Capi partigiani slavi in Friuli, Veneto e nella Venezia Giulia. Misteri Ozna

Pochi studiosi hanno notato che a comandare certe formazioni partigiane nel Nord-Est dell’Italia siano stati degli slavi. Alcuni storici della Resistenza hanno fatto passare tale fatto rientrante nello spirito internazionalista proletario. È proprio vero? Oppure c’era qualche piano segreto iugoslavo nazionalista per impossessarsi di altre terre, oltre all’Istria, a Fiume e a Zara? È dal Trattato di pace di Rapallo (1920) e atti seguenti che tali zone facevano parte dell’Italia, in seguito alla Prima guerra mondiale e all’Irredentismo, che sin dall’Ottocento riscaldò gli animi sulla costa orientale del Mare Adriatico. Il fascismo finì per intorbidire le acque con l’italianizzazione forzata (già sbandierata ai tempi dell’Italia liberale, 1866), le leggi razziali (1938), l’invasione della Jugoslavia (1941) e con la creazione dei Campi di concentramento di Arbe e di Gonars (UD) per internati sloveni e croati. A rimetterci furono gli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, che pagarono con i loro beni economici i danni della Seconda guerra mondiale persa da tutta l’Italia fascista. Il punto massimo delle tensioni nelle terre perdute fu raggiunto con l’uccisione di italiani nelle foibe da parte dei miliziani di Tito (1943-1945) e con l’esodo giuliano dalmata (1943-1963) di 350mila profughi. Certi storici sostengono che furono solo 280-300mila gli italiani in fuga dalle grinfie di Tito e che l’esodo durò sino al 1956, mentre altri studiosi (Patrizio Zanella e Andrea Romoli) datano la conclusione del fenomeno agli anni ’60, se non intorno al Trattato di Osimo (1975) che sancì i confini definitivi tra Italia e Jugoslavia, in mezzo ad una vasta messe di polemiche.

Dopo la Caduta del Muro di Berlino (1989) e venendo meno lo scontro ideologico della Guerra fredda cominciò a vacillare la lettura storica generale offerta dopo il 1945. Claudio Pavone, col suo Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, nel 1991, mette sulla scena i temi riguardanti l’etica della Resistenza, con le fucilazioni attuate persino nel dopoguerra. Oggi ci sono alcuni storici e certi giornalisti d’indagine che intravvedono la longa manus dell’Ozna, il servizio segreto di Tito, nel piazzare il più possibile comandanti partigiani iugoslavi a capo delle bande partigiane in Friuli, Veneto e nella Venezia Giulia. È solo un mistero dell’Ozna?

La “Odeljenje za Zaštitu Naroda” (Ozna) è la sigla che significa: Dipartimento per la Sicurezza del Popolo. C’è una seconda versione che così spiega la sigla: “Oddelek za zaščito naroda”; letteralmente: Dipartimento per la protezione del popolo. Era parte dei servizi segreti militari iugoslavi e fu attiva dal 1944 fino al 1952. L’organizzazione titina, programmata da Tito e Milovan Gilas, era dotata di carceri proprie e attuava requisizioni, vessazioni ed addirittura ha programmato la pulizia etnica a Pola contro gli italiani. La pianificazione delle uccisioni di italiani in Istria, Fiume e Dalmazia per mano titina è stata documentata da Orietta Moscarda Oblak a pp. 57-58 di un suo saggio. Agenti dei servizi segreti di Tito negli anni ‘50 si infiltrano perfino nei Centri raccolta profughi (Crp) sparsi in Nord Italia e a Roma per carpire notizie sui rifugiati e per altre operazioni di stampo terroristico nelle città. Dal 1946 al 1991 la polizia segreta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia diviene “Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti” o Udba; letteralmente: “Amministrazione Sicurezza Statale”.

I Reparti per la difesa del popolo, ossia gli agenti dell’Ozna, agiscono autonomamente dal Fronte di Liberazione sloveno (Osvobodilna Fronta) e dai militari del IX Corpus dell’Esercito popolare di Liberazione iugoslavo (in sloveno, Novj=Narodnoosvobodilna vojska in partizanski odredi Jugoslavije). Tutti i membri dell’Ozna provengono dalle file del Partito Comunista Iugoslavo, come voluto da Tito e da Aleksandar Ranković, uno dei suoi più fidati collaboratori. L’organizzazione dell’Ozna è istruita da esperti sovietici, per trasformarla in un’efficiente strumento di repressione alle dipendenze di Belgrado. I suoi addetti giungono a Fiume, Gorizia, Pola e Trieste con le liste di proscrizione già preparate nei mesi precedenti su segnalazione di attivisti locali, includendo tutti coloro che potessero essere pericolosi per il nuovo potere: membri di unità armate, civili ritenuti fascisti o collaborazionisti e recalcitranti all’occupazione slava delle città italiane. Gli attivisti locali dell’Ozna sono suddivisi per comitati rionali; alcuni di essi sono stati appena trasferiti dall’interno iugoslavo. Sono tutte spie dell’Ozna, esperte in armi ed esplosivi. Agli arresti da parte titina seguono le eliminazioni nelle foibe, o l’internamento nei Campi di concentramento iugoslavi, come quello di Borovnica, presso Lubiana. Per esempio nel capoluogo giuliano è citato El Triestin Ceccalin antifascista comunista e spia dell’Ozna, secondo i messaggi in Facebook di S. Ser., di Parenzo del 24 ottobre 2020.

Secondo le ricerche di Nevenka Troha a Lubiana, dove peraltro non esistono archivi centrali dell’Ozna (qualcosa è rintracciabile altrove, o a Belgrado), tra il 4 e l’8 maggio 1945, nell’odierna provincia di Trieste vengono uccise, o gettate nelle foibe, o muoiono in prigionia 582 persone, delle quali il nucleo forte è dato da guardie di finanza, poliziotti, militi della RSI, membri della Milizia di difesa territoriale, o della Guardia Civica, come ha riferito, nel 1995, Joze Pirjevec, citato in bibliografia.

La guerra partigiana in Jugoslavia inizia alla fine di aprile 1941. La struttura di guerriglia si dota ben presto di un servizio segreto, il Vos. La sigla Vos si esplica così: Varnostno Obvasovalna Služba – Servizio informazioni della difesa. È proprio il Vos che organizza una rappresaglia partigiana contro i paesani di Circhina (provincia di Gorizia), accusati di fiancheggiare i nazisti. Il 3 febbraio 1944 agenti del Vos fucilano e gettano nella foiba 15 abitanti di Circhina, per vendicare 48 vittime partigiane dei nazisti. In sostanza i nazisti, il 27 gennaio 1944 a Circhina, sparando anche dal campanile, massacrano 48 partigiani su 109 corsisti ospitati in zona per frequentare un corso del partito comunista per futuri ufficiali dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo. C’è però un sopravvissuto, Giuseppe Baucon, che racconta tutto. Pur ferito duramente, egli riesce a risalire dalla piccola foiba, come dichiarò ai discendenti. Tra i fucilatori del Vos ci sono pure “alcuni commercianti comunisti invidiosi dei successi di Giuseppe Baucon nel commercio”, come sostengono i suoi familiari e discendenti (vedi: E. Varutti, Giuseppe Baucon, di Gradisca, salvatosi dalla fucilazione titina  e dalla foiba a Circhina nel 1944).

Maria Iole Furlan, Nazisti fucilatori a Cividale 1944, fotocopia colorata da un’immagine diffusa nel web, cm 20,5×29, 2021. Fonte e didascalia dell’Archivio ANPI: I comandanti del plotone corazzato del Karstjäger di stanza a Cividale del Friuli, SS Oberscharführer Cavagna, tedesco nonostante il nome; gli SS Unterscharführer Dufke e Walter, posano davanti a un carro armato P40 nella caserma “Principe di Piemonte”. Fonte dell’immagine: http://beutepanzer.ru/Beutepanzer/italy/tanks/P40/p40-1.htm

Ritornando a Milovan Gilas si ricorda che, processato e incarcerato da Tito, dal 1954 al 1966, come dissidente lo stesso Gilas, nel 1991, riguardo all’Istria del 1945-‘46, dichiarò al giornalista Alvaro Ranzoni, del settimanale italiano «Panorama»: “Gli italiani erano la maggioranza solo nei centri abitati e non nei villaggi. Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto”. Gravi dichiarazioni mai smentite quelle di Gilas, che fu segretario del Komunisticna Partija Iugoslavije (Partito comunista iugoslavo). Egli ammise inoltre in un suo noto memoriale, a p. 12, che in Jugoslavia gli “arresti effettuati al di fuori della legge, come in tempo di guerra, continuavano a essere la pratica corrente” (vedi: M. Gilas, Se la memoria non m’inganna… Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962).

Comandanti slavi partigiani in Veneto

Il tenente colonnello Vittorio Silvio Premuda è comandante della Brigata “Fratelli d’Italia” di partigiani non comunisti attivi tra Piave e Livenza. Egli non è disposto a passare sotto il comando dei partigiani garibaldini (filo-titini), come espressamente gli fu richiesto, per tale motivo, il 19 agosto 1944, lo slavo Kubricevic Svetiovar, detto “Felice”, ne decreta la morte nella zona di Codognè (TV). Il massacro di Vittorio Premuda avviene ben sei mesi prima dell’eccidio di Porzus, in Comune di Attimis (UD). Quest’ultimo è il più noto eccidio di partigiani della Brigata Osoppo (di orientamento cattolico, monarchico e laico-socialista,) avvenuto per mano di partigiani comunisti. Pure qui che ci sia lo zampino dell’Ozna? Secondo la sentenza della Corte d’Assise di Treviso del 3 dicembre 1946 e dagli articoli de «Il Gazzettino» di quel periodo, Premuda fu attirato con una scusa in una trappola dal comandante comunista “Tigre”, poi venne arrestato e fucilato da partigiani garibaldini comunisti, guidati dallo slavo Kubricevic Svetiovar, detto “Felice” e dallo stesso capo partigiano italiano Attilio Da Ros, detto “Tigre”, comunista di Oderzo (TV).

Detto per inciso il comandante Kubricevic è un ufficiale della marina iugoslava (vedi: Maria Pia Premuda Marson, L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 58), allora viene modestamente da chiedersi: di quali barche slave si doveva preoccupare Kubricevic mentre operava sulle verdi colline di Vittorio Veneto? Ecco affacciarsi l’ombra dell’Ozna. È stata Maria Pia Premuda Marson a ribaltare l’interpretazione di certi storici novecenteschi che derubricavano la fucilazione di Vittorio Premuda, come un fatto d’invidia tra partigiani di opposte formazioni politiche, anzi l’autrice scrive delle spinte annessionistiche iugoslave riguardo a tutta la provincia di Udine, fino oltre il fiume Livenza, in territorio veneto sulle rive del Piave (vedi: La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda…, 2020, p. 15).

Si sa, infine, che diversi partigiani russi hanno combattuto contro i nazifascisti in Friuli dall’inizio del 1944. A Forni di Sopra (UD) c’era il battaglione Stalin, che operava in Carnia. Un altro battaglione di garibaldini sovietici agiva tra Veneto e Friuli, poi c’era il battaglione Kirov, attivo nel Pian del Cansiglio (BL, PN e TV). Infine c’era nientemeno che il figlio primogenito di Stalin nella Brigata partigiana Piave, operativa sulle colline di Vittorio Veneto (TV); egli si celava sotto il nominativo di Giorgio Vorazoscvilj “Monti” («Il Gazzettino» Cronaca di Treviso, 29 agosto 2015, citato dalla Premuda Marson, 2017). Con tutti questi reparti militari, non fa mistero che ci fossero pure certi agenti dei loro servizi segreti, in alleanza con quelli iugoslavi, come l’Ozna. Proprio Maria Pia Premuda Marson afferma che “Agenti speciali sovietici si erano inseriti nelle formazioni partigiane denominate ‘Brigate Garibaldine” (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 17).

Confini orientali 1946-1947

Sul Cansiglio, a Vittorio Veneto e nel Bellunese operava anche Roberto Anelli Monti, col nome di battaglia di “Milos”, o Milo, in ricordo di un capo partigiano iugoslavo ucciso in uno scontro coi tedeschi, che gli muore tra le braccia. Nato a Udine nel 1922, Milos è al comando della Brigata d’assalto della Garibaldi, Divisione “Nino Nannetti” nel 1945.

Capi partigiani slavi nella Venezia Giulia

Pochi studiosi spiegano che i titini, oltre ad occupare Fiume, Pola, Trieste e Gorizia, sono giunti sino a Monfalcone, Romans d’Isonzo, Cividale del Friuli, Aquileia e Cervignano del Friuli, nella Bassa friulana. Una jeep di artificieri iugoslavi fu vista da partigiani della Osoppo sulle rive del Tagliamento, vicino ad un ponte. Come ha scritto, a p. 83, Maria Grazia Ziberna a Gorizia “il periodo dell’occupazione titina, dal 2 maggio al 12 giugno 1945, vide la costituzione nella Venezia Giulia dello Slovensko Primorje, cioè il Litorale Sloveno, che aveva come capoluogo Trieste e comprendeva anche il circondari di Gorizia, diviso in sedici distretti e composto anche dai comuni di Cividale del Friuli, Tarvisio e Tarcento [della provincia di Udine], considerati slavofoni”.

I Titini a Gorizia operano coi consiglieri sovietici. È risaputo che l’occupazione di Gorizia dal 1° maggio 1945 da parte dei miliziani di Tito, assistiti da tecnici sovietici, durò 40 giorni, durante i quali furono arrestati e deportati centinaia di italiani. La presenza sovietica rientra nella dicitura “formazioni poliziesche”, come l’Ozna, che affiancano l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia (vedi: Lidia Luzzatto Bressan, p. 16). Gli artificieri iugoslavi fanno persino saltare due ponti sull’Isonzo, rallentando così l’arrivo delle truppe alleate, per procedere meglio alla caccia degli italiani, facendo innalzare i cartelli “Gorica je naša” (Gorizia è nostra). Poi puntano sul Tagliamento ed oltre. Esiste un elenco di 651 civili e militari arrestati a Gorizia e deportati dai titini fra il 1° maggio e il 12 giugno 1945 che, pur necessitando di ovvi aggiornamenti, rappresenta il teatro delle eliminazioni al confine orientale. In ogni pattuglia titina aggirantesi per la città con tanto di elenco, durante la cattura, partecipa pure un partigiano garibaldino italiano, per individuare meglio i potenziali prigionieri.

A Trieste e a Muggia, secondo certi autori, elementi slavi dell’Ozna nel 1944 si fanno delatori nei confronti degli stessi compagni del Partito Comunista Italiano in seno al Cln, facendoli arrestare dai nazisti. i comunisti italiani erano considerati poco favorevoli alla linea annessionistica iugoslava, che intendeva prendere Trieste, Gorizia (nella Venezia Giulia), Udine, Pordenone (allora in Veneto), se non qualcosa in più. In particolare il muggesano Luigi Frausin, segretario federale del Pci, assieme ad altri esponenti (Kolarich, Facchin, Morgan e Spadaro) riprendono in mano il partito dopo l’8 settembre 1943, rientrando dal confino o dalle galere regie. Essi riconoscono la necessità di un accordo che assegni alla Jugoslavia il territorio abitato da slavi, ma non Trieste, né Gorizia, né la costiera istriana. Peggio, il Frausin non è per niente d’accordo con la delibera del cosiddetto governo provvisorio croato, che nel settembre 1943, a Pisino, prima dell’arrivo dei tedeschi, ha proclamato – sic et simpliciter – l’annessione dell’Istria alla Croazia e quindi alla Jugoslavia, decisione festosamente accolta e ufficialmente riconosciuta dal governo jugoslavo dei partigiani di Tito.

Come ha scritto Fulvio Farba, “ecco che il destino viene a dare una mano agli slavi, tra maggio ed ottobre del 1944 i tedeschi catturano ed eliminano prima un forte gruppo di resistenti muggesani, sostenitori di Frausin, poi fucilano Kolarich ed infine vengono arrestati e deportati Luigi Frausin ed il nipote Ezio, che moriranno nei lager. Poco dopo toccherà a Vincenzo Gigante, Martino Solieri ed altri. A questo punto si impone una domanda, che a quanto pare i comunisti italiani non si sono posti, o non hanno voluto porsi: poiché Natale Kolarich cade in una imboscata ad opera di un traditore e poiché, come dice la motivazione della Medaglia d’Oro al V. M. concessa a Frausin, questi fu catturato a seguito di delazione slava, non si potrebbe ritenere che le persone maggiormente contrarie ai piani jugoslavi, non altrimenti eliminabili in quanto antifascisti convinti dal limpido passato, fossero state volutamente consegnate ai tedeschi? E, naturalmente, da chi poteva trarre maggiori vantaggi dalla loro scomparsa. Le conseguenze di questi avvenimenti si vedono subito: a capo del Partito Comunista Italiano della Venezia Giulia si installano elementi slavi (Rudi Ursich, Frane Stoka, Destradi, Giustincich, Francovich e Karis); alcuni mesi dopo, il rappresentante comunista che ha sostituito Frausin in seno al Cln, Giustincich, abbandonerà il Comitato, reo di non aver voluto sottostare alle imposizioni slave e cesserà ogni collaborazione. Così aumenterà l’antagonismo fra l’ente rappresentativo della resistenza italiana e l’omologo jugoslavo. Inizia cosi allora la svolta comunista pro-Jugoslavia, che suscitò, bisogna dirlo, proteste e risentimenti fra gli aderenti al partito, ma non servirono a nulla. Il Partito comunista italiano era diventato di fatto partito comunista jugoslavo, e tornerà a chiamarsi Pci dopo varie metamorfosi solamente nel 1957. La propaganda pro-Jugoslavia venne intensificata, e si passò a sostenere apertamente la pura e semplice annessione alla Jugoslavia”.

Sin dal 17 luglio 1944 il Comando Generale delle Brigate Garibaldi, attivo in Friuli e nella Venezia Giulia stipula un accordo col comando del IX Corpus del Novj per il quale i partigiani italiani comunisti passano alle dirette dipendenze degli slavi. Gli Osovani non accettano, provocando forti tensioni che sfociano nell’eccidio di Porzus e in vari morti per strani incidenti. Nella notte del 24 e 25 dicembre 1944 i Garibaldini guadano l’Isonzo e vanno a mettersi sotto il comando degli slavi, come ha scritto Giorgio Rochat.

Tale passaggio non è indolore, perché i partigiani italiani in territorio slovenofono sono maltrattati, messi alla fame, costretti a marce forzate e, pur male armati, devono andare alla battaglia di Voschia contro i nazisti. Voschia / Voisko, Comune di Idria (ex-provincia di Gorizia, poi Jugoslavia, oggi Slovenia). Le assurde vicissitudini patite sono descritte nel diario di Renato Rozio, classe 1924, contestato dai dirigenti comunisti. Studente e già partigiano a Mondovì (CN), rientra a casa a causa dei rastrellamenti. Si arruola militare ad Alessandria, al Comando tedesco, per non gravare sulla famiglia, viste le minacce naziste ai familiari dei renitenti alla leva (il bando relativo, del 2 aprile 1944, scrive di presa in “ostaggio dei genitori dei renitenti e all’incendio delle loro case”). Trasferito a Trieste e Fiume, viene addestrato ad Abbazia, in una caserma tedesca. Poi è destinato nella Valle dell’Isonzo (GO, poi Slovenia). Diserta a Bodres di Canale d’Isonzo (GO, poi Slovenia) e si arruola nei partigiani rossi della Divisione Garibaldi-Natisone a Breg di Medana (oggi in Slovenia), presso Dolegna del Collio (GO). Come accennato, tutta la Divisone partigiana nel 1944 si trasferisce da Albana, Comune di Prepotto (UD) verso Tolmino, Circhina (ex-provincia di Gorizia, poi Jugoslavia e Slovenia), Blegos Likar (presso Škofia Loka), Logatec e Lubiana (ex Jugoslavia, poi Slovenia). È ferito il 23 marzo 1945 nella battaglia di Voschia. Patisce fame, freddo e prepotenze demenziali del suo comandante, che vorrebbe fucilarlo, perché lo sorprende a dormire dopo del suo turno di guardia, in seguito a massacranti trasferimenti senza cibo. Poi, rientrato in Italia, vede che si sistemano solo i politicanti. Ecco alcune pagine del suo Diario. “Ti sparo, erano gli ingredienti coesivi del reparto [partigiano]”. È il comandante Lampo a sferzare così i suoi sottoposti italiani, in movimento in territorio slavofono (p. 48 del Diario di Rozio). “Li scortava Mirko, il partigiano slavo promosso caposquadra, noto per la fucilazione sul posto di una guardia addormentata” (p. 79 e p. 104).

Tra i partigiani italiani si infila un personaggio ambiguo. È il mongolo, un ufficiale medico russo caucasico appartenente prima alle file nemiche; è gentile con tutti, forse è un agente in missione segreta, in contatto con l’Ozna. “Dice di avere combattuto coi dissidenti polacchi” (p. 48). Il mongolo è poi passato coi partigiani. Era ottobre 1944. Al rancio di un giorno alle ore 12, il partigiano Siro si sente male: vomito e bava schiumosa. “Sparategli, non fatelo soffrire oltre! – urlò ad un tratto qualcuno impressionato e commosso, ma troppo compreso dei sistemi eccessivamente sbrigativi cui l’avevano abituato da tempo le dure necessità della guerriglia” (p. 50). Forse epilessia? Allo stesso tempo stanno male altri partigiani, per un probabile avvelenamento. Il giorno dopo è inscenato un processo popolare: “assemblea” (p. 53) contro il mongolo. La sentenza è: “Sparategli subito!” (p. 54). Infatti gli scaricheranno il mitra alle spalle e lo seppelliranno mezzo nudo (p. 55). Si muore di fame, di sonno, di fatica… i tedeschi possono apparire da un momento all’altro” (p. 65). Poi fucilano 2 dei nostri, per tentata diserzione (p. 65); uno di questi grida: “Mamute, mamute” (mammina, mammina, in friulano) e lancia il portafogli verso un gruppo di partigiani, tra i quali c’è Gino. I corpi vengono seppelliti nelle fosse preparate. Così era la vita quotidiana del partigiano garibaldino in Slovenia, alla faccia dell’internazionalismo proletario.

Il più grave attentato dell’Ozna contro gli italiani a guerra finita è la strage di Vergarolla, presso Pola, del 18 agosto 1946. Ci furono 116 vittime e oltre 200 feriti. Del resto, attentati dinamitardi titini si verificano, nel 1946, anche a Monfalcone e Trieste, come hanno documentato Paolo Radivo, nel 2016, oltre al «Messaggero Veneto» del 1946. Un altro attentato dell’Ozna si svolge a Gorizia, presso il Parco della Rimembranza il 9 agosto 1946. Si teneva una pacifica cerimonia italiana per il XXX anniversario delle Battaglie dell’Isonzo e del tricolore italiano esposto su Gorizia redenta nel 1916. Esagitati sloveni giunti da lontano dapprima tentano di contestare e di agitare la folla, ma vengono messi a tacere. Gli stessi provocatori slavi allora lanciano delle bombe a mano sulla gente assiepata, provocando vari feriti, tra i quali Sergio Zuccolo e, per puro caso, nessun morto, come ha scritto Primo Cresta, nel 1969.

Cimeli militari. Elmetto italiano 1939-1945. Tascapane militare, post 1945, guerra fredda. Borraccia USA 1939-1954. Gavetta di un alpino di Codroipo 1939-1945, con coperchio antecedente (oggetto in alluminio più grande). Gavetta del fante italiano G.G. di Percoto, 1939-1945. Bustina partigiana, detta “titovka” di un appartenente al IX Corpus di Tito dell’Osvobodilna Fronta. Da una ricerca scolastica dell’Istituto Stringher di Udine, 2015.

Durante la Resistenza, nei centri urbani, agiscono i gappisti, che sono membri dei Gruppi di Azione Patriottica, appartenenti al Partito Comunista d’Italia. Vari gappisti al termine della guerra fuggono nella Jugoslavia di Tito molto bene accolti. Come mai? Perché sono legati all’Ozna. Nel 1946 anche Mario Toffanin “Giacca”, lo stragista di Porzùs, scappa a Capodistria, evitando il carcere successivo alla condanna comminatagli nel 1951 al processo della Corte d’Assise di Lucca. Pure certi Diavoli Rossi (gappisti della Bassa friulana collegati ai titini) fuggono in Jugoslavia, primo fra tutti il loro caporione Gelindo Citossi, poi pure Norberto Sguazzin e un certo “Tom”, di Mortegliano; “emigrano in Jugoslavia”, come ha scritto Francesca Artico. Alcuni di tali partigiani fuggiti in Istria, come “Giacca”, Mario Abram (partigiano rosso triestino), Nerino Gobbo (noto infoibatore) e Giuseppe Krevatin se la prendono coi preti italiani, minacciandoli e picchiandoli a sangue, come ha riportato il «Giornale di Trieste» del 23 novembre 1951. Poi quando i titini nel 1948 vogliono fare piazza pulita dei cominformisti, dei comunisti storici e degli stalinisti, certi partigiani italiani scappati nel “paradiso di Tito” svicolano in Cecoslovacchia, perché neanche Tito li vuole più tra i piedi. Quelli che riesce a beccare li deporta all’Isola Calva (Goli Otok) dove patiscono e muoiono di stenti, come in ogni campo di concentramento. Alcuni dei fuggitivi in Cecoslovacchia, forse per la coscienza sporca, cambiano addirittura nome, imbrogliando sui documenti.

È una scena sconvolgente quella cui assiste Antonio Zappador a Verteneglio, in Istria nel dopoguerra. “Mi è capitato di vedere tre agenti dell’Ozna – ha riferito Zappador – accoltellare a morte un compaesano, così in mezzo alla strada, come se niente fosse, poi mio padre ha fatto di tutto per tenermi nascosto dato che ero un testimone scomodo, hanno squartato quell’uomo come con i maiali al macello”. Quel tremendo ricordo vissuto verso il 1950 è contenuto pure in un verso di una recente raccolta poetica del testimone: “Ho rivisto la casa della mia fanciullezza, / pietre senza anima, / profanata dagli uomini dei pugnali” (Zappador, pag. 83).

Il colmo della situazione iugoslava è che ad un certo punto restano traumatizzati gli stessi infoibatori o eliminatori, come emerge da un’intervista. A Rovigno “si diceva che per ogni uccisione ci fosse il parere positivo dell’Ozna, il servizio segreto iugoslavo – ha detto Riccardo Simoni – so che alcuni ragazzi arruolati nell’Ozna sono rimasti poi colpiti per tutta la vita di ciò che è successo”.

Capitani partigiani slavi in Friuli

Nella Bassa friulana il 3 aprile 1945 è arrestato dai Repubblichini lo sloveno Angelo Cernig, Vinco, di 31 anni, della Brigata “Garibaldi Natisone”. Torturato per giorni dalla Banda Ruggiero nella caserma Piave di Palmanova (UD), viene impiccato il 7 aprile sui bastioni della città (Corte d’Assise di Udine, 1946). 

Pure nelle zone montane del Friuli ci sono stati dei capi partigiani slavi violenti e crudeli con tutti, compresi i loro sottoposti, come ha documentato Giulio Del Bon nel 2018. Un certo comandante Mirko è menzionato alle pagine 24, 34, 46, 111 e 254 del suo volume. Verso la metà di marzo 1944 in Carnia nasce il primo nucleo di partigiani paracomunisti, il Btg “Friuli” della Garibaldi, di cui Mirko è il comandante e Italo Mestre, Diego, il commissario. Mirko Arko, nato in Slovenia nel 1921, è un ex ufficiale iugoslavo, fuggito sembra da un Campo di prigionia. Si era stabilito fra le borgate del Comune di Lauco, mentre avrebbe potuto tornarsene a casa. Il loro Comando era a Esemon di Sopra e poi a Pani di Raveo. “Mirko era un buon combattente, tuttavia era spietato e feroce non solo nella lotta e con la gente, ma anche nei confronti di noi combattenti”, in base alla testimonianza del garibaldino Giancarlo Fraceschinis, Checo, citata da Del Bon.

Mirko si macchia di un lungo elenco di violenze e di uccisioni, per le stesse fonti della Garibaldi. Lo slavo adotta “metodi violenti ed estremisti, contrari alla mentalità dei nostri resistenti italiani”. Mirko è definito “il re degli episodi violenti estranei ai veri e propri combattenti, lo spietato giudice delle spie, l’implacabile requisitore di beni ai fascisti o non fascisti” come ha testimoniato Osvaldo Fabian, citato ancora da Del Bon.

Maria Iole Furlan, Ospedaletto, 3 maggio 1945, Carro armato P 40 della Karstjäger-Division colpito dagli inglesi, con il monte San Simeone sullo sfondo, fotocopia colorata da un’immagine diffusa da Stefano Di Giusto, cm 20,5×29, 2021.

Dopo l’occupazione della Carnia da parte Cosacca e nazifascista, nell’autunno 1944, Mirko si ritira sui monti di Pani, a Raveo, assieme alla compagna Gisella Bonanni, Katia, da Raveo, forse incinta; per sopravvivere saccheggiarono viveri e armi in un magazzino garibaldino, perciò e per gli altri gravi motivi già menzionati gli stessi comandi della Garibaldi decisero la loro eliminazione, come ha scritto P.A. Carnier, alle pp. 253, 254 di un suo libro.

Negli scontri di Paluzza, avvenuti nei giorni 8-9 luglio 1944 tra partigiani della Garibaldi e 48 Waffen SS Karstjäger della I Kompanie partiti dalla caserma di Udine al comando del maresciallo Bauernschmid resta ferito un russo, ex soldato sovietico catturato e passato nelle file tedesche, di nome Lininowitch, poi morto in ospedale. Che fosse un’altra spia doppiogiochista? Nello scontro c’erano anche genieri della Wehrmacht per liberare la strada per Passo Monte Croce Carnico ostruita da massi (Del Bon, p. 104).

Come ha scritto Luigi Raimondi Cominesi:  “Talvolta i prelievi [di generi alimentari ed altro] erano fatti arbitrariamente da personaggi che non erano partigiani ma che si spacciavano per tali. I ladri, se scoperti dai partigiani veri, venivano eliminati”. Nell’Archivio ANPI di Udine esistono dei buoni di prelievo originali, in bianco o usati. I buoni rilasciati dai partigiani vennero pagati dopo la guerra (p. 91). Ciò che colpisce, tuttavia, è la naturalezza con cui si scrive della “eliminazione” dei presunti ladri.

Ci sono infine comandanti partigiani della Divisione “Garibaldi-Natisone” assassinati dai loro stessi compagni. È successo il 30 aprile 1945 a Leo Scagliarini con un colpo alla nuca a Rizzolo di Reana del Rojale (UD). Pur essendo un democratico libertario, egli si aggrega nel 1944 alla brigata “Picelli”, col nome di battaglia “Ricciotti”, perché erano le unità più robuste per combattere i nazifascisti, ma con la metà di gennaio 1945 finiscono sotto il comando del IX Korpus titino. La spiegazione fornita dai partigiani invece narra di una morte per il fuoco amico di un aereo da caccia inglese che mitraglia una colonna di partigiani e l’autovettura con dentro “Ricciotti” il 29 aprile. Pare che l’assassino sia stato lo stesso “Giacca”, molto ostile a “Ricciotti”, che intendeva liberare Udine il 1° maggio con le bandiere tricolori e non con quelle rosse dei comunisti. Su tale eliminazione non è mai stata aperta un’indagine giudiziaria, come ha scritto Pansa (pp. 291-315).

Conclusioni – I valori umani si vedono dai comportamenti, senza che siano sbandierati. Forse sono l’elemento più importante della vita. L’individuo vive col valore dell’umanità, oppure dimentica l’umanità, compiendo gli atti del male. Come diceva Max Weber i valori vengono facilmente falsati in dichiarazioni programmatiche, scivolando banalmente nella retorica o nella predica. La disumanità dell’Ozna è così nota, che viene menzionata persino dai romanzieri, come Stefania Conte, nel suo La stanza di Piera, opera del 2020, ambientato in Istria nella Seconda guerra mondiale, compreso il dramma delle foibe.

Documento partigiano interessante datato a Gimino (Istria) 20 marzo 1944 e firmato dal Commissario Osman Kovačić (con grafia serbo-croata) per la richiesta di una radio. Il timbro d’intestazione “K.K. Žminj”, vista la firma, potrebbe essere esplicato con: “Komunistički komesar Žminj” (Commissario comunista di Gimino). Molto interessante l’uso della lingua italiana (pur con molte licenze grammaticali) tra partigiani della Venezia Giulia con comando slavo. Coll. privata Udine

Fonti orali – Riccardo Simoni, Rovigno 1940, trapiantato a San Casciano Val di Pesa (FI),  int. telefonica di E. Varutti del 23-25 febbraio 2020.  Antonio Zappador, Verteneglio 1939, int. di E. Varutti, del 23 febbraio 2020, a Fossoli di Carpi (MO).

Collezioni private: Coll. Gemma Valente, Bastajànawa, vedova Barbarino, Resia, titovka.  Coll. privata Udine, elmetto, gavette, borraccia e tascapane militari.

Bibliografia, sitologia e ringraziamenti

Sono riconoscente all’architetto Franco Pischiutti, dell’ANVGD di Udine, per i consigli bibliografici ricevuti. Grazie a Maria Iole Furlan per i disegni messi a disposizione.

Francesca Artico, “Morto ‘Ferro’, partigiano dei Diavoli Rossi”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Cervignano Latisana Bassa, 19 aprile 2020, p. 37.

Corte d’Assise di Udine, sentenza n. 120 del 5 ottobre 1946, presidente G. Rota; estratto pubblicato sul «Messaggero Veneto».

Pier Arrigo Carnier, Lo sterminio mancato, Milano, 1982.

Primo Cresta, Un partigiano dell’Osoppo al confine orientale, Udine, Del Bianco, 1969.

Giulio Del Bon, 1943-1945 Vicende di guerra. La Carnia durante l’occupazione nazista, Paluzza (UD), Associazione culturale “Elio cav. Cortolezzis”, 2018.

Stefano Di Giusto, P 40 della Karstjäger-Division a Ospedaletto, PDF nel web, 2017.

Fulvio Farba, “Scelta comunista nella Venezia Giulia. La via jugoslava al socialismo”, «Arena di Pola», n. 2.376, 9 febbraio 1985, p. 6.

Milovan Gilas, o Ðjilas, Vlast, London, Naša Reč, 1983, traduz. ital.: Se la memoria non m’inganna… Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962, Bologna, Il Mulino, 1987.

Lidia Luzzatto Bressan, Gli scomparsi da Gorizia nel maggio 1945, a cura del Comune di Gorizia, Associazione Congiunti dei Deportati in Jugoslavia, 1980, pag. 16

Orietta Moscarda Oblak, “La presa del potere in Istria e in Jugoslavia. Il ruolo dell’OZNA”, «Quaderni del Centro Ricerche Storiche Rovigno», vol. XXIV, 2013, pp. 29-61.

Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria. Chi imprigiona la verità sulla guerra civile, Sperling & Kupfer, 2007.

Joze Pirjevec, “Il ruolo del Fronte di Liberazione”, in Pietro Spirito, Roberto Spazzali (a cura di), L’altra Resistenza. La guerra di liberazione a Trieste e nella Venezia Giulia, Ote SpA, «Il Piccolo», Trieste, 1995, pp. 47-54.

Maria Pia Premuda Marson, L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda tra le epurazioni finalizzate al tentativo di porre una parte del nostro stato sotto la sovranità della nascente confederazione jugoslava, Padova, Cleup, 2017.

Maria Pia Premuda Marson, La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda comandante della Brigata Fratelli d’Italia, campeggia nella lotta per la liberazione della seconda guerra mondiale nei ricordi della popolazione più anziana dei paesi tra Piave e Livenza, Padova, Cleup, 2020.

Paolo Radivo, La strage di Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive, Libero Comune di Pola in esilio, «L’Arena di Pola», 2016.

Luigi Raimondi Cominesi, Poesie di lotta e di speranza. Frammenti dal 1944 al 2009, a cura di Pietro Angelillo, Pordenone, Istituto Provinciale per la Storia del Movimento di Liberazione e dell’Età Contemporanea, 2010.

Alvaro Ranzoni, “Se interviene anche l’Islam”, «Panorama», 21 luglio 1991.

Giorgio Rochat, Atti del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà, Milano, Angeli, 1972.

Renato Rozio, La paga del guerriero. Le vicissitudini di un partigiano della Divisone Garibaldi-Natisone sul Collio e in territorio sloveno (1944-1945), Udine, Del Bianco, 1997.

E. Varutti, Giuseppe Baucon, di Gradisca, salvatosi dalla fucilazione titina e dalla foiba a Circhina nel 1944, on line dal 20 settembre 2018 su blog-di-elio-varutti.webnode.it

Elio Varutti, L’Ozna di Tito in Nord Italia tra guerra e dopoguerra, on line dal 9 giugno 2020 su eliovarutti.wordpress.com

E. Varutti, L’ombra dell’Ozna in omicidi partigiani in Veneto. Il caso Vittorio Silvio Premuda, 1944, on line dal 10 agosto 2020 su eliovarutti.wordpress.com

Antonio Zappador, 29.200 giorni. Una vita piena di tutto… di più, Carpi (MO), stampato in proprio, 2019.

Maria Grazia Ziberna, Storia della Venezia Giulia da Gorizia all’Istria dalle origini ai nostri giorni, Gorizia, Lega nazionale, 2013.

Testi e Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e Elio Varutti. Lettore: Enrico Modotti. Disegni di Maria Iole Furlan. Copertina: Maria Iole Furlan, Elementi dell’Ozna accoltellano un italiano a Verteneglio nel 1950, matita su carta, cm 16×22, 2021, courtesy dell’artista. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia, 29 – I piano, c/o ACLI – 33100 Udine – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Massacro gappista del Ghebo, in Friuli e i poliziotti di Udine al lager, 1944-’45

L’uccisione di persone inermi da parte dei partigiani spesso non è passata alla storia. La retorica partigiana del dopoguerra è orientata ad esaltare solo certe vicende, tacendone invece quelle troppo scomode, come hanno scritto Giampaolo Pansa e Andrea Zannini. Questo non è stato un buon servizio alla storia della Resistenza che, a detta di molti autori, ha come principale merito quello di aver contribuito, con gli alleati, alla sconfitta dei nazisti.

La notizia sul massacro gappista del Ghebo risale al 21 novembre 2013. I gappisti sono i Gruppi di Azione Patriottica, appartenenti al Partito Comunista d’Italia. Quel giorno sul «Messaggero Veneto» compare un commento del signor Renzo Piccoli intorno al dibattito apertosi nella Bassa friulana sull’intitolazione di una strada a un capo partigiano. Il titolo del brano è “Quel partigiano tanto osannato sotto Natale ha ucciso mio padre”. Il partigiano da ricordare sarebbe Gelindo Citossi (1913-1977) di San Giorgio di Nogaro, nome di battaglia Romano il Mancino, il cui covo era nel Casale Papais, pare nel Codroipese. Detto Citossi, al comando dei Diavoli rossi, partigiani garibaldini, è celebre per l’assalto al carcere di Udine travestiti da tedeschi, un’arrogante azione che ebbe risonanza fino all’estero. Accadde il 7 febbraio 1945, anche se di scarso profitto bellico, l’operazione fa liberare 73 detenuti, ma vengono uccisi due poliziotti giudiziari. Ciò provoca la rabbiosa rappresaglia nazista con la fucilazione di 23 partigiani e ostaggi sul muro del Cimitero di Udine. I nazisti attuano tale dura rappresaglia, come ci si poteva aspettare avendo un briciolo di tattica militare. Si tenga conto poi che tra i poliziotti di Udine c’è un sentimento badogliano e, addirittura, come riferito da don Emilio De Roja, ci sono questurini che passano ai preti atti di liberazione firmati in bianco, per far uscire proprio i detenuti partigiani, in barba ai tedeschi (vedi in bibliografia: Don Emilio 1992, p. 41). Proprio dei questurini di Udine vicini alla Resistenza ne riparleremo più sotto.

Qualche autore ha rilevato la coincidenza della data scelta da Romano il Manzin, comandante dei Diavoli Rossi. Il 7 febbraio è lo stesso giorno dell’eccidio di Porzùs, Comune di Faedis (UD), anzi sembra fatto apposta per oscurare quel triste ammazzamento fra partigiani. Il 7 febbraio 1945, infatti, alle malghe di Porzùs, diciassette partigiani (tra cui una donna, loro ex prigioniera) della Brigata Osoppo Friuli (BOF), di orientamento cattolico, monarchico e laico-socialista, sono fucilati da parte di un gruppo di partigiani, in prevalenza gappisti di San Giovanni al Natisone (UD) e dintorni. Ciò segna il punto massimo delle tensioni fra partigiani garibaldini (pro-titini sloveni) e le BOF, che invece difendevano l’italianità del territorio, contro l’espansionismo iugoslavo.

Copertina del romanzo di Elio Bartolini

Ritorniamo al massacro del Ghebo, termine dialettale per un canale d’acqua nei pressi di Codroipo (UD). Tale parola è utilizzata sia nella Bassa friulana (vedi: Corso Regeni) che nel vicino Veneto. La notizia della nuova intitolazione stradale al suddetto partigiano “mi ha toccato nel profondo – ha scritto Renzo Piccoli – e più di un pensiero ho rivolto a mia madre e mia sorella, che non ci sono più, per il fatto che questo ‘eroe’ partigiano garibaldino, è stato autore di un episodio per me malvagio, commesso in nome della Resistenza. Dopo settanta anni, lungi da me l’idea di alimentare polemiche, desidero ricordare l’episodio che ha visto protagonista l’eroe che ha sconvolto e distrutto la mia famiglia. Il fatto è avvenuto il 16 dicembre 1944, protagonista quel tale, incensato con una pubblicazione e addirittura con un brano musicale”. Renzo Piccoli è nato a Fiume nel 1937 da Firminio e Vittoria Simeoni “dove mio padre friulano si era recato a lavorare nel locale silurificio negli anni ‘20 e nel 1943 vedendo tempi bui spinse mia madre a rientrare in Friuli a Segnacco di Tarcento con i bambini presso i nonni”.

Firminio Piccoli resta a Fiume e diventa autista personale dell’ingegnere capo del Genio civile dell’Istria e Dalmazia, viene militarizzato con il compito di guidare un camion a gasogeno che fa la spola tra Fiume, il Friuli e il Veneto per trasportare generi alimentari. I prodotti sono destinati alla popolazione civile da distribuirsi con la tessera annonaria, come emerge dal Dossier Firmino Piccoli, fornitomi dallo stesso Renzo Piccoli, nel 2019.

In occasione delle feste natalizie 1944, in viaggio nel Basso Friuli, l’autista Piccoli, in abiti civili, “è stato intercettato dalla banda di partigiani garibaldini sulla strada che da San Martino di Codroipo conduce al paese di Lonca, nei pressi di Villa Manin di Passariano – continua lo scritto di Renzo Piccoli sul «Messaggero Veneto» –. Qui i partigiani, rubato o requisito il carico, considerato un esproprio proletario, hanno ucciso mio padre (36 anni) e il suo aiutante, addetto alla legna nella caldaia del gasogeno, lasciandoli stesi nell’acqua delle Risorgive. Di questo eccidio non si è avuto riscontro nei giornali di allora, ma si trova traccia in una pubblicazione con l’elenco delle vittime della Resistenza. Negli anni ‘60 mi sono attivato per conoscere meglio il fatto e il luogo: sono venuto a sapere da un fattore, che lavorava i terreni di proprietà Kechler, che, giunto primo sul luogo, ha scoperto i cadaveri avvertendo le autorità comunali di Codroipo”.

Renzo Piccoli, oltre ad avere alcune testimonianze di partigiani locali, come l’osovano Marco Cesselli, ha anche un contatto con lo scrittore Elio Bartolini, che aveva partecipato alla Resistenza nella zona. “Bartolini – prosegue lo scritto di Piccoli – nel suo primo libro descrive sia il luogo, chiamato con il titolo ‘Il Ghebo’, sia le gesta del capo partigiano, che chiama ‘Il monco’, crudele, feroce, spietato nelle sue scorrerie con i suoi seguaci, giovani attratti dalla sua personalità e intraprendenza, ma nulla della sorte di mio padre. A me è rimasta l’amarezza per l’episodio: sopprimere a freddo, due vite, due padri di famiglia, per poi festeggiare con i generi alimentari. Mi permetto infine di ricordare, che allora, tre fratelli di mio padre si recarono nel cimitero di Codroipo per ritirare la bara con un triciclo. Impiegarono tre giorni ad arrivare nella casa dei miei nonni. Il funerale si è svolto la vigilia dell’ultimo Natale di guerra. Ricordo ancora bene, io (6 anni) e mia sorella (14 anni), soli, perché la mamma era disperata e sconvolta, dietro la bara di mio padre che era portata a spalle da uomini anziani del paese, arrancando sulla salita al cimitero di Sant’Eufemia. Questa è la tragedia di cui è stato capace tale che alcuni intendono osannare, mentre lui è subito fuggito in Jugoslavia con i suoi rimorsi. Caro direttore, mi creda, per la mia famiglia è stato un dramma. Ringrazio per l’ospitalità. Renzo Piccoli, Udine”.

Si può aggiungere che i tre fratelli Piccoli con la bara del congiunto Firmino sul triciclo nel viaggio di tre giorni da Codroipo a Segnacco di Tarcento hanno rischiato non poco con i cacciabombardieri anglo-americani che dominavano i cieli del Friuli. Si fa solo un cenno conclusivo alla famiglia sconvolta dall’eccidio del Ghebo. La mamma di Renzo, Edda Piccoli, rimasta vedova, mette in collegio i figli e emigra in Svizzera per lavorare in una fabbrica di calze femminili. Renzo Piccoli si diploma geometra all’Istituto “A. Zanon” nel 1956. Lavora presso studi tecnici della città, poi vince un concorso in Provincia e lavora anche all’Istituto Autonomo delle Case Popolari, fino al pensionamento.

Fiume, 1945, esodo. Luciana Stella commenta: “In primo piano, il secondo da destra, mio zio materno Livio Fantini, anche lui se ne sta andando, insieme ad altri esuli fiumani, spingendo un carretto: “Nello spingere quel carretto, non sapevo se ridere o piangere. Ridere perché ero contento di andare via, ovunque, con la speranza di ricominciare una vita nuova, piangere per la paura di non ritornare più nella mia cara Fiume”. Foto tratta dal libro di storia ed emigrazione dal titolo: Per l’Australia, scritto da Julia Church e la collaborazione di Pino Bartolomè. Grazie a Luciana Stella, di Milano, che ha scritto in Facebook il 6 febbraio 2020, tale messaggio.

Le sanguinarie gesta dei Diavoli rossi

Paolo Barbaro, negli anni ’80 del Novecento descrive in una serie di racconti la vita nella pianura veneta tra vari corsi d’acqua (Brenta, Bacchiglione, Zovòn, Ceresone…). Sono storie contadine di famiglie numerose, dove otto di dodici cugini “con la giusta età erano distribuiti fra Albania, Grecia, Croazia Africa e Russia…”. Oltre alle guerre fasciste e ai conseguenti morti lo scrittore non va. Si occupa molto di emigrazione in un clima di umile saga padana. Paolo Barbaro pubblica così Storie di Ronchi nel 1993.

Chissà perché il romanzo storico di Elio Bartolini, ambientato nella primavera del 1945 e intitolato Il Ghebo, sulle gesta dei partigiani gappisti tra Codroipo e Palmanova, scritto nel 1946, invece fu respinto dalla pubblicazione da Elio Vittorini? Trova un editore solo nel 1970 a Udine, lontano dalle piazze culturali nazionali, ancora intente ad incensare i partigiani in base ad una linea unidirezionale, indiscussa ed indiscutibile.

Forse perché Bartolini, partigiano egli stesso nel Basso Friuli, è uno che parla chiaro. Accenna all’eccidio di Porzùs, pur non nominandone il sito (vedi Il Ghebo, pagg. 55 e 88). Descrive egli l’uccisione di partigiani effettuata da altri partigiani, per assecondare l’espansionismo iugoslavo. È troppo politico, come ha rilevato furbescamente Elio Vittorini, dopo aver letto le bozze di una stampa poi da lui stesso bloccata.Ècritico nei confronti di una spietata banda partigiana, quella comandata da Il Monco, facilmente individuabile in Romano il Mancino. Come si muovono costoro e cosa fanno? Nelle 150 pagine del romanzo si nota che detti partigiani sono spesso ubriachi (pp. 10, 37, 38 e 51) sia alla Cartera, sede delle loro operazioni, che in altri luoghi. Sono crudeli e con scarsa disciplina (pp. 12 e 34), ben pronti a fregare camion pieni di roba da portare oltre il Collio, in quella che sarà la Jugoslavia di Tito, per far bella figura coi titini, che li hanno ben posti sotto il Comando militare del IX Corpus. Bartolini spiega che gli slavi volevano annettersi, oltre all’Istria, Fiume e Dalmazia, anche un pezzo di Friuli, fino al Tagliamento (pp. 55, 65 e 102). Spietati e sanguinari, detti partigiani sono pronti a fucilare senza processo dei civili con la presunta accusa di spionaggio, andando contro le disposizione del Comitato di Liberazione Nazionale, il CLN (p. 61) o addirittura i loro stessi compagni  di battaglia fuggiti dopo che il mitragliatore si inceppa (p. 117). È gente pronta a fare la leva obbligatoria tra Palmanova e Codroipo, come gli Sloveni nel Collio (p. 85). Rubano oggetti ai cadaveri (p. 101) e sono pronti nell’accusare gli altri di far borsa nera, mentre loro stessi hanno dei magazzini pieni di ogni ben di dio (pp. 9 e 97). Sono così mal preparati militarmente che nei loro magazzini pieni di roba rubata non sanno nemmeno mettere qualcuno di guardia (p. 139).

Vari gappisti al termine della guerra fuggono nella Jugoslavia di Tito. Nel 1946 anche Mario Toffanin “Giacca”, lo stragista di Porzùs, se la svigna a Capodistria, evitando il carcere successivo alla condanna comminatagli nel 1951 al processo della Corte d’Assise di Lucca. Pure certi Diavoli Rossi se la mocano in Jugoslavia, primo fra tutti il loro caporione Gelindo Citossi, poi pure Norberto Sguazzin e un certo “Tom”, di Mortegliano; “emigrano in Jugoslavia”, come ha scritto Francesca Artico. Alcuni di tali partigiani fuggiti in Istria, come “Giacca”, Mario Abram (partigiano rosso triestino), Nerino Gobbo (noto infoibatore) e Giuseppe Krevatin se la prendono coi preti italiani, minacciandoli e picchiandoli a sangue, come ha riportato il «Giornale di Trieste» del 23 novembre 1951. Poi quando i titini vogliono fare piazza pulita dei cominformisti, dei comunisti storici e degli stalinisti, certi partigiani italiani scappati nel “paradiso di Tito” svicolano in Cecoslovacchia, perché neanche Tito li vuole più tra i piedi. Quelli che riesce a beccare li deporta all’Isola Calva (Goli Otok) dove patiscono e muoiono di stenti, come in ogni campo di concentramento. Alcuni dei fuggitivi in Cecoslovacchia, forse per la coscienza sporca, cambiano addirittura nome, imbrogliando sui documenti.

Ci sono poi comandanti partigiani della Divisione “Garibaldi-Natisone” assassinati dai loro stessi compagni. È successo il 30 aprile 1945 a Leo Scagliarini con un colpo alla nuca a Rizzolo di Reana del Rojale (UD). Pur essendo un democratico libertario, egli si aggrega nel 1944 alla brigata “Picelli”, col nome di battaglia “Ricciotti”, perché erano le unità più robuste per combattere i nazifascisti, ma con la metà di gennaio 1945 finiscono sotto il comando del IX Corpus titino. La spiegazione fornita dai partigiani invece narra di una morte per il fuoco amico di un aereo da caccia inglese che mitraglia una colonna di partigiani e l’autovettura con dentro “Ricciotti” il 29 aprile. Pare che l’assassino sia stato lo stesso “Giacca”, molto ostile a “Ricciotti”, che intendeva liberare Udine il 1° maggio con le bandiere tricolori e non con quelle rosse dei comunisti. Su tale eliminazione non è mai stata aperta un’indagine giudiziaria, come ha scritto Pansa (pp. 291-315).

Mario Savino, vice commissario di Polizia a Udine, 1944. Fotografia famiglia Savino

Mario Savino, vice commissario di polizia a Udine e i suoi colleghi 1944-1945

Parliamo ora di un poliziotto che lavorava a Udine nel 1944-1945. È un milite italiano che “conobbe gli orrori di Dachau, Ebersen e Mauthausen”, come si legge sul quotidiano «Libertà» 13 marzo 1946. Si tratta di Mario Savino, vice commissario di Pubblica Sicurezza a Udine. Catturato dai nazisti con l’accusa di collaborazione col movimento partigiano, fu deportato nei lager dove trovò la morte. “Non piangere, che tanto tornerò” – disse dal vagone bestiame alla fidanzata a Udine, mentre lo stavano portando via, assieme a un gruppo di alcuni suoi colleghi poliziotti. La fidanzata, la signora V., nata nel 1924 a Tarvisio, intendendo la lingua tedesca, venuta a conoscenza su dove si trovasse, non si perse d’animo e volle raggiungerlo, assieme ad una sorella, per portargli un pacco di vestiario e di viveri, come ha raccontato Clelia Savino. Il vice commissario aveva chiesto alla fidanzata un pacco di farina di carrube, forse per avere qualcosa di molto nutritivo, con buone calorie (tra il 50 e il 60% di zucchero) e di facile assimilazione in prigionia.

La signora V. e la sorella giunsero fino al Campo di concentramento di Ebersen, sotto-campo di Mauthausen. Trovato un tizio che lavorava nel campo stesso, furono consigliate di andare via, altrimenti avrebbero preso pure loro. Lasciarono il pacco, ma non seppero più nulla del dottor Mario Savino, cui dal 2005 è dedicata una lapide nel cortile della Questura di Udine, assieme ad altri otto funzionari e poliziotti sterminati nei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald. Mario Savino era nato a Pozzuoli (Napoli) nel 1914 e morì a Mauthausen il 15 marzo 1945.

Lapide nel cortile della Questura di Udine, in viale Venezia in ricordo dei poliziotti deportati e massacrati nei lager nazisti. Fotografia famiglia Savino

Un altro fatto sconvolgente coinvolge la famiglia della signora V., che gestiva l’albergo “Trieste” a Tarvisio, coma ha raccontato Fulvia Zoratto. Il giovane fratello della signora V., essendo stato riformato per problemi cardiaci alla chiamata alle armi, si trova a lavorare dietro il bancone della ditta di famiglia dopo il 1943. Un giorno entrano un gruppo di soldati tedeschi, ai quali il barista tarvisiano risponde gentilmente in lingua tedesca. A un ufficiale non va giù che un giovane così solerte non sia a combattere per il grande Reich, così si mette a canzonare il ragazzo del bar. Ad un certo punto, presa in mano la pistola, l’ufficiale lo minaccia puntandogliela alla tempia. Colto dal panico, il giovane fratello della signora V. muore d’infarto, davanti al bullo, ma esterrefatto ufficiale tedesco. La notizia crea scalpore in tutto il paese, andando a scalfire il buon rapporto che i soldati di Hitler tentavano di instaurare nella Valle tedescofona, oltre che italofona e slovenofona.

Lapidi da correggere

L’ultima notazione riguarda il motivo per cui lo Sicherheitsdienst (SD), servizio segreto delle Waffen SS, il 22 luglio 1944 fa circondare da un plotone di soldati tedeschi la Questura di Udine, che allora ha sede in via Treppo per arrestare circa 30 poliziotti, alcuni dei quali deportati nei lager. Tutto è dovuto al ritrovamento di una lista di dirigenti e poliziotti compromessi con la Resistenza, vergata secondo le informazioni di Guglielmo Iacuzzi, di Sedegliano. Come ha scritto Bruno Bonetti, tale Iacuzzi, già al servizio della SD germanica a Udine, in quanto doppiogiochista passa alle formazioni partigiane. Dal marzo 1944 Iacuzzi è a capo dell’Ufficio SD 1724 di via Lovaria 4, che poi cambia sede in via Montenero 4, disponendo di oltre 15 uomini alle sue dipendenze ed essendo in contatto con altri servizi segreti (Bonetti, p. 68-77). Quindi lo spione, nella veste di partigiano tarocco viene arrestato e fucilato al carcere il 10 dicembre 1944 in via Verdi, assieme ad altri tre patrioti veri. Incredibile che una lapide a ricordo della fucilazione dei quattro detenuti sia ancora lì integra, compreso il nome del doppiogiochista, nonostante si sappia dalla recente ricerca storica che Iacuzzi sia una volgare spia infiltrata tra i partigiani.

Udine, via Verdi, lapide in ricordo di 4 partigiani uccisi dai nazisti, tra i quali c’è ancora il nome di Iacuzzi, spia dello Sicherheitsdienst (SD), il servizio segreto delle Waffen SS

Spari al carcere di Via Spalato a Udine

Tra i luoghi di detenzione a Udine c’era il carcere di Via Spalato, oltre alle celle del tribunale di Via Treppo, davanti al quale furono fucilati quattro partigiani, come il giovane Antonio Friz “Wolf”, di Pontebba, più precisamente “in vie de Roe”, ossia al civico n. 30 di via Verdi, dove scorre la roggia. Sul muro del tribunale fu posta una lapide, che ricorda i quattro partigiani lì fucilati, tra i quali appunto Friz e una spia.

A livello popolare la prigione cittadina era detta “Al Grande Albergo di Via Spalato”, come ha scritto Plinio Palmano, incarcerato nel luglio 1944. Il carcere era per 250 posti, ma erano reclusi centinaia di individui, in attesa di essere trasferiti ai Campi di concentramento nazisti. Palmano cita il maresciallo delle Waffen SS Hans Kitzmüller, che compì il voltafaccia, facendo liberare alcuni reclusi fra i quali “Verdi” [Candido Grassi], “Mario” [Manlio Cencig] e altri (p. 100). Ecco il numero dei detenuti passati per il carcere di Via Spalato a Udine tra l’8 settembre 1943 e la fine di aprile 1945. Vedi la tabella n 1. Per i nomi dei comandanti partigiani si è visto il libro di Primo Cresta.

Tabella n. 1 –  Detenuti entrati al carcere di Udine, 1943-1945

Condannati a morte (sentenza eseguita)                 98

Deportati in Germania                                           7.414

Deportati per lavori dalla TODT                              753

Rimessi in libertà                                                    1.647                

TOTALE                                                                 9.912

Fonte: Plinio Palmano, “Al Grande Albergo di Via Spalato”, «Avanti cul Brun!», 1946, p. 106.

Oltre a via Spalato e al carcere del tribunale di via Treppo, le Waffen SS avevano altre prigioni per interrogatori nelle case requisite agli udinesi. Ad esempio “in una villa sulla strada per Tricesimo da piazzale Osoppo – ha detto Franco Pischiutti – nell’attuale viale Volontari della Libertà [allora viale Principe Umberto], ci fu un comando delle Waffen SS”. Lo stabile è a sinistra dopo i moderni condomini; lì si dice che siano stati torturati e uccisi certi prigionieri dai tedeschi e, forse, sepolti in loco. Ne fa cenno la Carta della Gestapo, pubblicata dall’ANPI di Udine nel 2019; in genere non si sa che il documento originario di tale mappa era nelle mani dell’onorevole Lorenzo Biasutti, dimenticato da qualcuno nella osteria Alla Buona Vite di via Treppo, poi fu consegnata al professor Luigi Raimondi Cominesi, che la studiò a lungo. Che la villa di viale Principe Umberto “della famiglia Agostinelli” fosse un comando tedesco lo scrive Bruna Sibille Sizia, a pag. 125, del suo libro intitolato Diario di una ragazza della Resistenza. Friuli 1943-‘45.

Poi si sa che: “Le Waffen SS avevano un comando a Udine sud – ha aggiunto Franco Pischiutti – so che in via San Martino avevano occupato la villa Elisa, proprietà di ebrei rifugiatisi in Veneto, per sfuggire alle deportazioni naziste. Certi Gentilli si erano rifugiati clandestini a Gemona del Friuli presso la famiglia Cesarino Sabidussi”. Che cosa dicevano i vecchi udinesi dei tedeschi? “Si è saputo che i nazisti a Udine cercavano gli ebrei possidenti per derubarli, prima della deportazione nei lager – secondo le fonti del quartiere – questi gerarchi tedeschi chiedevano agli ebrei di Udine e dintorni se potessero pagare con denaro, gioielli, oro ed altri valori così avrebbero avuto una specie di salvacondotto per salvare la pelle, ma poi li avrebbero comunque fatti deportare nei Campi di concentramento”.

Oltre alle testimonianze, si sa dal libro di Fölkel, che a Udine, in via San Martino, dal mese di dicembre 1943 funziona l’Abteilung R/3, alle dipendenze di Franz Stangl, in collegamento alle Waffen SS ucraine di stanza a campo di concentramento triestino di San Sabba, con servizi anche a Castelnuovo d’Istria. Il gruppo specializzato nella cattura di ebrei nella zona di Fiume è l’Abteilung R/2, sotto il comando di Reichleitner. Ogni comando d’azione Reinhard (Aktion Reinhard) agisce tra Carso, Friuli ed Istria con retate, fucilazioni e impiccagioni. È suddiviso in tre gruppi: a Trieste, San Sabba c’è l’Abteilung R/1, a Fiume l’Abteilung R/2 e a Udine  l’Abteilung R/3 (Fölkel p. 53, 56, 123).

Certe fonti riferiscono che davanti al carcere di via Spalato, dove erano reclusi sospetti partigiani, ebrei e militari italiani in attesa della deportazione, ci fossero dei fascisti in abiti civili che, per intimidire, sparavano alle spalle delle donne che portavano vestiti puliti e cibo ai prigionieri. In carcere tra i partigiani rastrellati, c’è Luigi Barbarino, Matiònow (Resia 1914 – Flossembürg 1945). Era egli un appartenente al “Rozajanski bataljon”, collegato al IX Korpus di Tito dell’Osvobodilna Fronta – Fronte di Liberazione della Jugoslavia, con i capi venuti dalla Slovenia interna. Fu catturato a Resia dai nazisti, per una delazione e morì nel lager, per le ripetute percosse. “Ce lo raccontava sempre la zia Anna Valente – ha detto Lucillo Barbarino – che certi civili le sparavano alle spalle, per farle paura, gridando: ‘partigiana, partigiana’; la zia abitava in via Cisis e portava una gavetta di minestra a mio padre Luigi Barbarino. Lei e mio zio Odorico Valente aiutavano sempre la gente di Resia, che scendeva in treno dal paese in pianura a cercare cibo e aiuti vari. Ricordo che nel dopoguerra, mentre ritornavo a casa a Resia dal collegio di Cividale del Friuli per la domenica, vedevo salire in treno da Tricesimo a Gemona del Friuli le donne resiane, di Chiusaforte e di Pontebba con lo zaino pieno e il sacco di farina; erano andate a chiedere la carità ai friulani dei paesi, oppure scambiavano un po’ di noci, mele, o facevano qualche lavoro nei campi per avere roba da mangiare. C’era tanta fame e la gente dei paesi ci ha aiutato molto”.

Cimeli della Seconda Guerra mondiale. Bustina partigiana (titovka), Collez. di un resiano, elmetto italiano, gavetta italiana (piccola), gavetta di alpino (grande), borraccia americana e tascapane italiano. Coll. private Udine

Documenti originali

Renzo Piccoli, Dossier Firmino Piccoli, Udine, 18 marzo 2019, cc. 5, ms.

Fonti orali

Interviste effettuate da Elio Varutti con penna, taccuino e macchina fotografica a Udine. Lucillo Barbarino, Matjònawa, (Resia 1941), int. telefonica del 23 aprile 2020.

Renzo Piccoli, Fiume 1937, intervista del 18 marzo 2019.

Franco Pischiutti, Gemona del Friuli 1938, int. del 5 febbraio 2020.

Clelia Savino, Udine 1946, int. del 27 ottobre 2016.

Fulvia Zoratto, Udine 1950, int. del 19 marzo 2019.

Collezioni familiari. Lucillo Barbarino, Resia (UD), bustina partigiana 1944.

Giorgio Gorlato, esule da Dignano d’Istria a Udine, fotografia 2019.

Luciana Stella, di Milano, commento alla fotografia dell’esodo da Fiume 1945.

Famiglia Savino, Udine, fotografie, lettere, ritagli di giornali, 1944-2014.

Cenni bibliografici

Francesca Artico, “Morto ‘Ferro’, partigiano dei Diavoli Rossi”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Cervignano Latisana Bassa, 19 aprile 2020, p. 37.

Paolo Barbaro, Storie dei Ronchi, Venezia, Edizioni del Gazzettino, 1993.

Elio Bartolini, Il Ghebo, Udine, La Nuova Base, 1970.

Bruno Bonetti, Manlio Tamburlini e l’albergo nazionale di Udine, Pasian di Prato (UD), L’Orto della Cultura, 2017.

Rosanna Boratto (a cura di), La Carta della Gestapo. Decifrazioni e misteri di un itinerario della memoria, Udine ANPI, 2019.

Primo Cresta, Un partigiano dell’Osoppo al Confine orientale, Udine, Del Bianco, 1969.

“La criminosa impresa organizzata dopo un invito al ‘popolo’ ad agire contro il clero”, «Giornale di Trieste», 23 novembre 1951.

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Maria Teresa Corso Regeni, Vocabolario maranese. Vocabolario fraseologico veneto-italiano varietà di Marano Lagunare (UD), Latisana (UD)-San Michele al Tagliamento (VE), la bassa / vocabolari 2, 1990.

Don Emilio, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1992.

Ferruccio Fölkel, La Risiera di San Sabba. L’Olocausto dimenticato: Trieste e il Litorale Adriatico durante l’occupazione nazista, Milano, Bur, 2000.

Plinio Palmano, “Al Grande Albergo di Via Spalato”, «Avanti cul Brun!», n. 46, 1946, pp. 99-107.

Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria. Chi imprigiona la verità sulla guerra civile, Sperling & Kupfer, 2007.

Bruna Sibille Sizia, Diario di una ragazza della Resistenza: Friuli 1943-’45, Udine, Kappa Vu, 1998.

Andrea Zannini, “Dal linciaggio di Solaro alla strage di Schio: alla fine della guerra scoppia la resa dei conti”, «Messaggero Veneto», 11 maggio 2020, p. 32.

Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Copertina: fotografia di Giorgio Gorlato a Renzo Piccoli durante una gita dell’ANVGD del 2019. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.