Basta con l’ANPI. Parola del patriota Igino Bertoldi, della Divisione Osoppo Friuli

Perché fare assieme le manifestazioni dell’Associazione Osoppo con l’ANPI? Se lo chiede Igino Bertoldi, detto Ercole, Bogomiro o Ragamir, nato a Tavagnacco (UD) il 29 agosto 1926. È stato un patriota delle Brigate Osoppo, di area cattolica, azionista, monarchica e laico-socialista. Poi Volontario della libertà, per il periodo 1945-1948, in contatto con gli angloamericani. Dal 1948 al 1954, Igino ha fatto parte dei ‘Volontari Difesa Confini Italiani VIII’, col nome di ‘Bogomiro’, oppure ‘Ragamir’. “Se non ci fossimo stati noi adesso qui ci sarebbe un’altra nazione – ripete come un ritornello – ora sono dall’Associazione Partigiani Osoppo-Friuli (APO) di Udine”. Non gli piacciono i “miscugli ANPI – APO”, come li chiama lui. È che l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI), secondo lui, è schierata con i comunisti e certi suoi dirigenti sono giustificazionisti dell’eccidio di Porzûs e negazionisti della tragedia delle foibe istriane.

Gli strali di Bogomiro sono contenuti in una lettera, del 18 ottobre 2023. Sostiene che ci sia “una grave responsabilità nei confronti di noi combattenti ed in particolare dei nostri martiri dell’eccidio di Porzûs e delle foibe trucidati per creare il terrore nella popolazione” (Lettera al Presidente dell’APO 2023 : 2).

Vero è che certi storici descrivono la soppressione di un partigiano osovano effettuata dai partigiani garibaldini comunisti di Tavagnacco genericamente in questo modo: “Stella Arrigo (Robur). Classe 1923. Partigiano 3^ Brg. Osoppo Friuli. Ucciso a Laipacco il 28.4.1945 da forze partigiane” (Angeli 1994, pp. 139, 167-168).

Per Igino Bertoldi l’ANPI filo-comunista è la discendente ideologica dei partigiani dei Gap, i Gruppi di Azione Patriottica, creati dal Partito comunista, che dal 7 febbraio 1945 a Porzûs, in Comune di Attimis (UD), oltre che al Bosco Romagno (Cividale del Friuli) e Drenchia passarono per le armi il Comando partigiano della Osoppo, che si opponeva alle annessioni territoriali jugoslave e non volle sottostare al comando del IX Corpus di Tito.

Gorizia, 11 giugno 2023 – È stato inaugurato il nuovo Lapidario con i nomi di altre 97 vittime, oltre alle già 600 deportazioni ricordate col monumento del 1985. Fotografia dell’ANVGD

Pochi studiosi spiegano che i titini, oltre ad occupare Fiume, Pola, Trieste e Gorizia, sono giunti sino a Monfalcone, Muggia, Romans d’Isonzo, Cividale del Friuli, Aquileia e Cervignano del Friuli, nella Bassa friulana, arrestando e ammazzando a destra e a manca. Una jeep di artificieri iugoslavi fu vista da partigiani della Osoppo sulle rive del Tagliamento, vicino ad un ponte. Come ha scritto Maria Grazia Ziberna a Gorizia “il periodo dell’occupazione titina, dal 2 maggio al 12 giugno 1945, vide la costituzione nella Venezia Giulia dello Slovensko Primorje, cioè il Litorale Sloveno, che aveva come capoluogo Trieste e comprendeva anche il circondario di Gorizia, diviso in sedici distretti e composto anche dai comuni di Cividale del Friuli, Tarvisio e Tarcento [in provincia di Udine], considerati slavofoni” (Ziberna 2013 : 83). Proprio da Gorizia e da Trieste ricevette l’ordine di allontanarsi, nel Natale del 1944, dai comandi del IX Corpus titino la Divisione Garibaldi Natisone, formata da comunisti italiani. Così si poteva meglio annettere quelle terre alla Jugoslavia a fine conflitto, magari fino al fiume Tagliamento. Solo quelli delle Brigate Osoppo rifiutarono l’ordine slavo, così furono sterminati i comandi alle maghe di Porzûs e nel Bosco Romagno (Moretti 1987 : 193). Altre eliminazioni avvennero a Premariacco (UD), come emerso nel 2016 dall’archivio di quel comune.

Durante i 40 giorni di occupazione titina a Gorizia avvennero molti arresti di italiani contrari al nuovo regime jugoslavo, con l’aiuto dei miliziani comunisti della Divisione Garibaldi. Sono riusciti sicuramente a salvarsi sei militari italiani nei primi giorni dell’occupazione del IX Corpus sloveno, avvenuta tra il 2 maggio e l’11 giugno 1945. È stato Sergio Pacori a nasconderli in una stanza di casa. “Quando sono arrivati i partigiani titini per controllare le abitazioni – ha detto Pacori – conoscendo lo sloveno, li ho intrattenuti e portati in giro per la casa, senza farli entrare, ovviamente, nel vano degli sbandati, finito il controllo, i titini se ne sono andati soddisfatti e io avevo salvato quei sei soldati italiani dalla deportazione in Jugoslavia”.

C’è poi la vicenda di Arrigo Secco, nato a Faedis nel 1916, nome di battaglia Secondo. È uno di quelli che riuscì a salvarsi dall’eccidio di Porzus, messo in atto dai partigiani comunisti garibaldini il 7 febbraio 1945, per uccidere 17 partigiani osovani, compresa una donna, con la scusa di essere “fascisti, monarchici, traditori”. A raccontare l’episodio, tramandato nelle vicende familiari è una sua discendente: Monica Secco, insegnante di matematica a Udine. “Zio Arrigo era sposato con la partigiana Vania – ha detto la professoressa Monica Secco – e scampò ai fatti di Porzus, poiché incaricato di recarsi in paese in missione, così mi hanno raccontato i famiglia”. Arrigo Secco morì a Udine nel 1968 e, per la sua attività nella Resistenza, fu insignito della medaglia di bronzo. Fin qui i ricordi familiari.

L’attività partigiana di Arrigo Secco, detto Secondo, è documentata pure in un libro di Giampaolo Gallo sulla Resistenza in Friuli. Prima ancora che nascessero le Brigate Osoppo Friuli (Bof), egli combatté dalla metà di settembre 1943 nel battaglione “Rosselli”, composto da un numero variabile di uomini che andava da 40 a 70 elementi. Fu il primo distaccamento “Giustizia e Libertà”, sorto ad opera del Partito d’Azione al comando di Carlo Comessatti, nome di battaglia Spartaco. Il vice-comandante era Alberto Cosattini, detto Cosimo, mentre il commissario politico era Fermo Solari, Somma.

Pensare che “i primi patrioti di Udine, dopo l’8 settembre 1943 – ha detto G.P.F. – si ritrovarono all’Osteria Alla Ghiacciaia, una sorta di tempio degli Irredentisti nella Grande guerra”. Avevano uno spirito di solidarietà cristiana. Erano anti-tedeschi e col vessillo del tricolore senza altri emblemi. Alcuni erano monarchici, perciò chiamati: traditori badogliani. Rifiutavano la divisa tedesca o della R.S.I. Non volevano egemonie di partigiani garibaldini rossi e nemmeno di partigiani comunisti sloveni di Tito che erano, secondo A. B.: “i più tremendi e sanguinari”. Nel Comune di Premariacco (UD), Roberto Trentin ha detto: “ricordo una frase di mio padre, quando si parlava della guerra, lui diceva: ‘Pôre dai partisans, mai dai todescs!’ [Paura dei partigiani sì, mai dei tedeschi!]”.

Igino Bertoldi, detto Ercole, Bogomiro o Ragamir. Fotografia di Elio Varutti 2023

Ritorniamo alle parole di Bogomiro. “Terminata la guerra, i compagni insediarono il tribunale del popolo – aggiunge nella Lettera citata – io ero lì, quando iniziarono la tosatura delle ragazze che operavano nella centrale telefonica. Solo le più ingenue si lasciarono tagliare i capelli [per spregio; NdR] perché le più astute alzarono la voce: ‘Non toccateci, altrimenti parleremo’. L’indomani mandarono a prelevare un semplice uomo che operava nella centrale telefonica a Tavagnacco e proveniva da Amaro. Cominciato l’interrogatorio, la giuria non trovò nessuna colpa. Lo consegnarono, in seguito, alle donne comuniste che, senza pietà lo torturarono. Si sentirono le urla fino a grandi distanze. La mattina dopo fu trovato [morto] in un fosso a Torreano di Martignacco, ma era già programmato un altro processo a danno di un mio coetaneo. I fratelli Clocchiatti, osovani, approfittando di Berto che era sceso da Subit [frazione di Attimis, UD] e alloggiato nelle scuole elementari di Tavagnacco, andarono a chiedere rinforzi per ottenere il rilascio dell’accusato, che avvenne immediatamente. Da tener presente che il grosso dei combattenti Diavoli Rossi, IX Corpus e Garibaldini erano trasferiti a Gorizia a infoibare” (Lettera al Presidente dell’APO 2023 : 1). Tra l’altro, sul tribunale del popolo di Udine ha scritto Fabio Verardo, nel 2018.

Si ricorda che gli arresti e le deportazioni di italiani a Gorizia seguirono l’occupazione militare della città per 40 giorni da parte dei partigiani del IX Corpus sloveno. Si toccò l’apice fra il 2 e il 20 maggio 1945 a guerra conclusa. Si contarono 332 scomparsi, dei quali 182 civili e 150 militari, nel goriziano, dato arrivato a oltre 665 persone a disamina storica conclusa.

Passata l’invasione titina di Gorizia “un amico mi riferì che Mario e Lino, due fratelli del GAP di Tavagnacco – ha ricordato Igino Bertoldi – ormai morti, ritornando dalle eliminazioni di Gorizia, furono intercettati dalla ronda inglese di confine, così spararono uccidendo due soldati britannici, che oggi riposano nel Cimitero del Commonwealth a Adegliacco di Tavagnacco. Gli uccisori poi emigrarono uno in Germania e l’altro nella Legione straniera per non farsi prendere. Erano tempi così. Chi non la pensasse come loro, era già finito. Mio padre Giuseppe, del 1894 e mancato nel 1972, era come me ed altri 80 paesani di Tavagnacco sulla lista di quelli da impiccare secondo quelli del GAP”.

Cimitero del Commonwealth a Adegliacco di Tavagnacco. Fotografia dal sito web del Comune di Tavagnacco

Da ultimo si ricorda che tra i martiri delle malghe di Porzûs c’è pure Guido Pasolini, fratello del noto poeta e regista Pier Paolo. In considerazione del modo “orrendo” con il quale venne finito, essendo stato solo ferito nella concitata iniziale fucilazione nel Bosco Romagno, c’è chi lo paragona alla morte di Cristo (Castenetto 2023 : 182). È per tale motivo che si è scelta per copertina l’opera di Sergio Pacori intitolata Crocifissione... C’era il piccone per il colpo di grazia sul cranio, oltre alle pugnalate e alla decapitazione (tecnica, quest’ultima, usata nell’eccidio di Stremiz di Faedis, UD, scoperto nel 1997). Ecco come avvenne, nel febbraio 1945, il massacro di certe vittime osovane ad opera dei gappisti comunisti agli ordini di Mario Toffanin, detto Giacca. Essi agirono “prima colpendole con il calcio del mitra, eppoi, quando caddero rantolando, infierendo sui corpi con i tacchi degli scarponi” (Cresta 1969 : 124). Il signor C. Fe. ha confermato: “Gli osovani uccisi al Bosco Romagno sono stati colpiti a randellate dai filo-titini, lo so perché ho parlato con chi nell’APO ha visto le fotografie dei loro corpi martoriati”.

Fonti orali – Le interviste (int.) sono state condotte a Udine da Elio Varutti con penna, taccuino e macchina fotografica, se non altrimenti indicato.

 – Igino Bertoldi, detto Ercole, Bogomiro o Ragamir, nato a Tavagnacco (UD) il 29 agosto 1926, int. del 21 novembre 2023 a Tavagnacco.

– A. B., San Giovanni al Natisone (UD), int. del 22 giugno 2015.

– C.  Fe., Codroipo (UD), int. al telefono del 27 novembre 2023.

– G.P.F., Gemona del Friuli 1938, int. a Udine del 7 luglio 2023.

– Monica Secco (Udine, 1963), int. del 31 maggio 2009 e 19 novembre 2014.

– Sergio Pacori, Gargaro (ex provincia di Gorizia, oggi Slovenia) 1933, esule a Gorizia, int. del 17 maggio 2023 ed e-mail del 22 luglio 2023.

– Roberto Trentin, Premariacco, comunicazione a Cividale del Friuli del 9 settembre 2017.

Documenti originali

Comune di Premariacco, Anpi, gioie e dolori, registro anagrafe con 60 nominativi di persone abbattute dai partigiani, perché ritenute spie o collaborazionisti. Vedi: “Le carte di Premariacco: ecco i nomi dei morti”, «Messaggero Veneto», 3 maggio 2016.

– Igino Bertoldi, Lettera al Presidente dell’APO, testo in WORD, Tavagnacco 18 ottobre 2023, pp. 2.

Collezioni private

– Giorgio Secco, Udine, fotografia, lettere e cartoline, ms.

Interventi di Igino Bertoldi già pubblicati nel web

– E. Varutti, Arduino di Fiume scampato ai fucili titini e varie trame jugoslave al confine orientale, 1943-1954, on line dal 30 aprile 2023 su evarutti.wixsite.com

– E. Varutti, 25 aprile 2023: Patrioti o Partigiani. Igino Bertoldi denuncia, on line dal 2 giugno 2023 su eliovarutti.blogspot.com.

– E. Varutti, Strage di Porzûs programmata e misteri jugoslavi al confine orientale italiano, on line dal giorno 11 luglio 2023 su varutti-elio3.webnode.it

– E. Varutti, Le fucilazioni facili dei partigiani comunisti in Friuli. L’osovano “Ercole” rivela, 1945, on line dal 31 luglio 2023 su evarutti.wixsite.com

– E. Varutti, I rapporti coi comunisti dei GAP per il patriota Igino Bertoldi, delle Brigate Osoppo Friuli, on line dal 20 settembre 2023 su evarutti.wixsite.com

Bibliografia

– Giannino Angeli, Viva l’Italia libera! (1943-1945). (Storia, memorie, testimonianze dei tempi di guerra nel Comune di Tavagnacco), Comune di Tavagnacco (UD), Comitato per il 50° anniversario della Liberazione, 1994.

– Roberto Castenetto, “Pier Paolo Pasolini e la morte del fratello Guido ‘Martire Cristo”, in: Roberto Volpetti, I Pasolini Guido e Pier Paolo resistenza e libertà, Udine, Associazione Partigiani Osoppo, 2023.

– Primo Cresta, Un partigiano dell’Osoppo al confine orientale, Udine, Del Bianco, 1969.

– Giampaolo Gallo, La Resistenza in Friuli 1943-1945, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine, 1988.

– Aldo Moretti, “La ‘questione nazionale’ del Goriziano nell’esperienza osovana (1943-1945)”, in: Aa. Vv., I cattolici isontini nel XX secolo. il Goriziano fra guerra, resistenza e ripresa democratica (1940-1947), Gorizia 1987, pp. 187-199.

– Fabio Verardo, I processi per collaborazionismo in Friuli. La Corte d’Assise Straordinaria di Udine (1945-1947), Milano, Franco Angeli, 2018.

– Maria Grazia Ziberna, Storia della Venezia Giulia da Gorizia all’Istria dalle origini ai nostri giorni, Gorizia, Lega nazionale, 2013.

Modifiche del 2.12.2023Saggio di: Elio Varutti, Docente di “Sociologia del ricordo. Esodo giuliano dalmata” – Università della Terza Età, Udine. Networking a cura di Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Bruno Bonetti, Sergio Satti (ANVGD di Udine), Enzo Faidutti e il professore Stefano Meroi. Per i suggerimenti bibliografici si ringrazia l’architetto Franco Pischiutti (ANVGD di Udine). Grazie a Giuseppe Bertoldi, figlio di Igino. Copertina: Sergio Pacori, Crocifissione con la Madonna e Maria di Cleofa, scultura con residuati bellici, cm 140 x 70,  peso 80 kg, 2011 ca. Collezione dell’Artista, che si ringrazia per la gentile concessione alla pubblicazione del 24 novembre 2023. Immagine qui sotto.

Fotografie dalle fonti citate. Adesioni al progetto: Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine, ANVGD di Arezzo. Per la cortese collaborazione riservata si ringraziano gli operatori e le direzioni delle seguenti biblioteche di Udine: Civica “Vincenzo Joppi”; Biblioteca del Seminario Arcivescovile “Pietro Bertolla”; Biblioteca dell’ANVGD; Biblioteca della Società Filologica Friulana e Biblioteca “Renato Del Din” dell’Associazione Partigiani Osoppo-Friuli; Biblioteca dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione.

Zio Tita con 13 ferrovieri fucilati dai titini a Cossana, S. Pietro del Carso (TS) 26 aprile 1944

“Mio zio era con dei semplici ferrovieri della Sottostazione delle Ferrovie dello Stato di San Pietro del Carso – ha detto Elio Miani – circondario di Postumia, provincia di Trieste dal 1918 al 1947”. I partigiani titini, nel 1944, li hanno sequestrati e fucilati a Cossana, in sloveno Košana, una frazione di San Pietro del Carso, il giorno dopo della cattura, come riporta il giornale «La Voce Libera» di Trieste del 26 aprile 1949. I suddetti ferrovieri erano in gran parte triestini e friulani. I comunisti ne salvarono solo uno, di origine slava. Fu pulizia etnica? Tra l’altro, la redazione de «La Voce Libera» viene assalita da un’orda di titini il 1° luglio 1946, durante gli incidenti filo-slavi per impedire il Giro d’Italia, mentre da un camion di soldati jugoslavi è stata lanciata una bomba a mano contro manifestanti italiani, ferendo cinque persone, come ha scritto Mauro Dall’Aquila.

“Mio zio era l’unico figlio maschio, si chiamava Giovanni Battista Morandini, nato il 15 dicembre 1923 a Reana del Rojale (UD), detto Tita, era un civile – ha aggiunto Elio Miani, nipote del disperso – lavorava in una squadra di altri tredici ferrovieri a San Pietro del Carso, perché c’erano stati attentati sui binari, quando fu bloccato dai partigiani e portato via, non è stato più ritrovato; verso gli anni ’70 a Trieste ci fu una cerimonia per tutti quei caduti con un cipresso dedicato ad ognuno di loro, poi non si è saputo più nulla”. L’alpino Gio.Batta Morandini, come è segnato nel Foglio matricolare del Distretto militare di Udine, dopo lo sbandamento seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943, viene “prelevato da partigiani sloveni in S. Pietro del Carso mentre procedeva alla riparazione della linea di alta tensione in servizio alle dipendenze della I.E.S. di Trieste per conto delle FF.SS. il 26.4.1944. Tale dichiarato disperso dal 26.4.1944. Rilasciato verbale di irreperibilità dal Comando Distretto Militare di Udine il 5 novembre 1948. Verificato e parificato il 16.6.1982. Firmato: Tenente colonnello Ernesto Caiazza”.

Cartolina di Cossana Inferiore, editore A. Cadel, Trieste 1942, viaggiata per Cervignano, UD

Dopo la Seconda guerra mondiale la località di San Pietro del Carso è annessa alla Jugoslavia di Tito. Dal 1991 è parte della Slovenia. Sotto l’Austria si chiamò pure Šent Peter na Krasu, oppure  Sv. Peter na Kranjskeme, o con il toponimo tedesco di Sct. Peter. Nel 1952, in seguito all’emanazione della legge toponomastica jugoslava prescrivente la rimozione dei toponimi di origine religiosa, il comune assunse la denominazione di: Pivka.

Il 26 aprile 1944 la squadra di ferrovieri col capotecnico si era recata in automezzo lungo la linea elettrica primaria per normali lavori di revisione. Come scrive «La Voce Libera» un “forte nucleo di partigiani sloveni armati” li ferma, li cattura e, il giorno dopo, li passa per le armi, senza processo. I loro resti umani stanno forse in una fossa comune. Ecco i loro nomi: “Orlando Marri, di anni 41, Rino Bandiziol, 28, Eugenio Malvassori, 37, Michele Cerullo, 35, Giuseppe Dell’Ernia, 31, Rinaldo Cerato, 26, Giovanni Morandini, 21, Pietro Sgobba, 26, Angelo Gregorini, 24, Alfredo Degano, 30, Ermenegildo Job, 20, Fernando De Salpi, 20 e, imprigionato giorni prima, Rodolfo Galavotti, di anni 41”.

L’unico operaio di origine slovena era tale Francesco Kalusa, di San Pietro del Carso, che viene salvato e liberato dai titini, perché vada a spargere il terrore. Egli il giorno dopo rientra in Sottostazione e racconta l’accaduto, senza dare notizie sulla sorte riservata ai suoi compagni di lavoro. Il Kalusa nel 1949 è alle dipendenze delle ferrovie jugoslave. Quasi tutti gli ammazzati hanno lasciato moglie e bambini in tenera età.

È lo stesso giornalista autore dell’articolo su «La Voce Libera», nel 1949, ad adombrare l’ipotesi della pulizia etnica, o di un razzismo anti-italiano, da parte dei partigiani sloveni, quando sostiene che: “Si deve rilevare che aver lasciato libero l’unico operaio d’origine slovena dimostra che tale massacro venne eseguito solo per il fatto che quei poveri ferrovieri erano tutti d’origine italiana, né agli stessi si poteva imputare qualsiasi attività politica in quanto esplicavano solamente la lor mansione di ferrovieri e null’altro”. All’indomani mattina, il 27 aprile 1949, fu celebrata una santa messa nella chiesa di S. Antonio Nuovo nel quinto anniversario della barbara eliminazione per iniziativa dell’Associazione partigiani italiani – Gruppo ferrovieri di Trieste. La ricerca di informazioni sulle salme degli sventurati fu condotta dalla Croce Rossa, ma con esito negativo. Sono state certe persone residenti a San Pietro del Carso a dare qualche notizia sull’eccidio di Cossana, secondo «La Voce Libera».

Parte iniziale del Foglio matricolare dell’alpino Gio.Batta Morandini. Collez. Elio Miani, Cividale del Friuli

L’Organizzazione Todt dei nazisti – Gli attentati e i sabotaggi partigiani contro le infrastrutture si ripetevano sempre più minacciosi. È successo che a Prosecco (TS), il 28 maggio 1944, in seguito ad un attacco partigiano ai baraccamenti della Organizzazione Todt, impresa di costruzioni operante nella Germania nazista e in tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht, le Waffen SS impiccano dieci operai che durante l’operazione avevano assunto un atteggiamento ritenuto sospetto, come riferito dall’ANPI. Erano gli stessi agenti dell’OZNA, il servizio segreto titino, a spingere i giovani con sentimenti partigiani a farsi arruolare nella Todt, per motivi di spionaggio e per rubare l’esplosivo per futuri attentati, come ha accennato Enzo Bertolissi.

Il massacro di Cossana ha coinvolto operai civili, essi non erano militari. Non compaiono in elenchi di deportati o di reclusi dai titini. Solo Giovanni Battista Morandini, Alfredo Degano, Pietro Sgobba e Michele Cerullo fanno parte dell’Elenco “Livio Valentini”, come civili. Alcuni di loro erano dipendenti privati della I.E.S. di Trieste (Impianti elettrici e servizi).

I Battaglioni Ferrovieri – Nell’Esercito italiano oltre al Reggimento Genio Ferrovieri, sorto sin dal 1859, esistevano altri reparti operativi, ad esempio, dalla metà della Seconda guerra mondiale con gli alleati. Nel nord occupato dai nazisti c’era la Todt. “Infatti un Ispettorato Truppe Ferroviarie Mobilitate, retto nel 1943 dal generale Giuseppe Perotti – come ha scritto Piero Crociani – aveva affiancato agli altri reparti del Genio Ferrovieri, impegnati soprattutto all’estero al seguito delle truppe operanti, due Raggruppamenti Genio Ferrovieri, che coordinavano l’opera di compagnie Ferrovieri di Lavoro e di sezioni militari di esercizio – inquadrati in “Battaglioni Ferrovieri” – spostati e frazionati in tutta Italia a seconda delle necessità”. Vedi: P. Crociani, “L’esercito nella ricostruzione. Un esempio: l’apporto per la rimessa in efficienza delle ferrovie”  (p. 112).

I reparti ferrovieri del Regno del Sud e nelle zone liberate dipendono, per l’impiego, dal Military Railway Service alleato nel 1944. Essi erano impiegati nella riparazione delle linee, non nel loro esercizio, lasciato al personale delle Ferrovie dello Stato. Con la fine della guerra i dirigenti delle Ferrovie avevano potuto rendersi conto della situazione e formulare dei programmi per la ricostruzione delle linee di trasporto, come ha spiegato Crociani. Ciò avvenne anche grazie alle 315 locomotive e 22mila autocarri donati all’Italia dall’esercito USA, come ha scritto il quotidiano «Libertà» del 18 agosto 1945.

Titini a Cividale – Gli storici più accreditati hanno spiegato che l’occupazione titina si è svolta a Trieste, Gorizia e Monfalcone il 1° maggio 1945. Per 40 giorni militi jugoslavi prelevano dalle case i cittadini italiani, in media cento al giorno, pochi fascisti o collaborazionisti, ma molti Combattenti della Guerra di Liberazione, per eliminare ogni opposizione a Tito. Pochi fanno rientro a casa. Lo stesso accade a Cividale del Friuli, il paese di Gio.Batta Morandini, invaso pure dagli alleati. Gli storici hanno dimenticato questa invasione slava. “Alla porta del mercato, di buon mattino – ha scritto Antonio Rieppi su «Libertà» del 31 luglio 1946 – con numerosi carrozzoni, sono arrivati anche i partigiani di Tito che hanno occupato Casa Zorutti, il Liceo Ginnasio e il Palazzo Accordini dove hanno insediato un comando ed esposta la bandiera jugoslava”. I partigiani occupano pure il Municipio, esponendo la stessa bandiera di Tito. Per fortuna c’erano pure quella inglese e americana, così i titini non ebbero il campo libero per abbattere altri italiani. C’erano troppi carri armati degli alleati e i fazzoletti verdi della Osoppo.

Cartolina di Cividale del Friuli, editore Muner Giuseppe di Cividale del Friuli, attivo nella metà del Novecento. Fondo cartoline della Società Filologica Friulana, Udine

Fonti orali e ringraziamenti – Le interviste sono state condotte a Udine da Elio Varutti con penna, taccuino e macchina fotografica. Si ringraziano i seguenti signori e i dirigenti ed operatori dell’Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione di Udine e della Società Filologia Friulana per la collaborazione alla ricerca.

Enzo Bertolissi, Prosecco (TS) 1937, esule a Tarvisio (UD), int, del 6 settembre 2018, del 29 luglio e 5 agosto 2020.

Elio Miani, Cividale del Friuli (UD) 1953, int. del 20 settembre 2021 ed email del 27 settembre 2021.

Documenti originali – Opera Nazionale Caduti senza Croce, Caduti infoibati o diversamente massacrati in tempo di guerra, provincia di Udine, documento in Word, p. 7.

Regio Esercito Italiano, Distretto militare di Udine, Foglio matricolare e caratteristico di Morandini Gio Batta, 16 giugno 1982. Collez. Elio Miani, Cividale del Friuli, stampato e ms.

Bibliografia e sitologia

“14 ferrovieri massacrati dai partigiani sloveni”, «La Voce Libera», Trieste, 26 aprile 1949. Collez. Elio Miani, Cividale del Friuli.

“22mila autocarri e 315 locomotive verranno consegnati all’Italia come residuati bellici americani”, «Libertà» organo del CLN della provincia di Udine, 18 agosto 1945, p. 1.

Amleto Ballarini, Giovanni Stelli, Marino Micich, Emiliano Loria, Venezia Giulia, Fiume e Dalmazia. Le foibe, l’esodo, la memoria, Roma, Associazione per la Cultura Istriana, Fiumana Dalmata nel Lazio, 2015.

Piero Crociani, “L’esercito nella ricostruzione. Un esempio: l’apporto per la rimessa in efficienza delle ferrovie” , in Romain H. Rainero, Paolo Alberini (a cura di), Le Forze Armate e la nazione italiana (1944-1989), Atti del Convegno di studi tenuto a Bologna nei giorni 27-28 ottobre 2004, Roma, 2006.

Mauro Dall’Aquila, “Vivissima reazione del popolo triestino all’inconsulta aggressione ai corridori del Giro d’Italia”, «Libertà», Udine, 2 luglio 1946, p. 1.

Elenco “Livio Valentini”, caduti della R.S.I., on line nel web.

Antonio Rieppi, “La liberazione di Cividale (Dal mio diario)”, «Libertà», Udine, 31 luglio 1946, p. 3.

Elio Varutti, Mio fratello nelle foibe istriane con gli Inglesi a esumar salme, on line dal 5 agosto 2020 su  varutti.wordpress.com

Interviste di Elio Varutti, Docente di “Sociologia del ricordo. Esodo giuliano dalmata” – Università della Terza Età, Udine. Networking e ricerche a cura di Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Elio Miani e professor Enrico Modotti. Collaborazione di Annalisa Vukusa, Gruppo di lavoro storico-scientifico dell’ANVGD di Udine, coordinato dal professor Elio Varutti. Adesioni al progetto: Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine. Fotografie della collezione di Elio Miani, Cividale del Friuli e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia, 29 – I piano, c/o ACLI – 33100 Udine – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Capi partigiani slavi in Friuli, Veneto e nella Venezia Giulia. Misteri Ozna

Pochi studiosi hanno notato che a comandare certe formazioni partigiane nel Nord-Est dell’Italia siano stati degli slavi. Alcuni storici della Resistenza hanno fatto passare tale fatto rientrante nello spirito internazionalista proletario. È proprio vero? Oppure c’era qualche piano segreto iugoslavo nazionalista per impossessarsi di altre terre, oltre all’Istria, a Fiume e a Zara? È dal Trattato di pace di Rapallo (1920) e atti seguenti che tali zone facevano parte dell’Italia, in seguito alla Prima guerra mondiale e all’Irredentismo, che sin dall’Ottocento riscaldò gli animi sulla costa orientale del Mare Adriatico. Il fascismo finì per intorbidire le acque con l’italianizzazione forzata (già sbandierata ai tempi dell’Italia liberale, 1866), le leggi razziali (1938), l’invasione della Jugoslavia (1941) e con la creazione dei Campi di concentramento di Arbe e di Gonars (UD) per internati sloveni e croati. A rimetterci furono gli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, che pagarono con i loro beni economici i danni della Seconda guerra mondiale persa da tutta l’Italia fascista. Il punto massimo delle tensioni nelle terre perdute fu raggiunto con l’uccisione di italiani nelle foibe da parte dei miliziani di Tito (1943-1945) e con l’esodo giuliano dalmata (1943-1963) di 350mila profughi. Certi storici sostengono che furono solo 280-300mila gli italiani in fuga dalle grinfie di Tito e che l’esodo durò sino al 1956, mentre altri studiosi (Patrizio Zanella e Andrea Romoli) datano la conclusione del fenomeno agli anni ’60, se non intorno al Trattato di Osimo (1975) che sancì i confini definitivi tra Italia e Jugoslavia, in mezzo ad una vasta messe di polemiche.

Dopo la Caduta del Muro di Berlino (1989) e venendo meno lo scontro ideologico della Guerra fredda cominciò a vacillare la lettura storica generale offerta dopo il 1945. Claudio Pavone, col suo Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, nel 1991, mette sulla scena i temi riguardanti l’etica della Resistenza, con le fucilazioni attuate persino nel dopoguerra. Oggi ci sono alcuni storici e certi giornalisti d’indagine che intravvedono la longa manus dell’Ozna, il servizio segreto di Tito, nel piazzare il più possibile comandanti partigiani iugoslavi a capo delle bande partigiane in Friuli, Veneto e nella Venezia Giulia. È solo un mistero dell’Ozna?

La “Odeljenje za Zaštitu Naroda” (Ozna) è la sigla che significa: Dipartimento per la Sicurezza del Popolo. C’è una seconda versione che così spiega la sigla: “Oddelek za zaščito naroda”; letteralmente: Dipartimento per la protezione del popolo. Era parte dei servizi segreti militari iugoslavi e fu attiva dal 1944 fino al 1952. L’organizzazione titina, programmata da Tito e Milovan Gilas, era dotata di carceri proprie e attuava requisizioni, vessazioni ed addirittura ha programmato la pulizia etnica a Pola contro gli italiani. La pianificazione delle uccisioni di italiani in Istria, Fiume e Dalmazia per mano titina è stata documentata da Orietta Moscarda Oblak a pp. 57-58 di un suo saggio. Agenti dei servizi segreti di Tito negli anni ‘50 si infiltrano perfino nei Centri raccolta profughi (Crp) sparsi in Nord Italia e a Roma per carpire notizie sui rifugiati e per altre operazioni di stampo terroristico nelle città. Dal 1946 al 1991 la polizia segreta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia diviene “Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti” o Udba; letteralmente: “Amministrazione Sicurezza Statale”.

I Reparti per la difesa del popolo, ossia gli agenti dell’Ozna, agiscono autonomamente dal Fronte di Liberazione sloveno (Osvobodilna Fronta) e dai militari del IX Corpus dell’Esercito popolare di Liberazione iugoslavo (in sloveno, Novj=Narodnoosvobodilna vojska in partizanski odredi Jugoslavije). Tutti i membri dell’Ozna provengono dalle file del Partito Comunista Iugoslavo, come voluto da Tito e da Aleksandar Ranković, uno dei suoi più fidati collaboratori. L’organizzazione dell’Ozna è istruita da esperti sovietici, per trasformarla in un’efficiente strumento di repressione alle dipendenze di Belgrado. I suoi addetti giungono a Fiume, Gorizia, Pola e Trieste con le liste di proscrizione già preparate nei mesi precedenti su segnalazione di attivisti locali, includendo tutti coloro che potessero essere pericolosi per il nuovo potere: membri di unità armate, civili ritenuti fascisti o collaborazionisti e recalcitranti all’occupazione slava delle città italiane. Gli attivisti locali dell’Ozna sono suddivisi per comitati rionali; alcuni di essi sono stati appena trasferiti dall’interno iugoslavo. Sono tutte spie dell’Ozna, esperte in armi ed esplosivi. Agli arresti da parte titina seguono le eliminazioni nelle foibe, o l’internamento nei Campi di concentramento iugoslavi, come quello di Borovnica, presso Lubiana. Per esempio nel capoluogo giuliano è citato El Triestin Ceccalin antifascista comunista e spia dell’Ozna, secondo i messaggi in Facebook di S. Ser., di Parenzo del 24 ottobre 2020.

Secondo le ricerche di Nevenka Troha a Lubiana, dove peraltro non esistono archivi centrali dell’Ozna (qualcosa è rintracciabile altrove, o a Belgrado), tra il 4 e l’8 maggio 1945, nell’odierna provincia di Trieste vengono uccise, o gettate nelle foibe, o muoiono in prigionia 582 persone, delle quali il nucleo forte è dato da guardie di finanza, poliziotti, militi della RSI, membri della Milizia di difesa territoriale, o della Guardia Civica, come ha riferito, nel 1995, Joze Pirjevec, citato in bibliografia.

La guerra partigiana in Jugoslavia inizia alla fine di aprile 1941. La struttura di guerriglia si dota ben presto di un servizio segreto, il Vos. La sigla Vos si esplica così: Varnostno Obvasovalna Služba – Servizio informazioni della difesa. È proprio il Vos che organizza una rappresaglia partigiana contro i paesani di Circhina (provincia di Gorizia), accusati di fiancheggiare i nazisti. Il 3 febbraio 1944 agenti del Vos fucilano e gettano nella foiba 15 abitanti di Circhina, per vendicare 48 vittime partigiane dei nazisti. In sostanza i nazisti, il 27 gennaio 1944 a Circhina, sparando anche dal campanile, massacrano 48 partigiani su 109 corsisti ospitati in zona per frequentare un corso del partito comunista per futuri ufficiali dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo. C’è però un sopravvissuto, Giuseppe Baucon, che racconta tutto. Pur ferito duramente, egli riesce a risalire dalla piccola foiba, come dichiarò ai discendenti. Tra i fucilatori del Vos ci sono pure “alcuni commercianti comunisti invidiosi dei successi di Giuseppe Baucon nel commercio”, come sostengono i suoi familiari e discendenti (vedi: E. Varutti, Giuseppe Baucon, di Gradisca, salvatosi dalla fucilazione titina  e dalla foiba a Circhina nel 1944).

Maria Iole Furlan, Nazisti fucilatori a Cividale 1944, fotocopia colorata da un’immagine diffusa nel web, cm 20,5×29, 2021. Fonte e didascalia dell’Archivio ANPI: I comandanti del plotone corazzato del Karstjäger di stanza a Cividale del Friuli, SS Oberscharführer Cavagna, tedesco nonostante il nome; gli SS Unterscharführer Dufke e Walter, posano davanti a un carro armato P40 nella caserma “Principe di Piemonte”. Fonte dell’immagine: http://beutepanzer.ru/Beutepanzer/italy/tanks/P40/p40-1.htm

Ritornando a Milovan Gilas si ricorda che, processato e incarcerato da Tito, dal 1954 al 1966, come dissidente lo stesso Gilas, nel 1991, riguardo all’Istria del 1945-‘46, dichiarò al giornalista Alvaro Ranzoni, del settimanale italiano «Panorama»: “Gli italiani erano la maggioranza solo nei centri abitati e non nei villaggi. Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto”. Gravi dichiarazioni mai smentite quelle di Gilas, che fu segretario del Komunisticna Partija Iugoslavije (Partito comunista iugoslavo). Egli ammise inoltre in un suo noto memoriale, a p. 12, che in Jugoslavia gli “arresti effettuati al di fuori della legge, come in tempo di guerra, continuavano a essere la pratica corrente” (vedi: M. Gilas, Se la memoria non m’inganna… Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962).

Comandanti slavi partigiani in Veneto

Il tenente colonnello Vittorio Silvio Premuda è comandante della Brigata “Fratelli d’Italia” di partigiani non comunisti attivi tra Piave e Livenza. Egli non è disposto a passare sotto il comando dei partigiani garibaldini (filo-titini), come espressamente gli fu richiesto, per tale motivo, il 19 agosto 1944, lo slavo Kubricevic Svetiovar, detto “Felice”, ne decreta la morte nella zona di Codognè (TV). Il massacro di Vittorio Premuda avviene ben sei mesi prima dell’eccidio di Porzus, in Comune di Attimis (UD). Quest’ultimo è il più noto eccidio di partigiani della Brigata Osoppo (di orientamento cattolico, monarchico e laico-socialista,) avvenuto per mano di partigiani comunisti. Pure qui che ci sia lo zampino dell’Ozna? Secondo la sentenza della Corte d’Assise di Treviso del 3 dicembre 1946 e dagli articoli de «Il Gazzettino» di quel periodo, Premuda fu attirato con una scusa in una trappola dal comandante comunista “Tigre”, poi venne arrestato e fucilato da partigiani garibaldini comunisti, guidati dallo slavo Kubricevic Svetiovar, detto “Felice” e dallo stesso capo partigiano italiano Attilio Da Ros, detto “Tigre”, comunista di Oderzo (TV).

Detto per inciso il comandante Kubricevic è un ufficiale della marina iugoslava (vedi: Maria Pia Premuda Marson, L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 58), allora viene modestamente da chiedersi: di quali barche slave si doveva preoccupare Kubricevic mentre operava sulle verdi colline di Vittorio Veneto? Ecco affacciarsi l’ombra dell’Ozna. È stata Maria Pia Premuda Marson a ribaltare l’interpretazione di certi storici novecenteschi che derubricavano la fucilazione di Vittorio Premuda, come un fatto d’invidia tra partigiani di opposte formazioni politiche, anzi l’autrice scrive delle spinte annessionistiche iugoslave riguardo a tutta la provincia di Udine, fino oltre il fiume Livenza, in territorio veneto sulle rive del Piave (vedi: La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda…, 2020, p. 15).

Si sa, infine, che diversi partigiani russi hanno combattuto contro i nazifascisti in Friuli dall’inizio del 1944. A Forni di Sopra (UD) c’era il battaglione Stalin, che operava in Carnia. Un altro battaglione di garibaldini sovietici agiva tra Veneto e Friuli, poi c’era il battaglione Kirov, attivo nel Pian del Cansiglio (BL, PN e TV). Infine c’era nientemeno che il figlio primogenito di Stalin nella Brigata partigiana Piave, operativa sulle colline di Vittorio Veneto (TV); egli si celava sotto il nominativo di Giorgio Vorazoscvilj “Monti” («Il Gazzettino» Cronaca di Treviso, 29 agosto 2015, citato dalla Premuda Marson, 2017). Con tutti questi reparti militari, non fa mistero che ci fossero pure certi agenti dei loro servizi segreti, in alleanza con quelli iugoslavi, come l’Ozna. Proprio Maria Pia Premuda Marson afferma che “Agenti speciali sovietici si erano inseriti nelle formazioni partigiane denominate ‘Brigate Garibaldine” (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 17).

Confini orientali 1946-1947

Sul Cansiglio, a Vittorio Veneto e nel Bellunese operava anche Roberto Anelli Monti, col nome di battaglia di “Milos”, o Milo, in ricordo di un capo partigiano iugoslavo ucciso in uno scontro coi tedeschi, che gli muore tra le braccia. Nato a Udine nel 1922, Milos è al comando della Brigata d’assalto della Garibaldi, Divisione “Nino Nannetti” nel 1945.

Capi partigiani slavi nella Venezia Giulia

Pochi studiosi spiegano che i titini, oltre ad occupare Fiume, Pola, Trieste e Gorizia, sono giunti sino a Monfalcone, Romans d’Isonzo, Cividale del Friuli, Aquileia e Cervignano del Friuli, nella Bassa friulana. Una jeep di artificieri iugoslavi fu vista da partigiani della Osoppo sulle rive del Tagliamento, vicino ad un ponte. Come ha scritto, a p. 83, Maria Grazia Ziberna a Gorizia “il periodo dell’occupazione titina, dal 2 maggio al 12 giugno 1945, vide la costituzione nella Venezia Giulia dello Slovensko Primorje, cioè il Litorale Sloveno, che aveva come capoluogo Trieste e comprendeva anche il circondari di Gorizia, diviso in sedici distretti e composto anche dai comuni di Cividale del Friuli, Tarvisio e Tarcento [della provincia di Udine], considerati slavofoni”.

I Titini a Gorizia operano coi consiglieri sovietici. È risaputo che l’occupazione di Gorizia dal 1° maggio 1945 da parte dei miliziani di Tito, assistiti da tecnici sovietici, durò 40 giorni, durante i quali furono arrestati e deportati centinaia di italiani. La presenza sovietica rientra nella dicitura “formazioni poliziesche”, come l’Ozna, che affiancano l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia (vedi: Lidia Luzzatto Bressan, p. 16). Gli artificieri iugoslavi fanno persino saltare due ponti sull’Isonzo, rallentando così l’arrivo delle truppe alleate, per procedere meglio alla caccia degli italiani, facendo innalzare i cartelli “Gorica je naša” (Gorizia è nostra). Poi puntano sul Tagliamento ed oltre. Esiste un elenco di 651 civili e militari arrestati a Gorizia e deportati dai titini fra il 1° maggio e il 12 giugno 1945 che, pur necessitando di ovvi aggiornamenti, rappresenta il teatro delle eliminazioni al confine orientale. In ogni pattuglia titina aggirantesi per la città con tanto di elenco, durante la cattura, partecipa pure un partigiano garibaldino italiano, per individuare meglio i potenziali prigionieri.

A Trieste e a Muggia, secondo certi autori, elementi slavi dell’Ozna nel 1944 si fanno delatori nei confronti degli stessi compagni del Partito Comunista Italiano in seno al Cln, facendoli arrestare dai nazisti. i comunisti italiani erano considerati poco favorevoli alla linea annessionistica iugoslava, che intendeva prendere Trieste, Gorizia (nella Venezia Giulia), Udine, Pordenone (allora in Veneto), se non qualcosa in più. In particolare il muggesano Luigi Frausin, segretario federale del Pci, assieme ad altri esponenti (Kolarich, Facchin, Morgan e Spadaro) riprendono in mano il partito dopo l’8 settembre 1943, rientrando dal confino o dalle galere regie. Essi riconoscono la necessità di un accordo che assegni alla Jugoslavia il territorio abitato da slavi, ma non Trieste, né Gorizia, né la costiera istriana. Peggio, il Frausin non è per niente d’accordo con la delibera del cosiddetto governo provvisorio croato, che nel settembre 1943, a Pisino, prima dell’arrivo dei tedeschi, ha proclamato – sic et simpliciter – l’annessione dell’Istria alla Croazia e quindi alla Jugoslavia, decisione festosamente accolta e ufficialmente riconosciuta dal governo jugoslavo dei partigiani di Tito.

Come ha scritto Fulvio Farba, “ecco che il destino viene a dare una mano agli slavi, tra maggio ed ottobre del 1944 i tedeschi catturano ed eliminano prima un forte gruppo di resistenti muggesani, sostenitori di Frausin, poi fucilano Kolarich ed infine vengono arrestati e deportati Luigi Frausin ed il nipote Ezio, che moriranno nei lager. Poco dopo toccherà a Vincenzo Gigante, Martino Solieri ed altri. A questo punto si impone una domanda, che a quanto pare i comunisti italiani non si sono posti, o non hanno voluto porsi: poiché Natale Kolarich cade in una imboscata ad opera di un traditore e poiché, come dice la motivazione della Medaglia d’Oro al V. M. concessa a Frausin, questi fu catturato a seguito di delazione slava, non si potrebbe ritenere che le persone maggiormente contrarie ai piani jugoslavi, non altrimenti eliminabili in quanto antifascisti convinti dal limpido passato, fossero state volutamente consegnate ai tedeschi? E, naturalmente, da chi poteva trarre maggiori vantaggi dalla loro scomparsa. Le conseguenze di questi avvenimenti si vedono subito: a capo del Partito Comunista Italiano della Venezia Giulia si installano elementi slavi (Rudi Ursich, Frane Stoka, Destradi, Giustincich, Francovich e Karis); alcuni mesi dopo, il rappresentante comunista che ha sostituito Frausin in seno al Cln, Giustincich, abbandonerà il Comitato, reo di non aver voluto sottostare alle imposizioni slave e cesserà ogni collaborazione. Così aumenterà l’antagonismo fra l’ente rappresentativo della resistenza italiana e l’omologo jugoslavo. Inizia cosi allora la svolta comunista pro-Jugoslavia, che suscitò, bisogna dirlo, proteste e risentimenti fra gli aderenti al partito, ma non servirono a nulla. Il Partito comunista italiano era diventato di fatto partito comunista jugoslavo, e tornerà a chiamarsi Pci dopo varie metamorfosi solamente nel 1957. La propaganda pro-Jugoslavia venne intensificata, e si passò a sostenere apertamente la pura e semplice annessione alla Jugoslavia”.

Sin dal 17 luglio 1944 il Comando Generale delle Brigate Garibaldi, attivo in Friuli e nella Venezia Giulia stipula un accordo col comando del IX Corpus del Novj per il quale i partigiani italiani comunisti passano alle dirette dipendenze degli slavi. Gli Osovani non accettano, provocando forti tensioni che sfociano nell’eccidio di Porzus e in vari morti per strani incidenti. Nella notte del 24 e 25 dicembre 1944 i Garibaldini guadano l’Isonzo e vanno a mettersi sotto il comando degli slavi, come ha scritto Giorgio Rochat.

Tale passaggio non è indolore, perché i partigiani italiani in territorio slovenofono sono maltrattati, messi alla fame, costretti a marce forzate e, pur male armati, devono andare alla battaglia di Voschia contro i nazisti. Voschia / Voisko, Comune di Idria (ex-provincia di Gorizia, poi Jugoslavia, oggi Slovenia). Le assurde vicissitudini patite sono descritte nel diario di Renato Rozio, classe 1924, contestato dai dirigenti comunisti. Studente e già partigiano a Mondovì (CN), rientra a casa a causa dei rastrellamenti. Si arruola militare ad Alessandria, al Comando tedesco, per non gravare sulla famiglia, viste le minacce naziste ai familiari dei renitenti alla leva (il bando relativo, del 2 aprile 1944, scrive di presa in “ostaggio dei genitori dei renitenti e all’incendio delle loro case”). Trasferito a Trieste e Fiume, viene addestrato ad Abbazia, in una caserma tedesca. Poi è destinato nella Valle dell’Isonzo (GO, poi Slovenia). Diserta a Bodres di Canale d’Isonzo (GO, poi Slovenia) e si arruola nei partigiani rossi della Divisione Garibaldi-Natisone a Breg di Medana (oggi in Slovenia), presso Dolegna del Collio (GO). Come accennato, tutta la Divisone partigiana nel 1944 si trasferisce da Albana, Comune di Prepotto (UD) verso Tolmino, Circhina (ex-provincia di Gorizia, poi Jugoslavia e Slovenia), Blegos Likar (presso Škofia Loka), Logatec e Lubiana (ex Jugoslavia, poi Slovenia). È ferito il 23 marzo 1945 nella battaglia di Voschia. Patisce fame, freddo e prepotenze demenziali del suo comandante, che vorrebbe fucilarlo, perché lo sorprende a dormire dopo del suo turno di guardia, in seguito a massacranti trasferimenti senza cibo. Poi, rientrato in Italia, vede che si sistemano solo i politicanti. Ecco alcune pagine del suo Diario. “Ti sparo, erano gli ingredienti coesivi del reparto [partigiano]”. È il comandante Lampo a sferzare così i suoi sottoposti italiani, in movimento in territorio slavofono (p. 48 del Diario di Rozio). “Li scortava Mirko, il partigiano slavo promosso caposquadra, noto per la fucilazione sul posto di una guardia addormentata” (p. 79 e p. 104).

Tra i partigiani italiani si infila un personaggio ambiguo. È il mongolo, un ufficiale medico russo caucasico appartenente prima alle file nemiche; è gentile con tutti, forse è un agente in missione segreta, in contatto con l’Ozna. “Dice di avere combattuto coi dissidenti polacchi” (p. 48). Il mongolo è poi passato coi partigiani. Era ottobre 1944. Al rancio di un giorno alle ore 12, il partigiano Siro si sente male: vomito e bava schiumosa. “Sparategli, non fatelo soffrire oltre! – urlò ad un tratto qualcuno impressionato e commosso, ma troppo compreso dei sistemi eccessivamente sbrigativi cui l’avevano abituato da tempo le dure necessità della guerriglia” (p. 50). Forse epilessia? Allo stesso tempo stanno male altri partigiani, per un probabile avvelenamento. Il giorno dopo è inscenato un processo popolare: “assemblea” (p. 53) contro il mongolo. La sentenza è: “Sparategli subito!” (p. 54). Infatti gli scaricheranno il mitra alle spalle e lo seppelliranno mezzo nudo (p. 55). Si muore di fame, di sonno, di fatica… i tedeschi possono apparire da un momento all’altro” (p. 65). Poi fucilano 2 dei nostri, per tentata diserzione (p. 65); uno di questi grida: “Mamute, mamute” (mammina, mammina, in friulano) e lancia il portafogli verso un gruppo di partigiani, tra i quali c’è Gino. I corpi vengono seppelliti nelle fosse preparate. Così era la vita quotidiana del partigiano garibaldino in Slovenia, alla faccia dell’internazionalismo proletario.

Il più grave attentato dell’Ozna contro gli italiani a guerra finita è la strage di Vergarolla, presso Pola, del 18 agosto 1946. Ci furono 116 vittime e oltre 200 feriti. Del resto, attentati dinamitardi titini si verificano, nel 1946, anche a Monfalcone e Trieste, come hanno documentato Paolo Radivo, nel 2016, oltre al «Messaggero Veneto» del 1946. Un altro attentato dell’Ozna si svolge a Gorizia, presso il Parco della Rimembranza il 9 agosto 1946. Si teneva una pacifica cerimonia italiana per il XXX anniversario delle Battaglie dell’Isonzo e del tricolore italiano esposto su Gorizia redenta nel 1916. Esagitati sloveni giunti da lontano dapprima tentano di contestare e di agitare la folla, ma vengono messi a tacere. Gli stessi provocatori slavi allora lanciano delle bombe a mano sulla gente assiepata, provocando vari feriti, tra i quali Sergio Zuccolo e, per puro caso, nessun morto, come ha scritto Primo Cresta, nel 1969.

Cimeli militari. Elmetto italiano 1939-1945. Tascapane militare, post 1945, guerra fredda. Borraccia USA 1939-1954. Gavetta di un alpino di Codroipo 1939-1945, con coperchio antecedente (oggetto in alluminio più grande). Gavetta del fante italiano G.G. di Percoto, 1939-1945. Bustina partigiana, detta “titovka” di un appartenente al IX Corpus di Tito dell’Osvobodilna Fronta. Da una ricerca scolastica dell’Istituto Stringher di Udine, 2015.

Durante la Resistenza, nei centri urbani, agiscono i gappisti, che sono membri dei Gruppi di Azione Patriottica, appartenenti al Partito Comunista d’Italia. Vari gappisti al termine della guerra fuggono nella Jugoslavia di Tito molto bene accolti. Come mai? Perché sono legati all’Ozna. Nel 1946 anche Mario Toffanin “Giacca”, lo stragista di Porzùs, scappa a Capodistria, evitando il carcere successivo alla condanna comminatagli nel 1951 al processo della Corte d’Assise di Lucca. Pure certi Diavoli Rossi (gappisti della Bassa friulana collegati ai titini) fuggono in Jugoslavia, primo fra tutti il loro caporione Gelindo Citossi, poi pure Norberto Sguazzin e un certo “Tom”, di Mortegliano; “emigrano in Jugoslavia”, come ha scritto Francesca Artico. Alcuni di tali partigiani fuggiti in Istria, come “Giacca”, Mario Abram (partigiano rosso triestino), Nerino Gobbo (noto infoibatore) e Giuseppe Krevatin se la prendono coi preti italiani, minacciandoli e picchiandoli a sangue, come ha riportato il «Giornale di Trieste» del 23 novembre 1951. Poi quando i titini nel 1948 vogliono fare piazza pulita dei cominformisti, dei comunisti storici e degli stalinisti, certi partigiani italiani scappati nel “paradiso di Tito” svicolano in Cecoslovacchia, perché neanche Tito li vuole più tra i piedi. Quelli che riesce a beccare li deporta all’Isola Calva (Goli Otok) dove patiscono e muoiono di stenti, come in ogni campo di concentramento. Alcuni dei fuggitivi in Cecoslovacchia, forse per la coscienza sporca, cambiano addirittura nome, imbrogliando sui documenti.

È una scena sconvolgente quella cui assiste Antonio Zappador a Verteneglio, in Istria nel dopoguerra. “Mi è capitato di vedere tre agenti dell’Ozna – ha riferito Zappador – accoltellare a morte un compaesano, così in mezzo alla strada, come se niente fosse, poi mio padre ha fatto di tutto per tenermi nascosto dato che ero un testimone scomodo, hanno squartato quell’uomo come con i maiali al macello”. Quel tremendo ricordo vissuto verso il 1950 è contenuto pure in un verso di una recente raccolta poetica del testimone: “Ho rivisto la casa della mia fanciullezza, / pietre senza anima, / profanata dagli uomini dei pugnali” (Zappador, pag. 83).

Il colmo della situazione iugoslava è che ad un certo punto restano traumatizzati gli stessi infoibatori o eliminatori, come emerge da un’intervista. A Rovigno “si diceva che per ogni uccisione ci fosse il parere positivo dell’Ozna, il servizio segreto iugoslavo – ha detto Riccardo Simoni – so che alcuni ragazzi arruolati nell’Ozna sono rimasti poi colpiti per tutta la vita di ciò che è successo”.

Capitani partigiani slavi in Friuli

Nella Bassa friulana il 3 aprile 1945 è arrestato dai Repubblichini lo sloveno Angelo Cernig, Vinco, di 31 anni, della Brigata “Garibaldi Natisone”. Torturato per giorni dalla Banda Ruggiero nella caserma Piave di Palmanova (UD), viene impiccato il 7 aprile sui bastioni della città (Corte d’Assise di Udine, 1946). 

Pure nelle zone montane del Friuli ci sono stati dei capi partigiani slavi violenti e crudeli con tutti, compresi i loro sottoposti, come ha documentato Giulio Del Bon nel 2018. Un certo comandante Mirko è menzionato alle pagine 24, 34, 46, 111 e 254 del suo volume. Verso la metà di marzo 1944 in Carnia nasce il primo nucleo di partigiani paracomunisti, il Btg “Friuli” della Garibaldi, di cui Mirko è il comandante e Italo Mestre, Diego, il commissario. Mirko Arko, nato in Slovenia nel 1921, è un ex ufficiale iugoslavo, fuggito sembra da un Campo di prigionia. Si era stabilito fra le borgate del Comune di Lauco, mentre avrebbe potuto tornarsene a casa. Il loro Comando era a Esemon di Sopra e poi a Pani di Raveo. “Mirko era un buon combattente, tuttavia era spietato e feroce non solo nella lotta e con la gente, ma anche nei confronti di noi combattenti”, in base alla testimonianza del garibaldino Giancarlo Fraceschinis, Checo, citata da Del Bon.

Mirko si macchia di un lungo elenco di violenze e di uccisioni, per le stesse fonti della Garibaldi. Lo slavo adotta “metodi violenti ed estremisti, contrari alla mentalità dei nostri resistenti italiani”. Mirko è definito “il re degli episodi violenti estranei ai veri e propri combattenti, lo spietato giudice delle spie, l’implacabile requisitore di beni ai fascisti o non fascisti” come ha testimoniato Osvaldo Fabian, citato ancora da Del Bon.

Maria Iole Furlan, Ospedaletto, 3 maggio 1945, Carro armato P 40 della Karstjäger-Division colpito dagli inglesi, con il monte San Simeone sullo sfondo, fotocopia colorata da un’immagine diffusa da Stefano Di Giusto, cm 20,5×29, 2021.

Dopo l’occupazione della Carnia da parte Cosacca e nazifascista, nell’autunno 1944, Mirko si ritira sui monti di Pani, a Raveo, assieme alla compagna Gisella Bonanni, Katia, da Raveo, forse incinta; per sopravvivere saccheggiarono viveri e armi in un magazzino garibaldino, perciò e per gli altri gravi motivi già menzionati gli stessi comandi della Garibaldi decisero la loro eliminazione, come ha scritto P.A. Carnier, alle pp. 253, 254 di un suo libro.

Negli scontri di Paluzza, avvenuti nei giorni 8-9 luglio 1944 tra partigiani della Garibaldi e 48 Waffen SS Karstjäger della I Kompanie partiti dalla caserma di Udine al comando del maresciallo Bauernschmid resta ferito un russo, ex soldato sovietico catturato e passato nelle file tedesche, di nome Lininowitch, poi morto in ospedale. Che fosse un’altra spia doppiogiochista? Nello scontro c’erano anche genieri della Wehrmacht per liberare la strada per Passo Monte Croce Carnico ostruita da massi (Del Bon, p. 104).

Come ha scritto Luigi Raimondi Cominesi:  “Talvolta i prelievi [di generi alimentari ed altro] erano fatti arbitrariamente da personaggi che non erano partigiani ma che si spacciavano per tali. I ladri, se scoperti dai partigiani veri, venivano eliminati”. Nell’Archivio ANPI di Udine esistono dei buoni di prelievo originali, in bianco o usati. I buoni rilasciati dai partigiani vennero pagati dopo la guerra (p. 91). Ciò che colpisce, tuttavia, è la naturalezza con cui si scrive della “eliminazione” dei presunti ladri.

Ci sono infine comandanti partigiani della Divisione “Garibaldi-Natisone” assassinati dai loro stessi compagni. È successo il 30 aprile 1945 a Leo Scagliarini con un colpo alla nuca a Rizzolo di Reana del Rojale (UD). Pur essendo un democratico libertario, egli si aggrega nel 1944 alla brigata “Picelli”, col nome di battaglia “Ricciotti”, perché erano le unità più robuste per combattere i nazifascisti, ma con la metà di gennaio 1945 finiscono sotto il comando del IX Korpus titino. La spiegazione fornita dai partigiani invece narra di una morte per il fuoco amico di un aereo da caccia inglese che mitraglia una colonna di partigiani e l’autovettura con dentro “Ricciotti” il 29 aprile. Pare che l’assassino sia stato lo stesso “Giacca”, molto ostile a “Ricciotti”, che intendeva liberare Udine il 1° maggio con le bandiere tricolori e non con quelle rosse dei comunisti. Su tale eliminazione non è mai stata aperta un’indagine giudiziaria, come ha scritto Pansa (pp. 291-315).

Conclusioni – I valori umani si vedono dai comportamenti, senza che siano sbandierati. Forse sono l’elemento più importante della vita. L’individuo vive col valore dell’umanità, oppure dimentica l’umanità, compiendo gli atti del male. Come diceva Max Weber i valori vengono facilmente falsati in dichiarazioni programmatiche, scivolando banalmente nella retorica o nella predica. La disumanità dell’Ozna è così nota, che viene menzionata persino dai romanzieri, come Stefania Conte, nel suo La stanza di Piera, opera del 2020, ambientato in Istria nella Seconda guerra mondiale, compreso il dramma delle foibe.

Documento partigiano interessante datato a Gimino (Istria) 20 marzo 1944 e firmato dal Commissario Osman Kovačić (con grafia serbo-croata) per la richiesta di una radio. Il timbro d’intestazione “K.K. Žminj”, vista la firma, potrebbe essere esplicato con: “Komunistički komesar Žminj” (Commissario comunista di Gimino). Molto interessante l’uso della lingua italiana (pur con molte licenze grammaticali) tra partigiani della Venezia Giulia con comando slavo. Coll. privata Udine

Fonti orali – Riccardo Simoni, Rovigno 1940, trapiantato a San Casciano Val di Pesa (FI),  int. telefonica di E. Varutti del 23-25 febbraio 2020.  Antonio Zappador, Verteneglio 1939, int. di E. Varutti, del 23 febbraio 2020, a Fossoli di Carpi (MO).

Collezioni private: Coll. Gemma Valente, Bastajànawa, vedova Barbarino, Resia, titovka.  Coll. privata Udine, elmetto, gavette, borraccia e tascapane militari.

Bibliografia, sitologia e ringraziamenti

Sono riconoscente all’architetto Franco Pischiutti, dell’ANVGD di Udine, per i consigli bibliografici ricevuti. Grazie a Maria Iole Furlan per i disegni messi a disposizione.

Francesca Artico, “Morto ‘Ferro’, partigiano dei Diavoli Rossi”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Cervignano Latisana Bassa, 19 aprile 2020, p. 37.

Corte d’Assise di Udine, sentenza n. 120 del 5 ottobre 1946, presidente G. Rota; estratto pubblicato sul «Messaggero Veneto».

Pier Arrigo Carnier, Lo sterminio mancato, Milano, 1982.

Primo Cresta, Un partigiano dell’Osoppo al confine orientale, Udine, Del Bianco, 1969.

Giulio Del Bon, 1943-1945 Vicende di guerra. La Carnia durante l’occupazione nazista, Paluzza (UD), Associazione culturale “Elio cav. Cortolezzis”, 2018.

Stefano Di Giusto, P 40 della Karstjäger-Division a Ospedaletto, PDF nel web, 2017.

Fulvio Farba, “Scelta comunista nella Venezia Giulia. La via jugoslava al socialismo”, «Arena di Pola», n. 2.376, 9 febbraio 1985, p. 6.

Milovan Gilas, o Ðjilas, Vlast, London, Naša Reč, 1983, traduz. ital.: Se la memoria non m’inganna… Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962, Bologna, Il Mulino, 1987.

Lidia Luzzatto Bressan, Gli scomparsi da Gorizia nel maggio 1945, a cura del Comune di Gorizia, Associazione Congiunti dei Deportati in Jugoslavia, 1980, pag. 16

Orietta Moscarda Oblak, “La presa del potere in Istria e in Jugoslavia. Il ruolo dell’OZNA”, «Quaderni del Centro Ricerche Storiche Rovigno», vol. XXIV, 2013, pp. 29-61.

Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria. Chi imprigiona la verità sulla guerra civile, Sperling & Kupfer, 2007.

Joze Pirjevec, “Il ruolo del Fronte di Liberazione”, in Pietro Spirito, Roberto Spazzali (a cura di), L’altra Resistenza. La guerra di liberazione a Trieste e nella Venezia Giulia, Ote SpA, «Il Piccolo», Trieste, 1995, pp. 47-54.

Maria Pia Premuda Marson, L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda tra le epurazioni finalizzate al tentativo di porre una parte del nostro stato sotto la sovranità della nascente confederazione jugoslava, Padova, Cleup, 2017.

Maria Pia Premuda Marson, La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda comandante della Brigata Fratelli d’Italia, campeggia nella lotta per la liberazione della seconda guerra mondiale nei ricordi della popolazione più anziana dei paesi tra Piave e Livenza, Padova, Cleup, 2020.

Paolo Radivo, La strage di Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive, Libero Comune di Pola in esilio, «L’Arena di Pola», 2016.

Luigi Raimondi Cominesi, Poesie di lotta e di speranza. Frammenti dal 1944 al 2009, a cura di Pietro Angelillo, Pordenone, Istituto Provinciale per la Storia del Movimento di Liberazione e dell’Età Contemporanea, 2010.

Alvaro Ranzoni, “Se interviene anche l’Islam”, «Panorama», 21 luglio 1991.

Giorgio Rochat, Atti del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà, Milano, Angeli, 1972.

Renato Rozio, La paga del guerriero. Le vicissitudini di un partigiano della Divisone Garibaldi-Natisone sul Collio e in territorio sloveno (1944-1945), Udine, Del Bianco, 1997.

E. Varutti, Giuseppe Baucon, di Gradisca, salvatosi dalla fucilazione titina e dalla foiba a Circhina nel 1944, on line dal 20 settembre 2018 su blog-di-elio-varutti.webnode.it

Elio Varutti, L’Ozna di Tito in Nord Italia tra guerra e dopoguerra, on line dal 9 giugno 2020 su eliovarutti.wordpress.com

E. Varutti, L’ombra dell’Ozna in omicidi partigiani in Veneto. Il caso Vittorio Silvio Premuda, 1944, on line dal 10 agosto 2020 su eliovarutti.wordpress.com

Antonio Zappador, 29.200 giorni. Una vita piena di tutto… di più, Carpi (MO), stampato in proprio, 2019.

Maria Grazia Ziberna, Storia della Venezia Giulia da Gorizia all’Istria dalle origini ai nostri giorni, Gorizia, Lega nazionale, 2013.

Testi e Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e Elio Varutti. Lettore: Enrico Modotti. Disegni di Maria Iole Furlan. Copertina: Maria Iole Furlan, Elementi dell’Ozna accoltellano un italiano a Verteneglio nel 1950, matita su carta, cm 16×22, 2021, courtesy dell’artista. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia, 29 – I piano, c/o ACLI – 33100 Udine – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Arrivo dei titini a Fiume senza colpo ferire, 2-3 maggio 1945, di Rodolfo Decleva

Come finisce la seconda guerra mondiale a Fiume? Quante vittime ci sono l’ultimo giorno prima dell’armistizio? Proponiamo in lettura un originale contributo scritto di Rodolfo Decleva, da lui intitolato: 2 – 3 maggio 1945. L’occupazione jugoslava di Fiume. Testimonianza depositata in data 01 Ottobre 2020 presso la Società di Studi Fiumani in Roma, Via A. Cippico 10. La redazione del blog presente ringrazia vivamente l’Autore per la cortese concessione alla pubblicazione. Allo stesso tempo ci permettiamo di aggiungere qualche frase di contesto degli ultimi giorni di una città italiana bombardata dall’aviazione angloamericana, dall’artiglieria titina e minata nel porto dai nazisti , dove non c’è più cibo, né collegamenti ferroviari, postali o d’altro genere.

Ecco le parole dal Diario dell’ingegnere Carlo Alessandro Conighi “3.V [1945] Giornate grandemente burrascose. La città / è stata giorno e notte continuamente intronata [meglio: rintronata] / di poderosi scoppi di mine, di cannonate. Parecchie / granate caddero in città e alcune fecero vittime. / Di faccia a casa nostra dalla parte del cortile fu colpita / una testa di camino. Di tutto ciò non si conosce la / provenienza [neanche si immaginavano certi fiumani che i partigiani di Tito sparassero da Tersatto coi cannoni sulla città, come riportato nelle interviste sull’esodo da Fiume curate dallo scrivente in altri articoli, NdR] e chi siano realmente i combattenti. / Pare che durante la scorsa notte tutti i tedeschi se ne sieno andati. Noi di famiglia stiamo tutti / bene, tranne Amalia molto debole. Io personalmente sono stato e sono perfettamente / tranquillo. Divenni fatalista, quasi indifferente a tutto, / né mi lascio impressionare, lasciando correre e / dicendomi: sarà quel che sarà. Pensiamo sempre ai / lontani, incerti di quando e di come ne avremo notizie…” (Collezione famiglia Conighi, esule da Fiume a Udine). Autore del diario è l’ingegnere Carlo Alessandro Conighi, nato a Trieste il 26 febbraio 1853, costruttore di Fiume e Abbazia, morto esule a Udine il 5 agosto 1950.

Il porto di Fiume, anni ’20 ca., bombardato dagli angloamericani 1944-’45 e minato dai nazisti dalla fine di aprile 1945; Collezione Aldo Tardivelli

Così ha scritto Rodolfo Decleva nel 2020. “In questi giorni [settembre 2020, NdR] sono avvenute a Fiume-Rijeka delle manifestazioni contrarie alla iniziativa presa dall’Amministrazione cittadina di installare in cima al Grattacielo della ex Piazza Regina Elena una grande Stella Rossa formata da 2800 pezzi di vetro di colore rosso rappresentanti 2.800 Caduti Partigiani nella Battaglia per la Liberazione di Fiume. Io sottoscritto Dr. Rodolfo DECLEVA nato a Fiume l’8 Gennaio 1929, residente in quell’epoca a Fiume, in Calle del Barbacane 19, rendo la seguente testimonianza resa ‘Pour servir et valoir ce que de droit’. – – –

Dal 15 aprile al 3 maggio 1945 – Dalla metà di Aprile, ai bombardamenti aerei su Fiume si erano aggiunti lanci isolati di schrapnell [proiettile cavo, riempito di sfere di piombo, o di acciaio, e munito di una carica di scoppio collegata ad una spoletta a tempo] da parte dei Partigiani sulla nostra città che provenivano dalle alture di Tersatto. Perciò la gente si era portata i materassi nel rifugio antiaereo di Via Roma a 120 metri dal confine con Sussak e la Fiumera e vi dormiva. La nostra famiglia  continuò a dormire in casa essendo distanti dal rifugio solo un quarantina di passi. Di giorno la vita in città – occupata da tedeschi e repubblichini – era normale.

Ancora in Aprile io prendevo regolarmente il treno alle ore 7 del mattino per andare al Lager di Mattuglie per firmare la presenza e poi recarmi a piedi a Giordani dove – essendo state chiuse le scuole – ero stato precettato dalla Organizzazione TODT per la costruzione di Bunker sotto la direzione di un militare Gruppfuehrer austriaco. Nella mia squadra di 10 elementi faceva parte anche il signor Stabellini, Bidello della Scuola di Avviamento Commerciale. Rientravamo a Fiume con il treno delle ore 17.

Fiume 1945 – Bruno Tardivelli precettato al lavoro per la Todt. Collezione Aldo Tardivelli

Una settimana prima della fine del mese di Aprile, i tedeschi mi ordinarono di recarmi a lavorare ai Bunker a Santa Caterina, sulle alture sopra Fiume dove erano posizionate le difese italo-tedesche che rispondevano alle provocazioni partigiane che ho descritto sopra, dove già lavorava il mio amico Massimo Gustincich. I schrapnel continuavano a cadere ma ogni tanto uno e non a pioggia, e l’impressione era che si fosse ormai giunti alla fine. Perciò mio padre non mi lasciò andare al lavoro e quindi non feci nemmeno una giornata di lavoro a Santa Caterina. Per paura che i tedeschi mi venissero a cercare, mi fece vivere e dormire nella nostra cantina (fondo) alla quale si entrava dalla Calle dei Facchini n. 9.

Fu proprio in quei giorni – una settimana prima della fine – che i tedeschi fecero brillare le mine che avevano predisposto nei Moli e nella Diga per la distruzione del bacino portuale che richiese 4-5 giornate. Inspiegabilmente i Partigiani di Sussak restarono insensibili a tanto sfacelo senza intervenire.

Affermo che in città non c’era panico. Alle 7,30 del giorno 3 Maggio 1945 venni svegliato da una vicina – la Signora Giuditta Barbalich, la cui famiglia aderiva al movimento partigiano – abitante in Calle del Barbacane n. 23, ultima casa di questa Calle prima della Via Roma – che gridò: “Siamo liberi! I tedeschi sono andati via.”

Così è finita la guerra a Fiume con i Partigiani fermi e passivi a Sussak. Va dato atto all’Esercito jugoslavo, nato dalla lotta partigiana iniziata sin dal 1941, di aver sconfitto gli Eserciti italiano e tedesco da Belgrado a Trieste. Su «La Vedetta d’Italia», quotidiano di Fiume, seguivamo attraverso le poche righe riservate alle brutte notizie della guerra le battaglie ed i ripiegamenti delle nostre truppe da Sebenico, e poi da Bihac’ e Knin già nel Dicembre 1944.

L’ordine ai tedeschi era di difendere ogni palmo di terra per tenere lontana la guerra dalla Germania in attesa che gli scienziati producessero l’arma segreta – dopo le micidiali V1, V2 e V3 che stavano piovendo su Londra – dalla quale sarebbero cambiate le sorti del conflitto mondiale. Perciò ci vollero 4 mesi di combattimenti accaniti dell’Esercito di Tito per guadagnare i 200 km. di distanza tra Fiume e Bihac’, per cui i 2800 Caduti dichiarati recentemente in Croazia possono riguardare questo percorso raggiungendo, e insediandosi a Sussak verso la fine di Aprile.

Ma è ormai generalmente noto che la conquista di Fiume fu rinviata e il grosso dell’Armata si allargò passando a nord della nostra  città perché l’obbiettivo finale era diventato Trieste e il territorio sino all’Isonzo allo scopo di realizzare il fatto compiuto dell’occupazione militare e quindi ottenere l’assegnazione alla Jugoslavia del territorio occupato, in sede di Trattato di Pace. E in effetti con questo espediente l’Esercito di Tito vinse la storica ‘Corsa per Trieste’ giungendo in città il giorno 1° Maggio 1945 con un giorno di anticipo sui Neozelandesi fermi in attesa di ordini a Monfalcone.

A Fiume l’esercito partigiano entrò solo dopo che i tedeschi l’abbandonarono nella notte tra il 2-3 Maggio. La presero senza sparare un colpo, senza un morto, senza entusiasmi e nella freddezza del popolo fiumano.

Entrarono in città passando il Ponte sull’Eneo verso le ore 9,30 del 3 Maggio arrestando soldati italiani che stavano prendendo possesso della città. Personalmente assistetti all’arresto di tre Finanzieri di cui un Ufficiale, che erano in Via Roma a guardia di due mine anticarro lasciate dai tedeschi sulla strada a 20 metri dell’imboccatura del rifugio vis-à-vis la Caserma dei Carabinieri, oggi ancora in piedi. Probabilmente i nostri facevano parte del Gruppo di Don Luigi Polano, purtroppo bloccato dagli eventi in Italia, per cui non poté personalmente guidare il ritorno alla normalità.

In conclusione ripeto: – Nell’ultima settimana di Aprile fino al 3 Maggio 1945 la vita  a Fiume scorreva nella consueta normalità di stato di guerra con il timore di eventuali bombardamenti aerei, qualche isolato schrapnel che cadesse su qualche tetto, e il rumore delle Batterie di Santa Caterina e Drenova che rispondevano ai colpi delle postazioni partigiane a Sussak e Tersatto. ll mio amico Massimo Gustincich ha lavorato al Bunker Streiffen 3/B della TODT a Santa Caterina regolarmente fino a tutto il 29 Aprile 1945, situato nel dirupo a strapiombo sull’Eneo in fronte ai partigiani posizionati nella collina di Tersatto. Nel giorno 30 Aprile, il Gruppo di cui faceva parte venne spostato in zona meno esposta. Quindi, fino ancora due giorni dall’occupazione titina egli si recava a piedi dal Centro della città sino a Santa Caterina senza incontrare problemi o pericoli durante il tragitto.

Il porto saltava a pezzi tra l’indifferenza della gente in strada, preoccupata solo di non esserne    colpita, e consapevole che si era ormai alla fine. – La popolazione dormiva nei rifugi antiaerei o nelle abitazioni. – Non ci furono assolutamente sparatorie strada per strada o battaglie casa per casa, etc. da provocare morti né italiani né jugoslavi. – Alle 8 del mattino del 3 Maggio 1945 nella città di Fiume c’erano soldati italiani imboscati e Forze di polizia italiane al lavoro in servizio d’ordine.

– I Partigiani che da giorni erano stabiliti a Sussak, passarono il Ponte sull’Eneo verso le 9,30 a piedi entrando nel Centro della città dalla Via Roma e dalla Via Fiumara come già descritto in narrativa. Così occuparono la città. In fede. F.to  Dr. Rodolfo Decleva. Fatto in Genova, il 1° Ottobre 2020”.

Cartolina con borgo di Sussak; Collezione Aldo Tardivelli

Nel 1944, Fiume tra guerra e teatri – Sono le parole di Aldo Tardivelli quelle che seguono. È un altro fiumano patoco. Aldo Tardivelli, nato a Fiume il 20 settembre 1925, è deceduto a Genova il 19 novembre 2020 a causa del Corona virus. Ecco il suo racconto, scritto agli inizi del 2000. “La passione per la recitazione aveva spinto mio fratello Bruno ad allestire, insieme con altri amici, una compagnia di recitazione ‘filodrammatica’, come aveva fatto nostro padre, quando frequentava il circolo degli impiegati la Filodrammatica del Dopolavoro Ferroviario, con gran successo. ‘Lo Smemorato. Le Baruffe Chioggiotte. I Gatti Selvatici, L’Antenato. I fallimenti del curatore, Tre Rusteghi, Il medico e la pazza’. Commedie brillanti e di successo nel Teatro Fenice e Teatro Giuseppe Verdi nel 1944.

Fiume, 15.6.1944 – Il medico e la pazza. Compagnia teatrale filodrammatica. Collezione Aldo Tardivelli

Non c’erano grandi occasioni mondane in quel tempo. Se per caso suonava durante la recita l’allarme, correvano tutti nel rifugio, e poi…il successo era stato garantito, ma fra questi ‘bravi e novelli teatranti’ c’erano alcuni militanti e simpatizzanti collegati politicamente alle cellule clandestine del ‘Movimento Antifascista di Liberazione’. Alla fine la maggioranza di questi attori hanno optato e partirono per l’Italia nel 1947-48. In corso di un rastrellamento, durante la notte, le ‘forze di sicurezza naziste delle SS’ avevano arrestato gran parte della compagnia teatrale e condotta, con la forza, nelle carceri di Via Roma, mentre altri che non erano presenti in casa erano riusciti a sfuggire alla cattura.

Su tutti i detenuti del carcere persistevano per i diversi capi d’imputazione, l’incubo di una ìmorte certa’. Il dramma di questi condannati, non era diverso da quello di diventare, anche, ‘ostaggi di se stessi’ in seguito a qualche inutile attentato od omicidio di uno o più soldati Tedeschi, commesso dai loro ‘Compagni di lotta’.

Con uno stratagemma Aldo Tardivelli, tuttavia, riuscì a far liberare il fratello Bruno, che si salvò dalle grinfie naziste. Col 3 maggio 1945 la città fu invasa dagli iugoslavi ed iniziarono gli arresti di italiani da parte dei titini.

Fonti originali – Rodolfo Decleva, 2 – 3 maggio 1945, L’occupazione jugoslava di Fiume. Testimonianza depositata in data 1° Ottobre 2020 presso la Società di Studi Fiumani in Roma, Via A. Cippico 10, testo in Word, pp. 2; Collezione Elio Varutti, ANVGD di Udine.

Dalla Collezione di Claudio Ausilio, esule da Fiume a Montevarchi, ANVGD di Arezzo: – Aldo Tardivelli, Una vita in pericolo (1944-1945), testo in Word, s.d. [2003?] pagg. 15. – A. Tardivelli, Fiume, 3 maggio 1945, testo in Word, s.d. [2003?] pp. 12.

Collezione famiglia Conighi, esule da Fiume a Udine, ms.

Collezione Aldo Tardivelli, esule da Fiume a Genova, cartoline e testi in Word

Sitologia – E. Varutti, Diario di Carlo Conighi, Fiume aprile-maggio 1945, on line dal 7 giugno 2016.

Ricerca di Claudio Ausilio (ANVGD di Arezzo) e Elio Varutti (ANVGD di Udine). Autore principale: Rodolfo Decleva. Altri testi e Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio, Rodolfo Decleva e Sebastiano Pio Zucchiatti. Copertina: Cartolina del Ponte sull’Eneo tra Fiume e Sussak/Sussa, anni ‘40; Collezione Aldo Tardivelli. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia, 29 – I piano, c/o ACLI – 33100 Udine; orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

L’ombra dell’Ozna in omicidi partigiani in Veneto. Il caso Vittorio Silvio Premuda, 1944

Certi libri hanno un’anima. Ne sa qualcosa l’autrice Maria Pia Premuda Marson che intende coltivare la memoria alla stessa stregua di un bene culturale. Questi libri squarciano la tela del silenzio riguardo all’uccisione di partigiani italiani da parte di altri italiani, sotto la guida di un burattinaio slavo. La sua battaglia culturale inizia nel 2013, quando dà alle stampe Rievocazioni storiche di Vittorio Silvio e di Nicolò Premuda: documenti, storia e tracce della famiglia, per l’editrice Cleup di Padova. Sin da quell’esordio editoriale sui temi del secondo conflitto mondiale si nota una disperata ricerca della verità riguardo l’assassinio di Vittorio Silvio Premuda, partigiano della formazione “Fratelli d’Italia”, oltre che suo caro zio, da parte di partigiani comunisti italiani guidati da un comandante slavo. I libri che seguono e che qui si recensiscono sono la prosecuzione e l’approfondimento dell’indagine volta a recuperare la memoria del tenente colonnello Vittorio Silvio Premuda, come recita il sottotitolo del volume del 2017: L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda tra le epurazioni finalizzate al tentativo di porre una parte del nostro stato sotto la sovranità della nascente confederazione jugoslava.

Il problema per Maria Pia Premuda Marson è che la letteratura e certi storici novecenteschi della Resistenza derubricano la fucilazione di Vittorio Premuda, avvenuta il 19 agosto 1944, come un fatto d’invidia tra partigiani di opposte formazioni politiche. Oppure ascrivono all’impreparazione militare della compagine del Premuda la tremenda fine “in un lago di sangue del suo comandante”, come ha scritto, senza contattare i discendenti né consultare gli atti della Corte d’Assise di Treviso, Roberto Binotto in Personaggi illustri della Marca Trevigiana, 1996. Per giunta è del tutto paradossale scrivere che un tenente colonnello di fanteria del Regio esercito, sia impreparato, vista la sua carriera militare che lo vide per anni impegnato in Libia, Tunisia, Veneto, Campania e poi passato alla macchia, dopo l’8 settembre 1943, per sfuggire ai lager nazisti.

Allora, chi ha ucciso Vittorio Silvio Premuda? Non è una scaramuccia fra partigiani con un comandante rimbecillito che ordina fucilazioni a vanvera. Secondo la sentenza della Corte d’Assise di Treviso del 3 dicembre 1946 e dagli articoli de «Il Gazzettino» di quel periodo, egli fu attirato con una scusa in una trappola dal comandante comunista “Tigre”, poi venne arrestato e fucilato da partigiani garibaldini comunisti, guidati dallo slavo Kubricevic Svetiovar, detto “Felice” e dallo stesso capo partigiano italiano “Tigre”, comunista di Oderzo (TV). Gli assassini sono tanti contro uno. Essi arrivano in camion e si nascondono per catturarlo meglio. Tra l’altro il Kubricevic è un ufficiale della marina iugoslava (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 58), allora viene modestamente da chiedersi: di quali barche slave si stava egli occupando mentre operava sulle colline di Vittorio Veneto? Ecco affacciarsi l’ombra dell’Ozna, il servizio segreto titino.

Nel 1994 l’Amministrazione comunale di Codognè (TV), nella persona del sindaco Mario Gardenal, promuove la commemorazione di Vittorio Silvio Premuda, in occasione del 50° anniversario del suo massacro. Come scrive la nipote, tra le autorità che si notarono c’era il vescovo di Vittorio Veneto Eugenio Ravignani, nativo di Pola, l’ingegnere Silvio Cattalini, esule da Zara e presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, assieme a molte autorità militari e rappresentanze d’Arma (La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda…, 2020, p. 13).

I due volumi del 2017 e del 2020 della Premuda Marson fanno luce su un fatto rimasto nell’ombra per la congiura del silenzio, rottasi solo dopo la caduta del Muro di Berlino (1989). Le uccisioni fra partigiani, secondo la retorica novecentesca di gran parte degli storici della Resistenza è sempre meglio classificarle come vendetta e invidia tra personaggi facinorosi e strambi. L’ottima divulgatrice che è Maria Pia Premuda Marson, bilaureata della classe 1927 nonché socia dell’ANVGD di Udine, colma un vuoto assordante nella vicenda del massacro del tenente colonnello Vittorio Silvio Premuda, comandante della Brigata “Fratelli d’Italia” di partigiani non comunisti attivi tra Piave e Livenza. Egli non era disposto a passare sotto il comando dei partigiani garibaldini, come espressamente gli fu richiesto, per tale motivo lo slavo Kubricevic Svetiovar, detto “Felice”, ne decretò la morte, ben sei mesi prima dell’eccidio di Porzus, in Comune di Attimis (UD). Altro ammazzamento fra partigiani più tristemente noto rispetto all’eliminazione del Premuda stesso.

Si tenga presente poi che il comandante della Brigata “Fratelli d’Italia” era in contatto tramite il generale Cugini “Castelli” con gli angloamericani che lo rifornivano con lanci aerei di vario materiale bellico, previo messaggio su Radio Londra (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 4). Tutto ciò dava molto fastidio ai partigiani garibaldini, guidati da Kubricevic Svetiovar, detto “Felice”, probabile agente dell’Ozna.

Dopo la morte e il riconoscimento del cadavere di Vittorio Silvio Premuda, il comando della sua unità partigiana passò al fratello Nicolò Premuda, “Nipro”. Nel mese di aprile 1945 i patrioti di detta formazione erano oltre 700 e collaborano con altri partigiani contro i tedeschi, fino all’arrivo dei Neozelandesi. Nicolò Premuda, volontario irredentista nella Grande Guerra, in seguito fu sindaco per 14 anni a Codognè fino al 1970. Egli, nel tentativo di evitare una guerra fratricida alla fine della seconda guerra mondiale, fu ferito gravemente il 27 aprile 1947. Chi gli spara? Voleva  trattare la resa col maggiore Gulmanelli, comandante della Guardia Nazionale Repubblicana di Codognè. Durante le concitate trattative, mentre erano essi diretti a Oderzo, ci fu uno scontro a fuoco “da partigiani contrari ai suoi ordini di evitare una guerra fratricida; cadde svenuto nel sangue ed il maggiore dei fascisti, urlò spiegazioni ma vedendosi in balia di ribelli, si sparò e la orribile strage che mio padre [Nicolò] voleva evitare, incominciò a Camino di Oderzo e poi venne perpetrata sul Piave a Susegana” (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda, 2017, p. 75)

L’autrice riporta in qualche pagina finale pure la toccante vicenda dei suoi avi dell’Isola di Premuda, situata tra Lussino e Zara, oltre ad altri suoi antenati di Lussino (Istria, ora: Croazia) e di Perasto alle Bocche del Cattaro (Dalmazia, ora: Montenegro). Qualche facciata è dedicata pure all’esodo giuliano dalmata, quando nel settembre 1943 la famiglia della sorella di suo padre Nicolò si trova ad ospitare a Roverbasso di Codognè (TV) certi lontani parenti Premuda di Fiume e di Pola con cinque bambini. “Allora non comprendevo la causa di questo avvenimento strano, perché a me adolescente, era stata nascosta la tragica realtà” (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 74).

La Redazione del blog prende spunto da questi due interessanti volumi di Maria Pia Premuda Marson per effettuare alcune collimazioni con l’originale interpretazione dell’autrice stessa riguardo alle spinte annessionistiche iugoslave riguardo a tutta la provincia di Udine, fino oltre il fiume Livenza, in territorio veneto sulle rive del Piave (La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda…, 2020, p. 15).

Titini a Gorizia coi consiglieri sovietici – È risaputo che l’occupazione di Gorizia dal 1° maggio 1945 da parte dei miliziani di Tito, assistiti da consiglieri sovietici, durò 40 giorni, durante i quali furono arrestati e deportati centinaia di italiani. La presenza sovietica rientra nella dicitura “formazioni poliziesche”, come l’Ozna, che affiancano l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia. Gli artificieri iugoslavi fanno persino saltare due ponti sull’Isonzo, rallentando così l’arrivo delle truppe alleate, per procedere meglio alla caccia degli italiani, facendo innalzare i cartelli “Gorica je naša” (Gorizia è nostra). Poi puntano sul Tagliamento ed oltre. Esiste un elenco di 651 civili e militari arrestati a Gorizia e deportati dai titini fra il 1° maggio e il 12 giugno 1945 che, pur necessitando di ovvi aggiornamenti, rappresenta il teatro delle eliminazioni al confine orientale. In ogni pattuglia titina aggirantesi per la città con tanto di elenco, durante la cattura, partecipa pure un partigiano garibaldino italiano, per individuare meglio i potenziali prigionieri (Associazione Congiunti dei Deportati in Jugoslavia, Gli scomparsi da Gorizia nel maggio 1945, a cura del Comune di Gorizia, 1980, pag. 16).

Pochi imprigionati dai titini sono ricomparsi malconci in seguito, mentre altri nomi sono stati aggiunti alla lista dei deportati e scomparsi tanto che, nel 2019, essi ammonterebbero a 665 casi. Secondo l’elenco delle displaced persons prodotto dagli Alleati nel 1947, gli scomparsi a Gorizia furono 1.100, di cui 759 civili e 341 militari. Gli impiegati vennero licenziati in blocco e riammessi al lavoro solo firmando una dichiarazione di aderire agli ideali del Partito comunista iugoslavo. Commercianti e contadini vennero costretti a consegnare i raccolti, i prodotti alimentari e le merci in cambio di vaghe parole compilate su foglietti volanti senza intestazione o timbri ufficiali degli occupanti slavi (Dino Messina, Italiani due volte. Dalle foibe all’esodo: una ferita aperta della storia italiana, Milano, Solferino RCS Mediagroup, 2019, pp. 133-135).

Riguardo alla presenza di consiglieri russi Antonio Zappador, esule istriano, ha riferito che a Verteneglio due militari ucraini, in veste di consiglieri sovietici, avendo riconosciuto in casa sua madre Olga Alexsandrovna Rackowsckij, della nobiltà ucraina, le si sono inginocchiati accanto baciandole la veste, in barba ai fondamenti leninisti (Antonio Zappador, Verteneglio 1939. Intervista di Elio Varutti del 23 febbraio 2020 a Fossoli di Carpi, MO).

Pochi autori spiegano che i titini, oltre ad occupare Fiume, Pola, Trieste e Gorizia, sono giunti sino a Monfalcone, Romans d’Isonzo, Cividale del Friuli, Aquileia e Cervignano del Friuli, nella Bassa friulana. Una jeep di artificieri iugoslavi fu vista da partigiani della Osoppo sulle rive del Tagliamento, vicino ad un ponte. Come ha scritto Mara Grazia Ziberna a Gorizia “il periodo dell’occupazione titina, dal 2 maggio al 12 giugno 1945, vide la costituzione nella Venezia Giulia dello Slovensko Primorje, cioè il Litorale Sloveno, che aveva come capoluogo Trieste e comprendeva anche il circondari di Gorizia, diviso in sedici distretti e composto anche dai comuni di Cividale del Friuli, Tarvisio e Tarcento [della provincia di Udine], considerati slavofoni” (Maria Grazia Ziberna, Storia della Venezia Giulia da Gorizia all’Istria dalle origini ai nostri giorni, Gorizia, Lega nazionale, 2013,  p. 83).

Si sa, infine, che diversi partigiani russi hanno combattuto contro i nazifascisti in Friuli dall’inizio del 1944. A Forni di Sopra (UD) c’era il battaglione Stalin, che operava in Carnia. Un altro battaglione di garibaldini sovietici agiva tra Veneto e Friuli, poi c’era il battaglione Kirov, attivo nel Pian del Cansiglio (BL, PN e TV). Infine c’era nientemeno che il figlio primogenito di Stalin nella Brigata partigiana Piave, operativa sulle colline di Vittorio Veneto (TV); egli si celava sotto il nominativo di Giorgio Vorazoscvilj “Monti” («Il Gazzettino» Cronaca di Treviso, 29 agosto 2015, citato dalla Premuda Marson, 2017). Con tutti questi reparti militari, pare plausibile che ci fossero pure certi agenti dei loro servizi segreti, in alleanza con quelli iugoslavi, come l’Ozna. Proprio Maria Pia Premuda Marson afferma che “Agenti speciali sovietici si erano inseriti nelle formazioni partigiane denominate ‘Brigate Garibaldine” (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 17).

Vittorio Silvio Premuda

La moralità della Resistenza – I temi riguardanti l’etica della Resistenza non sono oggetto di indagini solo di Gampaolo Pansa, che ha iniziato ad indagare sulle eliminazioni nel Triangolo rosso di Reggio Emilia con Il sangue dei vinti (2005), con La Grande bugia (2006) ed altro. Essi sono stati messi sul piatto della bilancia sin dal 1991 da Claudio Pavone, col suo Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Poi, per i ricercatori, è stato come un fiume in piena fino, appunto, al ruolo dell’Ozna negli eccidi dell’Italia del Nord. 

Uno dei mandanti dell’omicidio Premuda è uno iugoslavo. Che ci faceva uno iugoslavo in territorio veneto ad oltre 130 km dalla sua vantata area slovenofona se non fosse stato una spia dell’Ozna, il servizio segreto di Tito? È un’ipotesi del recensore, suffragata da vari riferimenti. Si sa, ad esempio, che da un rapporto segreto del Ministero dell’Interno italiano, del 1946, l’Ozna era “già riuscita ad infiltrare molti elementi nelle file dei cetnici [ex monarchici serbi], specie tra i profughi giuliani che si trovano a Roma nei campi profughi di Forte Aurelio e Cinecittà”. Si veda in merito: O.Z.N.A.: La mano segreta di Tito, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Della P.S. – Divisione S.I.S., Roma, 19 novembre 1946,  consulenza di Aldo Giannuli, Università di Milano; nel sito web storiaveneta.it

Tra la fine della guerra e nel dopoguerra l’Ozna è presente in Italia del Nord. I suoi agenti si mimetizzano nei gruppi partigiani comunisti o nelle grandi città; osservano e prendono nota. Il loro obiettivo si lega allo sciovinismo-nazionalista di Tito, allargare l’area territoriale fino a superare Isonzo, Tagliamento, Livenza e Piave, facendo pesare il ruolo militare dell’Esercito Popolare di Liberazione iugoslavo il più possibile quando sarà il momento di sedersi attorno ad un tavolo della pace, Alleati permettendo. A Fasana, presso Pola, c’è la sede delle operazioni speciali che l’Ozna prepara per l’Alta Italia e per Roma.

Conclusioni – I fatti dell’esodo giuliano dalmata, dell’uccisione nelle foibe e delle eliminazioni di partigiani italiani autonomi o azionisti da parte dei titini dovevano restare nascosti perché c’era la Cortina di ferro, da Danzica a Trieste. Come disse Winston Churchill, nel marzo 1946, a separare l’Europa in due sfere politiche, una sovietica e l’altra angloamericana c’è la Cortina di ferro. In piena Guerra fredda e con le spie di tutto il mondo che ronzavano tra Gorizia, Trieste, Tarvisio, Venezia e Treviso non si doveva scomodare Tito, capo della Federativa Repubblica di Jugoslavia, che si stava staccando politicamente da Mosca e da Stalin, mentre gli agenti dell’Ozna gironzolavano nel Nord Italia e a Roma con i loro loschi obiettivi. È appena il caso di ricordare che la strage di Vergarolla, presso Pola, mentre la zona è controllata da reparti britannici, avviene per mano dell’Ozna, secondo vari storici; l’orribile attentato è del 18 agosto 1946 provocando 64 morti, centinaia di feriti (tutti italiani), oltre alla fuga del 95% degli abitanti del capoluogo istriano verso Trieste, Venezia e Ancona.

La “Odeljenje za Zaštitu Naroda” (Ozna) è la sigla che significa: Dipartimento per la Sicurezza del Popolo. C’è una seconda versione che così spiega la sigla: “Oddelek za zaščito naroda”; letteralmente: Dipartimento per la protezione del popolo. Era parte dei servizi segreti militari iugoslavi e fu attiva dal 1944 fino al 1952. L’organizzazione titina, programmata da Tito e Milovan Gilas, era dotata di carceri proprie e attuava requisizioni, vessazioni ed addirittura ha programmato la pulizia etnica a Pola contro gli italiani. La pianificazione delle uccisioni di italiani in Istria, Fiume e Dalmazia per mano titina è stata documentata da Orietta Moscarda Oblak a pp. 57-58 di un suo saggio (“La presa del potere in Istria e in Jugoslavia. Il ruolo dell’OZNA”, «Quaderni del Centro Ricerche Storiche Rovigno», vol. XXIV, 2013, pp. 29-61.). Agenti dei servizi segreti di Tito negli anni ‘50 si infiltrano perfino nei Centri raccolta profughi (CRP) sparsi in Nord Italia per carpire notizie sui rifugiati e per altre operazioni di stampo terroristico nelle città. Dal 1946 al 1991 la polizia segreta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia diviene “Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti” o Udba; letteralmente: “Amministrazione Sicurezza Statale”. Processato e incarcerato da Tito, dal 1954 al 1966, come dissidente lo stesso Milovan Gilas, nel 1991, riguardo all’Istria del 1945-‘46, dichiarò al giornalista Alvaro Ranzoni, del settimanale italiano «Panorama»: “Gli italiani erano la maggioranza solo nei centri abitati e non nei villaggi. Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto”. Gravi dichiarazioni mai smentite quelle di Gilas, che fu segretario del Komunisticna Partija Iugoslavije (Partito comunista iugoslavo); egli ammise inoltre in un suo noto memoriale, a p. 12, che in Jugoslavia gli “arresti effettuati al di fuori della legge, come in tempo di guerra, continuavano a essere la pratica corrente” (Se la memoria non m’inganna… Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962, ediz. originale: Vlast, London, Naša Reč, 1983, traduz. ital.: Bologna, Il Mulino, 1987).

La Società di Studi Fiumani di Roma ha documentato nell’opera bilingue (italiano e croato) – Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni, pubblicata nel 2002 a cura di Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski e presentata a Roma e a Zagabria – come andarono le cose dopo l’avvento della nuova dittatura comunista iugoslava. Sono oltre 580 le persone uccise a Fiume dalla polizia segreta dell’Ozna a guerra finita, senza umana giustizia. L’Ozna operò fino al 1952, assieme all’Udba, che poi prese le redini dei servizi segreti titini. La gente continua a chiamare le spie di Tito: quelli dell’Ozna.

I libri qui recensiti

Maria Pia Premuda Marson, L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda tra le epurazioni finalizzate al tentativo di porre una parte del nostro stato sotto la sovranità della nascente confederazione jugoslava, Padova, Cleup, 2017.

Maria Pia Premuda Marson, La memoria del patriota cristiano, ten. col. Vittorio Silvio Premuda comandante della Brigata Fratelli d’Italia, campeggia nella lotta per la liberazione della seconda guerra mondiale nei ricordi della popolazione più anziana dei paesi tra Piave e Livenza, Padova, Cleup, 2020.

Recensione di Elio Varutti. Attività di ricerca e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Copertina: Perasto, Bocche di Cattaro 1942, ediz. Libreria italiana Cattaro, dal web. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia 29, I piano – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

L’Ozna di Tito in Nord Italia tra guerra e dopoguerra

Certi studiosi sostengono che nel Nord Italia e a Roma ci sia stata l’azione di agenti dell’Ozna, la polizia segreta iugoslava (vedi in Sitologia: Marenghi). Le spie di Tito non sono necessariamente tutte iugoslave; ad esempio, tra di loro ci può essere qualche stalinista italiano dal fervente spirito internazionalista, oltre che alla ricerca di protezione per le malefatte commesse sul suolo italico.

Da un rapporto segreto del Ministero dell’Interno italiano, del 1946, l’Ozna era “già riuscita ad infiltrare molti elementi nelle file dei cetnici [ex monarchici serbi], specie tra i profughi giuliani che si trovano a Roma nei campi profughi di Forte Aurelio e Cinecittà”. La stessa organizzazione segreta iugoslava, in base al citato rapporto, ha stretti contatti con i sovietici (vedi: Ozna, in Sitologia).

Le fucilazioni nel Nord Italia

A fine aprile 1945 ci sono decine di fucilazioni da parte di partigiani col fazzoletto rosso nelle prigioni di Pordenone e in quelle di Milano con l’accusa ai prigionieri di essere fascisti. A Trieste alla fine di maggio 1945, durante l’occupazione titina, durata dal 1° maggio al 12 giugno, si verifica un violento fatto strano. Un ordigno esplode a Villa Segre, dove sono acquartierati i partigiani garibaldini italiani, in teoria, filo-titini. Ci sono 5 vittime. È un increscioso incidente, oppure un attentato dell’Ozna contro i partigiani italiani “troppo poco comunisti e sciovinisti”? I partigiani garibaldini friulani sono giunti a Trieste il 20 maggio, come ha scritto Luciano Santin, al comando di Giovanni Padovan, commissario della Divisione Garibaldi e vice del raggruppamento “Friuli”, su 13 carri armati e autoblinde. Così sentenzia il quotidiano titino di Trieste «Il Nostro Avvenire» si tratta delle: “brigate italiane dell’Armata di Tito”. Questi partigiani hanno sì il fazzoletto rosso al collo, ma poco propensi a vedere sventolare solo la bandiera iugoslava nella sfilata in programma. Tito si aspetta un intervento di appoggio alle rivendicazioni slave su Trieste, Gorizia e parti del Friuli, ma Padovan “Vanni” al comizio nulla dice sulla nascente Settima Repubblica della Federativa di Jugoslavia, che nei piani titini avrebbe avuto per capitale Trst (Trieste) e arrivare fino al Tagliamento, compresa Videm (Udine). Ecco i retroscena del sanguinoso attentato di Villa Segre a Trieste.

Nel mese di giugno e nei primi giorni di luglio del 1945 accadono altri gravi fatti di sangue in varie città del Nord Italia, che possono essere riconducibili all’Ozna. Squadre di partigiani comunisti attaccano le carceri col mitra per eliminare i detenuti, uccidendo pure i poliziotti. L’8 giugno si assiste all’attacco armato alle prigioni di Ferrara, che provoca 18 morti (vedi: Bruno Vespa), incluso Costantino Satta, comandante delle carceri giudiziarie, abbattuto a colpi di rivoltella.

Il 15 giugno successivo c’è l’assalto alla prigioni di Carpi, in provincia di Modena, che causa 14 cadaveri. Il bilancio complessivo tra Carpi e Ferrara è di 32 morti e circa 50 feriti, tra i quali ci sono alcuni fascisti, o presunti tali. Nella notte fra il 6 ed il 7 luglio 1945 c’è l’assalto partigiano al carcere di Schio, in provincia di Vicenza, che provoca la morte di 54 individui, comprese varie donne, reputati in blocco o in parte fascisti. Si può individuare un’unica strategia nei repulisti delle varie città italiane menzionate. Gli ordini probabilmente giungono dall’Est e sono condivisi, con spirito internazionalista, dai dirigenti locali del Pci succubi a Tito. Le citate carneficine sono collegabili per gli obiettivi generali cominformisti ad altri massacri, come l’eccidio di Porzùs (1945), in Friuli e la strage di Vergarolla, a Pola, in Istria (1946), pure ordita dall’Ozna. Di Vergarolla si sa il numero esatto dei morti identificati e sepolti, che sono 64, come segnato sulla lapide in San Giusto a Trieste. Nessun morto o ferito si registra fra i filo-iugoslavi a Vergarolla. Si sa con minore precisione il nome delle vittime non identificate e dei numerosi feriti, sui funerali, sul cordoglio e la solidarietà di polesi e di altri.

È il 18 agosto 1946. La guerra è finita da più di un anno ormai. Pola, in Istria, è un’enclave italiana amministrata dagli alleati, mentre gran parte della penisola istriana è stata occupata dalle forze militari titine. Anche Trieste coi suoi dintorni sta per diventare un’entità indipendente; è il Territorio Libero di Trieste, amministrato dagli alleati, fino al 1954, quando la città giuliana ripassa all’Italia. Sulla spiaggia di Vergarolla di Pola, affollata di bagnanti italiani, famigliole e bimbi, c’è chi assiste alle gare di nuoto della coppa Scarioni. Pochi polesani si preoccupano delle numerose mine e delle bombe di profondità ben disinnescate e ammucchiate lì vicino. È un deposito d’esplosivi a cielo aperto. Qualcuno va ad innescarne una, oppure piazza una bomba, per fare saltare “per simpatia” tutto il resto, come direbbe un artificiere. Chi è l’autore dell’efferato gesto? Lo si è scoperto nel 2008, dopo l’apertura degli archivi militari inglesi, come ha riportato «Il Gazzettino» del 18 agosto 2014. La responsabilità del misfatto è da attribuirsi all’Ozna, la polizia segreta di Tito, ma tale conclusione è stata contestata da parte slava. È a Fasana la sede dell’Ozna competente per le operazioni su Pola. Del resto, attentati dinamitardi titini si verificano, nel 1946, anche a Monfalcone e Trieste, come hanno documentato Paolo Radivo, nel 2016, oltre al «Messaggero Veneto» del 1946. “Tra la paura delle foibe e la strage di Vergarolla – dicono gli esuli riparati in Italia, come l’ingegnere Sergio Satti, esule a Udine – da Pola, la mia città, se ne andò il 90 per cento degli abitanti, tutti italiani”.

I temi riguardanti l’etica della Resistenza non sono oggetto di indagini solo di Gampaolo Pansa, che ha iniziato ad indagare sulle eliminazioni nel Triangolo rosso di Reggio Emilia con Il sangue dei vinti (2005), con La Grande bugia (2006) ed altro. Essi sono stati messi sul piatto della bilancia sin dal 1991 da Claudio Pavone, col suo Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Poi, per i ricercatori, è stato come un fiume in piena fino, appunto, al ruolo dell’Ozna negli eccidi dell’Italia del Nord. 

Un passo indietro al 1943

Nelle città italiane, dopo l’8 settembre 1943, operano in armi contro i tedeschi i Gruppi di Azione Patriottica (Gap), appartenenti al Partito Comunista d’Italia. In Friuli c’è la Divisione Garibaldi Natisone e i partigiani garibaldini, dal fazzoletto rosso, sono di orientamento politico soprattutto comunista. Altri partigiani agiscono col fazzoletto verde e sono le Brigate Osoppo Friuli (BOF), di orientamento cattolico, monarchico e laico-socialista. Tutta la resistenza armata dovrebbe dipendere dal Comitato di Liberazione Nazionale (Cln), con esponenti politici della Democrazia Cristiana, Democrazia del Lavoro, del Partito d’Azione, del Partito Repubblicano, del Partito Socialista, del Partito Liberale e del Pci. Il Cln esige che sia fatto un processo prima di ammazzare qualcuno imprigionato con l’accusa di essere fascista, ma certe bande garibaldine filo-titine non seguono tale dettame, oppure intentano processi farsa, senza avvocato difensore o peggio ancora. L’occupazione titina di Trieste dal 1° maggio al 12 giugno 1945 provoca la deportazione di alcune migliaia di italiani o la loro uccisione ed eliminazione nelle foibe limitrofe. L’occupazione slava di Gorizia causa 1.048 deportati, tra i quali oltre 900 risultano scomparsi, eliminati nelle foibe, nelle cave, nelle fosse anticarro o nei campi di concentramento titini (i gulag di Tito), come in quello di Borovnica, tra Idria e Lubiana.

Vari gappisti al termine della guerra fuggono dal Friuli e dal Veneto nella Jugoslavia di Tito, che si annette l’Istria, Fiume e la Dalmazia, ove permangono forti presenze di italofoni, nonostante le violenze titine. Nel 1946 Mario Toffanin “Giacca”, lo stragista di Porzùs, fugge a Capodistria, evitando il carcere successivo alla condanna comminatagli nel 1951 al processo della Corte d’Assise di Lucca. Nell’Istria titina riesce a trovare tutta quell’accoglienza, che sia collegato all’Ozna? Il 7 febbraio 1945 avviene l’eccidio di Porzùs, in Comune di Faedis (UD); è un tragico ammazzamento fra partigiani. Quel giorno, infatti, alle malghe di Porzùs, diciassette partigiani (tra cui una donna, loro ex prigioniera) della Brigata Osoppo Friuli (BOF), sono fucilati da parte di un gruppo di partigiani, in prevalenza giovani gappisti di San Giovanni al Natisone (UD) e dintorni, comandati, o per meglio dire, terrorizzati da “Giacca”. Ciò segna il punto massimo delle tensioni fra partigiani garibaldini (pro-titini sloveni) e le BOF, che invece difendevano l’italianità del territorio, contro l’espansionismo nazionalista iugoslavo. È il signor B.V. a riportarmi in merito certe notizie, il 22 giugno 2015. Si riferiscono a suo padre Antonio (nome di fantasia, per riservatezza). Piuttosto che i ragazzi sotto leva finissero nella Organizzazione TODT (a lavorare per i nazisti), o nella Milizia Difesa Territoriale dei fascisti, o peggio, nelle Waffen SS italiane, i partigiani se li portano dietro in bosco. Il racconto fatto da Antonio, il requisito dai partigiani garibaldini, continua così: “Si sapeva che Giacca voleva fare pulizia, allora, si veve plui pôre di lui che dai todescs (si aveva più paura di lui che dei tedeschi)”. Giacca è il nome di battaglia di Mario Toffanin (Padova 1912 – Sesana, Slovenia 1999), il comandante partigiano che, su mandato del Comando del IX Korpus sloveno e dei dirigenti della Federazione del PCI di Udine, effettuò le uccisioni a Porzùs. Sono loro stessi, i partigiani dal fazzoletto rosso, a parlare di pulizia, un lessico tipico dell’Ozna.

Volantino partigiano della Divisione Garibaldi Natisone inneggiante a Tito, mentre i titini a Trieste dal 1° maggio 1945 deportavano e uccidevano nelle foibe gli italiani

Pure certi gappisti attivi tra Palmanova e Cervignano del Friuli, con l’appellativo di Diavoli Rossi se la svignano in Jugoslavia, primo fra tutti il loro caporione Gelindo Citossi, poi pure Norberto Sguazzin e un certo “Tom”, di Mortegliano; essi “emigrano in Jugoslavia”, come ha scritto Francesca Artico. Alcuni di tali partigiani fuggiti in Istria, come “Giacca”, Mario Abram (partigiano rosso triestino), Nerino Gobbo (noto infoibatore) e Giuseppe Krevatin se la prendono coi preti italiani, minacciandoli e picchiandoli a sangue, come ha riportato il «Giornale di Trieste» del 23 novembre 1951. I Diavoli Rossi, in base a quanto scritto da Elio Bartolini nel romanzo storico Il Ghebo, sono crudeli e con scarsa disciplina (pp. 12 e 34), pronti a rubare camion pieni di roba durante la guerra da portare oltre il Collio, in quella che sarà la Jugoslavia di Tito, per far bella figura coi titini, che li hanno ben posti sotto il Comando militare del IX Korpus. Bartolini, che aveva partecipato alla Resistenza nella zona, spiega che gli slavi vorrebbero annettersi, oltre all’Istria, Fiume e Dalmazia, anche un pezzo di Friuli, fino al Tagliamento (Bartolini, pp. 55, 65 e 102).

Tutti questi partigiani rossi veneti e friulani hanno un’accoglienza fraterna tra i titini che hanno invaso l’Istria, Fiume e Dalmazia, forse perché erano collegati all’Ozna. Li aspetta, tuttavia, una brutta sorpresa. Nel 1948 Tito rompe i patti con Stalin e i titini vogliono fare piazza pulita dei cominformisti, dei comunisti storici e degli stalinisti iugoslavi e italiani, annessi, ospitati, oppure organici dell’Ozna. Ci sono arresti ed uccisioni fra comunisti a Fiume e a Pola. Allora certi partigiani italiani scappati prima nel “paradiso di Tito”, poiché rei di crimini in Italia, svicolano in Cecoslovacchia, perché neanche Tito li vuole più tra i piedi. Quelli che Tito riesce a fare arrestare, li deporta all’Isola Calva, o Goli Otok (Gilas, p. 259); in quel gulag patiscono e muoiono di stenti, come in ogni campo di concentramento delle dittature. Alcuni dei fuggitivi italiani in Cecoslovacchia, forse per la coscienza sporca, cambiano addirittura nome, imbrogliando sui documenti.

La strage al carcere di Schio, luglio 1945

L’eccidio di Schio (VI) è un’operazione stragista perpetrata da 15 partigiani comunisti nella notte fra il 6 ed il 7 luglio 1945. A guerra finita, senza processo alcuno, muoiono nel carcere di Schio 54 detenuti (tra i quali 14 donne), poiché considerati in parte, forse o del tutto fascisti. Dopo i colpi di mitraglia qualcuno chiama i soccorsi. Un primo gruppo di barellieri viene respinto e minacciato e solo successivamente i feriti vengono trasportati all’ospedale. Anche qui medici ed infermieri, dediti alla cura dei sopravvissuti feriti, subiscono continue minacce dai partigiani garibaldini.

Al processo condotto dagli angloamericani, tenutosi a Vicenza nel settembre del 1945, dalle testimonianze degli imputati, ossia cinque partigiani appartenenti al battaglione di polizia ausiliaria “Ramina Bedin” e dai verbali da essi rilasciati e firmati, emergono le responsabilità di comando dell’operazione. In base alle testimonianze dei sottoposti i nomi dei comandanti della strage sono: Igino Piva, detto “Romero”, Nello Pegoraro, “Guido” o “Nello” e Ruggero Maltauro, “Attila”, come ha scritto nel 2020 Giorgio Marenghi, in Eccidio di Schio: le novità. Oltre alla Corte alleata si deve aggiungere l’azione della magistratura italiana che convoca un processo in Corte di Assise a Milano nel 1952. Un solo imputato è in catene; si tratta di Ruggero Maltauro, mentre altri sette si sono già rifugiati all’estero, alcuni di essi in Istria, annessa dal 1947 alla Jugoslavia di Tito.

Tra la fine della guerra e nel dopoguerra l’Ozna è presente in Italia del Nord. I suoi agenti si mimetizzano nei gruppi partigiani comunisti o nelle grandi città; osservano e prendono nota. Il loro obiettivo si lega allo sciovinismo-nazionalista di Tito, allargare l’area territoriale fino a superare Isonzo e Tagliamento, far pesare il ruolo militare dell’Esercito Popolare di Liberazione iugoslavo il più possibile quando sarà il momento di sedersi attorno ad un tavolo della pace, Alleati permettendo.

Quando scoppia la guerra civile spagnola Igino Piva è nelle Brigate Internazionali. Non si risparmia, il suo fisico resta segnato per sempre dalla battaglia di Guadalajara e da quella dell’Ebro. In Spagna conosce e stringe amicizia con una nota figura del comunismo, Vittorio Vidali, un personaggio scomodo, ma anche una testa politica con cui Piva fatica a confrontarsi. A luglio del 1944 Piva diventa comandante dei gruppi GAP nella provincia padovana. Questo impegno lo assorbe fino al dicembre del 1944 quando cambia nuovamente zona. Dal Veneto, su incarico dei vertici del PCI, giunge in Val D’Ossola per una missione partigiana sia militare che d’intelligence. Il caos del mese di aprile 1945 vede il Piva riparare a Milano dove svolge un compito decisamente stragista. Collabora, ma soprattutto dirige decine di fucilazioni con centinaia di morti, tra i prigionieri fascisti e i borghesi in odore di fascismo. Poi, finita la guerra, Piva torna in Veneto divenendo niente meno che dirigente dell’Ufficio investigativo della polizia ausiliaria partigiana, una pulita etichetta che nasconde solo la voglia di spremere notizie ai fascisti incarcerati. È in tal contesto che organizza il cruento assalto alle carceri di Schio del 6 luglio 1945.

La fuga in Istria

Poi, consapevole di ciò che ha comandato, Piva fugge nell’Istria da poco iugoslava. Non è solo un esilio, un approdo per un bisogno immediato di sottrarsi alla cattura degli angloamericani che lo vanno a cercare in Trentino. A Fasana, presso Pola, c’è la sede delle operazioni speciali che l’Ozna prepara per l’Alta Italia e per Roma. In quel mentre Piva incrocia sul suo cammino Vittorio Tinelli, un comunista friulano.

Il 1° agosto 1945 Igino Piva, assieme a Nello Pegoraro, è già a Capodistria e ha incontri con ufficiali del IX Korpus titino. Si noti che il territorio controllato dagli iugoslavi, aldilà del TLT, vede gli italiani in una situazione delicata. Italiano vuol dire esodo dall’Istria verso il TLT e Monfalcone, in Italia. Nel periodo in cui Piva inizia a muoversi in Istria avviene una ristrutturazione importante dei servizi segreti jugoslavi. Gli italiani sono malvisti dai titini. Come mai Piva riceve un’accoglienza coi fiocchi, e addirittura sale al comando, se non è collegato all’Ozna? Egli è accolto a braccia aperte, riverito, onorato e indirizzato a Pirano con il grado di comandante della Difesa Popolare della cittadina dell’Istria, nella Zona B del TLT, sotto controllo slavo. Anche gli altri seguaci vengono inglobati nella stessa struttura, ma per breve tempo. Igino Piva, oltre al Comando della Difesa Popolare di Pirano diventa anche membro del Comitato Distrettuale del Partito Comunista della Regione Giulia (Pcrg). È una costola del PCI che, basandosi dell’appoggio dell’intero Comintern, sosteneva che nel dopoguerra il problema dei confini avrebbe dovuto essere risolto a livello internazionale. Quindi il Pcrg è un partito nuovo che sostiene la fusione della comunità italiana con quella slava per aderire agli ordinamenti politici del comunismo di Tito.

Piva, nel 1945 sceglie la linea di Tito che si basa sull’espulsione graduale dell’elemento italiano, ma la sua gloria non dura molto. Il 3 dicembre 1946, viene espulso dal Pcrg “per aver sposato una donna non adatta, una ragazza piranese di ottima famiglia, dalla quale ebbe una figlia” (Cfr. Marenghi che cita M. Bonifacio, p. 57). Nel 1947 Piva lascia il comando della Difesa Popolare, si trova un lavoro e si prepara a una nuova fuga. Quando nel 1948 il Comintern bolla come “eretico nazionalista” Josip Broz Tito, Igino Piva, aiutato da Vittorio Vidali, comunista triestino, attraversa il confine iugoslavo, passa in Ungheria e poi in Cecoslovacchia. Dell’accordo con l’Ozna non gli rimangono neanche le briciole.

Conclusioni

I fatti dell’esodo giuliano dalmata e dell’uccisione nelle foibe dovevano restare nascosti perché c’era la Cortina di ferro, da Danzica a Trieste. Come disse Winston Churchill, nel marzo 1946, a separare l’Europa in due sfere politiche, una sovietica e l’altra angloamericana c’è la Cortina di ferro. In piena Guerra fredda e con le spie di tutto il mondo che ronzavano tra Trieste, Tarvisio e Gorizia non si doveva scomodare Tito, capo della Federativa Repubblica di Jugoslavia, che si stava staccando politicamente da Mosca e da Stalin, mentre gli agenti dell’Ozna gironzolavano nel Nord Italia e a Roma con i loro obiettivi.

La “Odeljenje za Zaštitu Naroda” (Ozna) è la sigla che significa: Dipartimento per la Sicurezza del Popolo. C’è una seconda versione che così spiega la sigla: “Oddelek za zaščito naroda”; letteralmente: Dipartimento per la protezione del popolo. Era parte dei servizi segreti militari iugoslavi e fu attiva dal 1944 fino al 1952. L’organizzazione titina, programmata da Tito e Milovan Gilas, era dotata di carceri proprie e attuava requisizioni, vessazioni ed addirittura ha programmato la pulizia etnica a Pola contro gli italiani. La pianificazione delle uccisioni di italiani in Istria, Fiume e Dalmazia per mano titina è stata documentata da Orietta Moscarda Oblak nel 2013, a pp. 57-58 di un suo saggio (vedi in Bibliografia). Agenti dei servizi segreti di Tito negli anni ‘50 si infiltrano perfino nei Centri raccolta profughi (CRP) sparsi in Nord Italia per carpire notizie sui rifugiati e per altre operazioni di stampo terroristico nelle città. Dal 1946 al 1991 la polizia segreta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia diviene “Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti” o Udba; letteralmente: “Amministrazione Sicurezza Statale”. Processato e incarcerato da Tito, dal 1954 al 1966, come dissidente lo stesso Milovan Gilas, nel 1991, riguardo all’Istria del 1945-‘46, dichiarò al giornalista Alvaro Ranzoni, del settimanale italiano «Panorama»: “Gli italiani erano la maggioranza solo nei centri abitati e non nei villaggi. Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto”. Gravi dichiarazioni mai smentite quelle di Gilas, che fu segretario del Komunisticna Partija Iugoslavije (Partito comunista iugoslavo); egli ammise inoltre in un suo noto memoriale che in Jugoslavia gli “arresti effettuati al di fuori della legge, come in tempo di guerra, continuavano a essere la pratica corrente” (Gilas, p. 12).

La Società di Studi Fiumani di Roma ha documentato nell’opera bilingue (italiano e croato) – Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni, pubblicata nel 2002 a cura di Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski e presentata a Roma e a Zagabria, come andarono le cose dopo l’avvento della nuova dittatura comunista iugoslava. Sono oltre 580 le persone uccise a Fiume dalla polizia segreta dell’Ozna a guerra finita, senza umana giustizia. L’Ozna operò fino al 1952, assieme all’Udba, che poi prese le redini dei servizi segreti titini. La gente continua a chiamare le spie di Tito: quelli dell’Ozna.

Bibliografia e sitologia

  • Francesca Artico, “Morto ‘Ferro’, partigiano dei Diavoli Rossi”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Cervignano Latisana Bassa, 19 aprile 2020, p. 37.
  • Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski (a cura di / uredili), Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1947) / Žrtve talijanske nacionalnosti u Rijeci i okolici (1939.-1947.), Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per gli Archivi, 2002; anche nel web.
  • Elio Bartolini, Il Ghebo, Udine, La Nuova Base, 1970.
  • Mario Bonifacio, “La seconda resistenza del CLN italiano a Pirano d’Istria 1945-1946”, «Quaderni di Quale Storia» n. 15, Trieste, 2005.
  • “La criminosa impresa organizzata dopo un invito al ‘popolo’ ad agire contro il clero”, «Giornale di Trieste», 23 novembre 1951.
  • István Deák, Europe on Trial. The Story of Collaboration, Resistance, and Retribution During World War II, Boulder, CO, Westview Press, 2015, traduzione ital. di Maria Luisa Bassi: Europa a processo. Collaborazionismo, resistenza e giustizia fra guerra e dopoguerra, Bologna, Il Mulino 2019.
  • Milovan Gilas, Se la memoria non m’inganna… Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962, (ediz. originale: Vlast, London, Naša Reč, 1983), Bologna, Il Mulino, 1987.
  • Orietta Moscarda Oblak, “La presa del potere in Istria e in Jugoslavia. Il ruolo dell’OZNA”, «Quaderni del Centro Ricerche Storiche Rovigno», vol. XXIV, 2013, pp. 29-61.
  • O.Z.N.A.: La mano segreta di Tito, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Della P.S. – Divisione S.I.S., Roma, 19 novembre 1946,  consulenza di Aldo Giannuli, Università di Milano; nel sito web storiaveneta.it
  • Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria. Chi imprigiona la verità sulla guerra civile, Sperling & Kupfer, 2007.
  • Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati-Boringhieri, 1991.
  • Paolo Radivo, La strage di Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive, Libero Comune di Pola in esilio, «L’Arena di Pola», 2016.
  • Alvaro Ranzoni, “Se interviene anche l’Islam”, «Panorama», 21 luglio 1991.
  • Luciano Santin, “Quando i titini se la presero con il capo garibaldino Sciovinista italiano”, «Messaggero Veneto», 19 giugno 2020, p. 38.
  • Bruno Vespa, Vincitori e vinti. Le stagioni dell’odio delle leggi razziali a Prodi a Berlusconi, Milano, Mondadori, 2005.

Messaggi dal web

Giuseppe Ritschl, di Torino, figlio di esuli che vive a Senigallia (AN), il 9 giugno 2020, nel gruppo Anvgd Arezzo di Facebook, ha scritto: “Mio padre mi raccontò che agli inizi degli anni ‘70 componenti dell’Ozna erano presenti nel posto di lavoro a Torino; li riconobbe perché erano compaesani al servizio degli Slavi.

Giorgio Hervato, lo stesso giorno, ha aggiunto: “Dai racconti di mio padre, erano peggio gli stessi paesani italiani dichiarati partecipanti dell’Ozna che gli stessi slavi; sempre dai racconti, la peggior specie erano i comunisti italiani di lingua slava passati alla parte di Tito”.

Servizio giornalistico, di ricerca e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Copertina: La banda dei Diavoli rossi; archivio ANPI Udine. Fotografie da collezioni private e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Massacro gappista del Ghebo, in Friuli e i poliziotti di Udine al lager, 1944-’45

L’uccisione di persone inermi da parte dei partigiani spesso non è passata alla storia. La retorica partigiana del dopoguerra è orientata ad esaltare solo certe vicende, tacendone invece quelle troppo scomode, come hanno scritto Giampaolo Pansa e Andrea Zannini. Questo non è stato un buon servizio alla storia della Resistenza che, a detta di molti autori, ha come principale merito quello di aver contribuito, con gli alleati, alla sconfitta dei nazisti.

La notizia sul massacro gappista del Ghebo risale al 21 novembre 2013. I gappisti sono i Gruppi di Azione Patriottica, appartenenti al Partito Comunista d’Italia. Quel giorno sul «Messaggero Veneto» compare un commento del signor Renzo Piccoli intorno al dibattito apertosi nella Bassa friulana sull’intitolazione di una strada a un capo partigiano. Il titolo del brano è “Quel partigiano tanto osannato sotto Natale ha ucciso mio padre”. Il partigiano da ricordare sarebbe Gelindo Citossi (1913-1977) di San Giorgio di Nogaro, nome di battaglia Romano il Mancino, il cui covo era nel Casale Papais, pare nel Codroipese. Detto Citossi, al comando dei Diavoli rossi, partigiani garibaldini, è celebre per l’assalto al carcere di Udine travestiti da tedeschi, un’arrogante azione che ebbe risonanza fino all’estero. Accadde il 7 febbraio 1945, anche se di scarso profitto bellico, l’operazione fa liberare 73 detenuti, ma vengono uccisi due poliziotti giudiziari. Ciò provoca la rabbiosa rappresaglia nazista con la fucilazione di 23 partigiani e ostaggi sul muro del Cimitero di Udine. I nazisti attuano tale dura rappresaglia, come ci si poteva aspettare avendo un briciolo di tattica militare. Si tenga conto poi che tra i poliziotti di Udine c’è un sentimento badogliano e, addirittura, come riferito da don Emilio De Roja, ci sono questurini che passano ai preti atti di liberazione firmati in bianco, per far uscire proprio i detenuti partigiani, in barba ai tedeschi (vedi in bibliografia: Don Emilio 1992, p. 41). Proprio dei questurini di Udine vicini alla Resistenza ne riparleremo più sotto.

Qualche autore ha rilevato la coincidenza della data scelta da Romano il Manzin, comandante dei Diavoli Rossi. Il 7 febbraio è lo stesso giorno dell’eccidio di Porzùs, Comune di Faedis (UD), anzi sembra fatto apposta per oscurare quel triste ammazzamento fra partigiani. Il 7 febbraio 1945, infatti, alle malghe di Porzùs, diciassette partigiani (tra cui una donna, loro ex prigioniera) della Brigata Osoppo Friuli (BOF), di orientamento cattolico, monarchico e laico-socialista, sono fucilati da parte di un gruppo di partigiani, in prevalenza gappisti di San Giovanni al Natisone (UD) e dintorni. Ciò segna il punto massimo delle tensioni fra partigiani garibaldini (pro-titini sloveni) e le BOF, che invece difendevano l’italianità del territorio, contro l’espansionismo iugoslavo.

Copertina del romanzo di Elio Bartolini

Ritorniamo al massacro del Ghebo, termine dialettale per un canale d’acqua nei pressi di Codroipo (UD). Tale parola è utilizzata sia nella Bassa friulana (vedi: Corso Regeni) che nel vicino Veneto. La notizia della nuova intitolazione stradale al suddetto partigiano “mi ha toccato nel profondo – ha scritto Renzo Piccoli – e più di un pensiero ho rivolto a mia madre e mia sorella, che non ci sono più, per il fatto che questo ‘eroe’ partigiano garibaldino, è stato autore di un episodio per me malvagio, commesso in nome della Resistenza. Dopo settanta anni, lungi da me l’idea di alimentare polemiche, desidero ricordare l’episodio che ha visto protagonista l’eroe che ha sconvolto e distrutto la mia famiglia. Il fatto è avvenuto il 16 dicembre 1944, protagonista quel tale, incensato con una pubblicazione e addirittura con un brano musicale”. Renzo Piccoli è nato a Fiume nel 1937 da Firminio e Vittoria Simeoni “dove mio padre friulano si era recato a lavorare nel locale silurificio negli anni ‘20 e nel 1943 vedendo tempi bui spinse mia madre a rientrare in Friuli a Segnacco di Tarcento con i bambini presso i nonni”.

Firminio Piccoli resta a Fiume e diventa autista personale dell’ingegnere capo del Genio civile dell’Istria e Dalmazia, viene militarizzato con il compito di guidare un camion a gasogeno che fa la spola tra Fiume, il Friuli e il Veneto per trasportare generi alimentari. I prodotti sono destinati alla popolazione civile da distribuirsi con la tessera annonaria, come emerge dal Dossier Firmino Piccoli, fornitomi dallo stesso Renzo Piccoli, nel 2019.

In occasione delle feste natalizie 1944, in viaggio nel Basso Friuli, l’autista Piccoli, in abiti civili, “è stato intercettato dalla banda di partigiani garibaldini sulla strada che da San Martino di Codroipo conduce al paese di Lonca, nei pressi di Villa Manin di Passariano – continua lo scritto di Renzo Piccoli sul «Messaggero Veneto» –. Qui i partigiani, rubato o requisito il carico, considerato un esproprio proletario, hanno ucciso mio padre (36 anni) e il suo aiutante, addetto alla legna nella caldaia del gasogeno, lasciandoli stesi nell’acqua delle Risorgive. Di questo eccidio non si è avuto riscontro nei giornali di allora, ma si trova traccia in una pubblicazione con l’elenco delle vittime della Resistenza. Negli anni ‘60 mi sono attivato per conoscere meglio il fatto e il luogo: sono venuto a sapere da un fattore, che lavorava i terreni di proprietà Kechler, che, giunto primo sul luogo, ha scoperto i cadaveri avvertendo le autorità comunali di Codroipo”.

Renzo Piccoli, oltre ad avere alcune testimonianze di partigiani locali, come l’osovano Marco Cesselli, ha anche un contatto con lo scrittore Elio Bartolini, che aveva partecipato alla Resistenza nella zona. “Bartolini – prosegue lo scritto di Piccoli – nel suo primo libro descrive sia il luogo, chiamato con il titolo ‘Il Ghebo’, sia le gesta del capo partigiano, che chiama ‘Il monco’, crudele, feroce, spietato nelle sue scorrerie con i suoi seguaci, giovani attratti dalla sua personalità e intraprendenza, ma nulla della sorte di mio padre. A me è rimasta l’amarezza per l’episodio: sopprimere a freddo, due vite, due padri di famiglia, per poi festeggiare con i generi alimentari. Mi permetto infine di ricordare, che allora, tre fratelli di mio padre si recarono nel cimitero di Codroipo per ritirare la bara con un triciclo. Impiegarono tre giorni ad arrivare nella casa dei miei nonni. Il funerale si è svolto la vigilia dell’ultimo Natale di guerra. Ricordo ancora bene, io (6 anni) e mia sorella (14 anni), soli, perché la mamma era disperata e sconvolta, dietro la bara di mio padre che era portata a spalle da uomini anziani del paese, arrancando sulla salita al cimitero di Sant’Eufemia. Questa è la tragedia di cui è stato capace tale che alcuni intendono osannare, mentre lui è subito fuggito in Jugoslavia con i suoi rimorsi. Caro direttore, mi creda, per la mia famiglia è stato un dramma. Ringrazio per l’ospitalità. Renzo Piccoli, Udine”.

Si può aggiungere che i tre fratelli Piccoli con la bara del congiunto Firmino sul triciclo nel viaggio di tre giorni da Codroipo a Segnacco di Tarcento hanno rischiato non poco con i cacciabombardieri anglo-americani che dominavano i cieli del Friuli. Si fa solo un cenno conclusivo alla famiglia sconvolta dall’eccidio del Ghebo. La mamma di Renzo, Edda Piccoli, rimasta vedova, mette in collegio i figli e emigra in Svizzera per lavorare in una fabbrica di calze femminili. Renzo Piccoli si diploma geometra all’Istituto “A. Zanon” nel 1956. Lavora presso studi tecnici della città, poi vince un concorso in Provincia e lavora anche all’Istituto Autonomo delle Case Popolari, fino al pensionamento.

Fiume, 1945, esodo. Luciana Stella commenta: “In primo piano, il secondo da destra, mio zio materno Livio Fantini, anche lui se ne sta andando, insieme ad altri esuli fiumani, spingendo un carretto: “Nello spingere quel carretto, non sapevo se ridere o piangere. Ridere perché ero contento di andare via, ovunque, con la speranza di ricominciare una vita nuova, piangere per la paura di non ritornare più nella mia cara Fiume”. Foto tratta dal libro di storia ed emigrazione dal titolo: Per l’Australia, scritto da Julia Church e la collaborazione di Pino Bartolomè. Grazie a Luciana Stella, di Milano, che ha scritto in Facebook il 6 febbraio 2020, tale messaggio.

Le sanguinarie gesta dei Diavoli rossi

Paolo Barbaro, negli anni ’80 del Novecento descrive in una serie di racconti la vita nella pianura veneta tra vari corsi d’acqua (Brenta, Bacchiglione, Zovòn, Ceresone…). Sono storie contadine di famiglie numerose, dove otto di dodici cugini “con la giusta età erano distribuiti fra Albania, Grecia, Croazia Africa e Russia…”. Oltre alle guerre fasciste e ai conseguenti morti lo scrittore non va. Si occupa molto di emigrazione in un clima di umile saga padana. Paolo Barbaro pubblica così Storie di Ronchi nel 1993.

Chissà perché il romanzo storico di Elio Bartolini, ambientato nella primavera del 1945 e intitolato Il Ghebo, sulle gesta dei partigiani gappisti tra Codroipo e Palmanova, scritto nel 1946, invece fu respinto dalla pubblicazione da Elio Vittorini? Trova un editore solo nel 1970 a Udine, lontano dalle piazze culturali nazionali, ancora intente ad incensare i partigiani in base ad una linea unidirezionale, indiscussa ed indiscutibile.

Forse perché Bartolini, partigiano egli stesso nel Basso Friuli, è uno che parla chiaro. Accenna all’eccidio di Porzùs, pur non nominandone il sito (vedi Il Ghebo, pagg. 55 e 88). Descrive egli l’uccisione di partigiani effettuata da altri partigiani, per assecondare l’espansionismo iugoslavo. È troppo politico, come ha rilevato furbescamente Elio Vittorini, dopo aver letto le bozze di una stampa poi da lui stesso bloccata.Ècritico nei confronti di una spietata banda partigiana, quella comandata da Il Monco, facilmente individuabile in Romano il Mancino. Come si muovono costoro e cosa fanno? Nelle 150 pagine del romanzo si nota che detti partigiani sono spesso ubriachi (pp. 10, 37, 38 e 51) sia alla Cartera, sede delle loro operazioni, che in altri luoghi. Sono crudeli e con scarsa disciplina (pp. 12 e 34), ben pronti a fregare camion pieni di roba da portare oltre il Collio, in quella che sarà la Jugoslavia di Tito, per far bella figura coi titini, che li hanno ben posti sotto il Comando militare del IX Corpus. Bartolini spiega che gli slavi volevano annettersi, oltre all’Istria, Fiume e Dalmazia, anche un pezzo di Friuli, fino al Tagliamento (pp. 55, 65 e 102). Spietati e sanguinari, detti partigiani sono pronti a fucilare senza processo dei civili con la presunta accusa di spionaggio, andando contro le disposizione del Comitato di Liberazione Nazionale, il CLN (p. 61) o addirittura i loro stessi compagni  di battaglia fuggiti dopo che il mitragliatore si inceppa (p. 117). È gente pronta a fare la leva obbligatoria tra Palmanova e Codroipo, come gli Sloveni nel Collio (p. 85). Rubano oggetti ai cadaveri (p. 101) e sono pronti nell’accusare gli altri di far borsa nera, mentre loro stessi hanno dei magazzini pieni di ogni ben di dio (pp. 9 e 97). Sono così mal preparati militarmente che nei loro magazzini pieni di roba rubata non sanno nemmeno mettere qualcuno di guardia (p. 139).

Vari gappisti al termine della guerra fuggono nella Jugoslavia di Tito. Nel 1946 anche Mario Toffanin “Giacca”, lo stragista di Porzùs, se la svigna a Capodistria, evitando il carcere successivo alla condanna comminatagli nel 1951 al processo della Corte d’Assise di Lucca. Pure certi Diavoli Rossi se la mocano in Jugoslavia, primo fra tutti il loro caporione Gelindo Citossi, poi pure Norberto Sguazzin e un certo “Tom”, di Mortegliano; “emigrano in Jugoslavia”, come ha scritto Francesca Artico. Alcuni di tali partigiani fuggiti in Istria, come “Giacca”, Mario Abram (partigiano rosso triestino), Nerino Gobbo (noto infoibatore) e Giuseppe Krevatin se la prendono coi preti italiani, minacciandoli e picchiandoli a sangue, come ha riportato il «Giornale di Trieste» del 23 novembre 1951. Poi quando i titini vogliono fare piazza pulita dei cominformisti, dei comunisti storici e degli stalinisti, certi partigiani italiani scappati nel “paradiso di Tito” svicolano in Cecoslovacchia, perché neanche Tito li vuole più tra i piedi. Quelli che riesce a beccare li deporta all’Isola Calva (Goli Otok) dove patiscono e muoiono di stenti, come in ogni campo di concentramento. Alcuni dei fuggitivi in Cecoslovacchia, forse per la coscienza sporca, cambiano addirittura nome, imbrogliando sui documenti.

Ci sono poi comandanti partigiani della Divisione “Garibaldi-Natisone” assassinati dai loro stessi compagni. È successo il 30 aprile 1945 a Leo Scagliarini con un colpo alla nuca a Rizzolo di Reana del Rojale (UD). Pur essendo un democratico libertario, egli si aggrega nel 1944 alla brigata “Picelli”, col nome di battaglia “Ricciotti”, perché erano le unità più robuste per combattere i nazifascisti, ma con la metà di gennaio 1945 finiscono sotto il comando del IX Corpus titino. La spiegazione fornita dai partigiani invece narra di una morte per il fuoco amico di un aereo da caccia inglese che mitraglia una colonna di partigiani e l’autovettura con dentro “Ricciotti” il 29 aprile. Pare che l’assassino sia stato lo stesso “Giacca”, molto ostile a “Ricciotti”, che intendeva liberare Udine il 1° maggio con le bandiere tricolori e non con quelle rosse dei comunisti. Su tale eliminazione non è mai stata aperta un’indagine giudiziaria, come ha scritto Pansa (pp. 291-315).

Mario Savino, vice commissario di Polizia a Udine, 1944. Fotografia famiglia Savino

Mario Savino, vice commissario di polizia a Udine e i suoi colleghi 1944-1945

Parliamo ora di un poliziotto che lavorava a Udine nel 1944-1945. È un milite italiano che “conobbe gli orrori di Dachau, Ebersen e Mauthausen”, come si legge sul quotidiano «Libertà» 13 marzo 1946. Si tratta di Mario Savino, vice commissario di Pubblica Sicurezza a Udine. Catturato dai nazisti con l’accusa di collaborazione col movimento partigiano, fu deportato nei lager dove trovò la morte. “Non piangere, che tanto tornerò” – disse dal vagone bestiame alla fidanzata a Udine, mentre lo stavano portando via, assieme a un gruppo di alcuni suoi colleghi poliziotti. La fidanzata, la signora V., nata nel 1924 a Tarvisio, intendendo la lingua tedesca, venuta a conoscenza su dove si trovasse, non si perse d’animo e volle raggiungerlo, assieme ad una sorella, per portargli un pacco di vestiario e di viveri, come ha raccontato Clelia Savino. Il vice commissario aveva chiesto alla fidanzata un pacco di farina di carrube, forse per avere qualcosa di molto nutritivo, con buone calorie (tra il 50 e il 60% di zucchero) e di facile assimilazione in prigionia.

La signora V. e la sorella giunsero fino al Campo di concentramento di Ebersen, sotto-campo di Mauthausen. Trovato un tizio che lavorava nel campo stesso, furono consigliate di andare via, altrimenti avrebbero preso pure loro. Lasciarono il pacco, ma non seppero più nulla del dottor Mario Savino, cui dal 2005 è dedicata una lapide nel cortile della Questura di Udine, assieme ad altri otto funzionari e poliziotti sterminati nei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald. Mario Savino era nato a Pozzuoli (Napoli) nel 1914 e morì a Mauthausen il 15 marzo 1945.

Lapide nel cortile della Questura di Udine, in viale Venezia in ricordo dei poliziotti deportati e massacrati nei lager nazisti. Fotografia famiglia Savino

Un altro fatto sconvolgente coinvolge la famiglia della signora V., che gestiva l’albergo “Trieste” a Tarvisio, coma ha raccontato Fulvia Zoratto. Il giovane fratello della signora V., essendo stato riformato per problemi cardiaci alla chiamata alle armi, si trova a lavorare dietro il bancone della ditta di famiglia dopo il 1943. Un giorno entrano un gruppo di soldati tedeschi, ai quali il barista tarvisiano risponde gentilmente in lingua tedesca. A un ufficiale non va giù che un giovane così solerte non sia a combattere per il grande Reich, così si mette a canzonare il ragazzo del bar. Ad un certo punto, presa in mano la pistola, l’ufficiale lo minaccia puntandogliela alla tempia. Colto dal panico, il giovane fratello della signora V. muore d’infarto, davanti al bullo, ma esterrefatto ufficiale tedesco. La notizia crea scalpore in tutto il paese, andando a scalfire il buon rapporto che i soldati di Hitler tentavano di instaurare nella Valle tedescofona, oltre che italofona e slovenofona.

Lapidi da correggere

L’ultima notazione riguarda il motivo per cui lo Sicherheitsdienst (SD), servizio segreto delle Waffen SS, il 22 luglio 1944 fa circondare da un plotone di soldati tedeschi la Questura di Udine, che allora ha sede in via Treppo per arrestare circa 30 poliziotti, alcuni dei quali deportati nei lager. Tutto è dovuto al ritrovamento di una lista di dirigenti e poliziotti compromessi con la Resistenza, vergata secondo le informazioni di Guglielmo Iacuzzi, di Sedegliano. Come ha scritto Bruno Bonetti, tale Iacuzzi, già al servizio della SD germanica a Udine, in quanto doppiogiochista passa alle formazioni partigiane. Dal marzo 1944 Iacuzzi è a capo dell’Ufficio SD 1724 di via Lovaria 4, che poi cambia sede in via Montenero 4, disponendo di oltre 15 uomini alle sue dipendenze ed essendo in contatto con altri servizi segreti (Bonetti, p. 68-77). Quindi lo spione, nella veste di partigiano tarocco viene arrestato e fucilato al carcere il 10 dicembre 1944 in via Verdi, assieme ad altri tre patrioti veri. Incredibile che una lapide a ricordo della fucilazione dei quattro detenuti sia ancora lì integra, compreso il nome del doppiogiochista, nonostante si sappia dalla recente ricerca storica che Iacuzzi sia una volgare spia infiltrata tra i partigiani.

Udine, via Verdi, lapide in ricordo di 4 partigiani uccisi dai nazisti, tra i quali c’è ancora il nome di Iacuzzi, spia dello Sicherheitsdienst (SD), il servizio segreto delle Waffen SS

Spari al carcere di Via Spalato a Udine

Tra i luoghi di detenzione a Udine c’era il carcere di Via Spalato, oltre alle celle del tribunale di Via Treppo, davanti al quale furono fucilati quattro partigiani, come il giovane Antonio Friz “Wolf”, di Pontebba, più precisamente “in vie de Roe”, ossia al civico n. 30 di via Verdi, dove scorre la roggia. Sul muro del tribunale fu posta una lapide, che ricorda i quattro partigiani lì fucilati, tra i quali appunto Friz e una spia.

A livello popolare la prigione cittadina era detta “Al Grande Albergo di Via Spalato”, come ha scritto Plinio Palmano, incarcerato nel luglio 1944. Il carcere era per 250 posti, ma erano reclusi centinaia di individui, in attesa di essere trasferiti ai Campi di concentramento nazisti. Palmano cita il maresciallo delle Waffen SS Hans Kitzmüller, che compì il voltafaccia, facendo liberare alcuni reclusi fra i quali “Verdi” [Candido Grassi], “Mario” [Manlio Cencig] e altri (p. 100). Ecco il numero dei detenuti passati per il carcere di Via Spalato a Udine tra l’8 settembre 1943 e la fine di aprile 1945. Vedi la tabella n 1. Per i nomi dei comandanti partigiani si è visto il libro di Primo Cresta.

Tabella n. 1 –  Detenuti entrati al carcere di Udine, 1943-1945

Condannati a morte (sentenza eseguita)                 98

Deportati in Germania                                           7.414

Deportati per lavori dalla TODT                              753

Rimessi in libertà                                                    1.647                

TOTALE                                                                 9.912

Fonte: Plinio Palmano, “Al Grande Albergo di Via Spalato”, «Avanti cul Brun!», 1946, p. 106.

Oltre a via Spalato e al carcere del tribunale di via Treppo, le Waffen SS avevano altre prigioni per interrogatori nelle case requisite agli udinesi. Ad esempio “in una villa sulla strada per Tricesimo da piazzale Osoppo – ha detto Franco Pischiutti – nell’attuale viale Volontari della Libertà [allora viale Principe Umberto], ci fu un comando delle Waffen SS”. Lo stabile è a sinistra dopo i moderni condomini; lì si dice che siano stati torturati e uccisi certi prigionieri dai tedeschi e, forse, sepolti in loco. Ne fa cenno la Carta della Gestapo, pubblicata dall’ANPI di Udine nel 2019; in genere non si sa che il documento originario di tale mappa era nelle mani dell’onorevole Lorenzo Biasutti, dimenticato da qualcuno nella osteria Alla Buona Vite di via Treppo, poi fu consegnata al professor Luigi Raimondi Cominesi, che la studiò a lungo. Che la villa di viale Principe Umberto “della famiglia Agostinelli” fosse un comando tedesco lo scrive Bruna Sibille Sizia, a pag. 125, del suo libro intitolato Diario di una ragazza della Resistenza. Friuli 1943-‘45.

Poi si sa che: “Le Waffen SS avevano un comando a Udine sud – ha aggiunto Franco Pischiutti – so che in via San Martino avevano occupato la villa Elisa, proprietà di ebrei rifugiatisi in Veneto, per sfuggire alle deportazioni naziste. Certi Gentilli si erano rifugiati clandestini a Gemona del Friuli presso la famiglia Cesarino Sabidussi”. Che cosa dicevano i vecchi udinesi dei tedeschi? “Si è saputo che i nazisti a Udine cercavano gli ebrei possidenti per derubarli, prima della deportazione nei lager – secondo le fonti del quartiere – questi gerarchi tedeschi chiedevano agli ebrei di Udine e dintorni se potessero pagare con denaro, gioielli, oro ed altri valori così avrebbero avuto una specie di salvacondotto per salvare la pelle, ma poi li avrebbero comunque fatti deportare nei Campi di concentramento”.

Oltre alle testimonianze, si sa dal libro di Fölkel, che a Udine, in via San Martino, dal mese di dicembre 1943 funziona l’Abteilung R/3, alle dipendenze di Franz Stangl, in collegamento alle Waffen SS ucraine di stanza a campo di concentramento triestino di San Sabba, con servizi anche a Castelnuovo d’Istria. Il gruppo specializzato nella cattura di ebrei nella zona di Fiume è l’Abteilung R/2, sotto il comando di Reichleitner. Ogni comando d’azione Reinhard (Aktion Reinhard) agisce tra Carso, Friuli ed Istria con retate, fucilazioni e impiccagioni. È suddiviso in tre gruppi: a Trieste, San Sabba c’è l’Abteilung R/1, a Fiume l’Abteilung R/2 e a Udine  l’Abteilung R/3 (Fölkel p. 53, 56, 123).

Certe fonti riferiscono che davanti al carcere di via Spalato, dove erano reclusi sospetti partigiani, ebrei e militari italiani in attesa della deportazione, ci fossero dei fascisti in abiti civili che, per intimidire, sparavano alle spalle delle donne che portavano vestiti puliti e cibo ai prigionieri. In carcere tra i partigiani rastrellati, c’è Luigi Barbarino, Matiònow (Resia 1914 – Flossembürg 1945). Era egli un appartenente al “Rozajanski bataljon”, collegato al IX Korpus di Tito dell’Osvobodilna Fronta – Fronte di Liberazione della Jugoslavia, con i capi venuti dalla Slovenia interna. Fu catturato a Resia dai nazisti, per una delazione e morì nel lager, per le ripetute percosse. “Ce lo raccontava sempre la zia Anna Valente – ha detto Lucillo Barbarino – che certi civili le sparavano alle spalle, per farle paura, gridando: ‘partigiana, partigiana’; la zia abitava in via Cisis e portava una gavetta di minestra a mio padre Luigi Barbarino. Lei e mio zio Odorico Valente aiutavano sempre la gente di Resia, che scendeva in treno dal paese in pianura a cercare cibo e aiuti vari. Ricordo che nel dopoguerra, mentre ritornavo a casa a Resia dal collegio di Cividale del Friuli per la domenica, vedevo salire in treno da Tricesimo a Gemona del Friuli le donne resiane, di Chiusaforte e di Pontebba con lo zaino pieno e il sacco di farina; erano andate a chiedere la carità ai friulani dei paesi, oppure scambiavano un po’ di noci, mele, o facevano qualche lavoro nei campi per avere roba da mangiare. C’era tanta fame e la gente dei paesi ci ha aiutato molto”.

Cimeli della Seconda Guerra mondiale. Bustina partigiana (titovka), Collez. di un resiano, elmetto italiano, gavetta italiana (piccola), gavetta di alpino (grande), borraccia americana e tascapane italiano. Coll. private Udine

Documenti originali

Renzo Piccoli, Dossier Firmino Piccoli, Udine, 18 marzo 2019, cc. 5, ms.

Fonti orali

Interviste effettuate da Elio Varutti con penna, taccuino e macchina fotografica a Udine. Lucillo Barbarino, Matjònawa, (Resia 1941), int. telefonica del 23 aprile 2020.

Renzo Piccoli, Fiume 1937, intervista del 18 marzo 2019.

Franco Pischiutti, Gemona del Friuli 1938, int. del 5 febbraio 2020.

Clelia Savino, Udine 1946, int. del 27 ottobre 2016.

Fulvia Zoratto, Udine 1950, int. del 19 marzo 2019.

Collezioni familiari. Lucillo Barbarino, Resia (UD), bustina partigiana 1944.

Giorgio Gorlato, esule da Dignano d’Istria a Udine, fotografia 2019.

Luciana Stella, di Milano, commento alla fotografia dell’esodo da Fiume 1945.

Famiglia Savino, Udine, fotografie, lettere, ritagli di giornali, 1944-2014.

Cenni bibliografici

Francesca Artico, “Morto ‘Ferro’, partigiano dei Diavoli Rossi”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Cervignano Latisana Bassa, 19 aprile 2020, p. 37.

Paolo Barbaro, Storie dei Ronchi, Venezia, Edizioni del Gazzettino, 1993.

Elio Bartolini, Il Ghebo, Udine, La Nuova Base, 1970.

Bruno Bonetti, Manlio Tamburlini e l’albergo nazionale di Udine, Pasian di Prato (UD), L’Orto della Cultura, 2017.

Rosanna Boratto (a cura di), La Carta della Gestapo. Decifrazioni e misteri di un itinerario della memoria, Udine ANPI, 2019.

Primo Cresta, Un partigiano dell’Osoppo al Confine orientale, Udine, Del Bianco, 1969.

“La criminosa impresa organizzata dopo un invito al ‘popolo’ ad agire contro il clero”, «Giornale di Trieste», 23 novembre 1951.

Julia Church, Per l’Australia: the story of Italian migration, Carlton Victoria (Melbourne), Miegunyah Press, in association with the Italian Historical Society (COASIT), 2005.

Maria Teresa Corso Regeni, Vocabolario maranese. Vocabolario fraseologico veneto-italiano varietà di Marano Lagunare (UD), Latisana (UD)-San Michele al Tagliamento (VE), la bassa / vocabolari 2, 1990.

Don Emilio, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1992.

Ferruccio Fölkel, La Risiera di San Sabba. L’Olocausto dimenticato: Trieste e il Litorale Adriatico durante l’occupazione nazista, Milano, Bur, 2000.

Plinio Palmano, “Al Grande Albergo di Via Spalato”, «Avanti cul Brun!», n. 46, 1946, pp. 99-107.

Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria. Chi imprigiona la verità sulla guerra civile, Sperling & Kupfer, 2007.

Bruna Sibille Sizia, Diario di una ragazza della Resistenza: Friuli 1943-’45, Udine, Kappa Vu, 1998.

Andrea Zannini, “Dal linciaggio di Solaro alla strage di Schio: alla fine della guerra scoppia la resa dei conti”, «Messaggero Veneto», 11 maggio 2020, p. 32.

Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Copertina: fotografia di Giorgio Gorlato a Renzo Piccoli durante una gita dell’ANVGD del 2019. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.