria Iole Furlan e Elio Varutti. Copertina: cartolina di Capodistria degli anni 1930-1935 con la fontana in piazza Ponte Piccolo. Fotografie da siti web e collezioni private citate nell’articolo che si ringraziano per la cortese concessione alla diffusione e pubblicazione nel blog presente. Altre immagini sono dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin, con parenti di Pirano.