Arrivo dei titini a Fiume senza colpo ferire, 2-3 maggio 1945, di Rodolfo Decleva

Come finisce la seconda guerra mondiale a Fiume? Quante vittime ci sono l’ultimo giorno prima dell’armistizio? Proponiamo in lettura un originale contributo scritto di Rodolfo Decleva, da lui intitolato: 2 – 3 maggio 1945. L’occupazione jugoslava di Fiume. Testimonianza depositata in data 01 Ottobre 2020 presso la Società di Studi Fiumani in Roma, Via A. Cippico 10. La redazione del blog presente ringrazia vivamente l’Autore per la cortese concessione alla pubblicazione. Allo stesso tempo ci permettiamo di aggiungere qualche frase di contesto degli ultimi giorni di una città italiana bombardata dall’aviazione angloamericana, dall’artiglieria titina e minata nel porto dai nazisti , dove non c’è più cibo, né collegamenti ferroviari, postali o d’altro genere.

Ecco le parole dal Diario dell’ingegnere Carlo Alessandro Conighi “3.V [1945] Giornate grandemente burrascose. La città / è stata giorno e notte continuamente intronata [meglio: rintronata] / di poderosi scoppi di mine, di cannonate. Parecchie / granate caddero in città e alcune fecero vittime. / Di faccia a casa nostra dalla parte del cortile fu colpita / una testa di camino. Di tutto ciò non si conosce la / provenienza [neanche si immaginavano certi fiumani che i partigiani di Tito sparassero da Tersatto coi cannoni sulla città, come riportato nelle interviste sull’esodo da Fiume curate dallo scrivente in altri articoli, NdR] e chi siano realmente i combattenti. / Pare che durante la scorsa notte tutti i tedeschi se ne sieno andati. Noi di famiglia stiamo tutti / bene, tranne Amalia molto debole. Io personalmente sono stato e sono perfettamente / tranquillo. Divenni fatalista, quasi indifferente a tutto, / né mi lascio impressionare, lasciando correre e / dicendomi: sarà quel che sarà. Pensiamo sempre ai / lontani, incerti di quando e di come ne avremo notizie…” (Collezione famiglia Conighi, esule da Fiume a Udine). Autore del diario è l’ingegnere Carlo Alessandro Conighi, nato a Trieste il 26 febbraio 1853, costruttore di Fiume e Abbazia, morto esule a Udine il 5 agosto 1950.

Il porto di Fiume, anni ’20 ca., bombardato dagli angloamericani 1944-’45 e minato dai nazisti dalla fine di aprile 1945; Collezione Aldo Tardivelli

Così ha scritto Rodolfo Decleva nel 2020. “In questi giorni [settembre 2020, NdR] sono avvenute a Fiume-Rijeka delle manifestazioni contrarie alla iniziativa presa dall’Amministrazione cittadina di installare in cima al Grattacielo della ex Piazza Regina Elena una grande Stella Rossa formata da 2800 pezzi di vetro di colore rosso rappresentanti 2.800 Caduti Partigiani nella Battaglia per la Liberazione di Fiume. Io sottoscritto Dr. Rodolfo DECLEVA nato a Fiume l’8 Gennaio 1929, residente in quell’epoca a Fiume, in Calle del Barbacane 19, rendo la seguente testimonianza resa ‘Pour servir et valoir ce que de droit’. – – –

Dal 15 aprile al 3 maggio 1945 – Dalla metà di Aprile, ai bombardamenti aerei su Fiume si erano aggiunti lanci isolati di schrapnell [proiettile cavo, riempito di sfere di piombo, o di acciaio, e munito di una carica di scoppio collegata ad una spoletta a tempo] da parte dei Partigiani sulla nostra città che provenivano dalle alture di Tersatto. Perciò la gente si era portata i materassi nel rifugio antiaereo di Via Roma a 120 metri dal confine con Sussak e la Fiumera e vi dormiva. La nostra famiglia  continuò a dormire in casa essendo distanti dal rifugio solo un quarantina di passi. Di giorno la vita in città – occupata da tedeschi e repubblichini – era normale.

Ancora in Aprile io prendevo regolarmente il treno alle ore 7 del mattino per andare al Lager di Mattuglie per firmare la presenza e poi recarmi a piedi a Giordani dove – essendo state chiuse le scuole – ero stato precettato dalla Organizzazione TODT per la costruzione di Bunker sotto la direzione di un militare Gruppfuehrer austriaco. Nella mia squadra di 10 elementi faceva parte anche il signor Stabellini, Bidello della Scuola di Avviamento Commerciale. Rientravamo a Fiume con il treno delle ore 17.

Fiume 1945 – Bruno Tardivelli precettato al lavoro per la Todt. Collezione Aldo Tardivelli

Una settimana prima della fine del mese di Aprile, i tedeschi mi ordinarono di recarmi a lavorare ai Bunker a Santa Caterina, sulle alture sopra Fiume dove erano posizionate le difese italo-tedesche che rispondevano alle provocazioni partigiane che ho descritto sopra, dove già lavorava il mio amico Massimo Gustincich. I schrapnel continuavano a cadere ma ogni tanto uno e non a pioggia, e l’impressione era che si fosse ormai giunti alla fine. Perciò mio padre non mi lasciò andare al lavoro e quindi non feci nemmeno una giornata di lavoro a Santa Caterina. Per paura che i tedeschi mi venissero a cercare, mi fece vivere e dormire nella nostra cantina (fondo) alla quale si entrava dalla Calle dei Facchini n. 9.

Fu proprio in quei giorni – una settimana prima della fine – che i tedeschi fecero brillare le mine che avevano predisposto nei Moli e nella Diga per la distruzione del bacino portuale che richiese 4-5 giornate. Inspiegabilmente i Partigiani di Sussak restarono insensibili a tanto sfacelo senza intervenire.

Affermo che in città non c’era panico. Alle 7,30 del giorno 3 Maggio 1945 venni svegliato da una vicina – la Signora Giuditta Barbalich, la cui famiglia aderiva al movimento partigiano – abitante in Calle del Barbacane n. 23, ultima casa di questa Calle prima della Via Roma – che gridò: “Siamo liberi! I tedeschi sono andati via.”

Così è finita la guerra a Fiume con i Partigiani fermi e passivi a Sussak. Va dato atto all’Esercito jugoslavo, nato dalla lotta partigiana iniziata sin dal 1941, di aver sconfitto gli Eserciti italiano e tedesco da Belgrado a Trieste. Su «La Vedetta d’Italia», quotidiano di Fiume, seguivamo attraverso le poche righe riservate alle brutte notizie della guerra le battaglie ed i ripiegamenti delle nostre truppe da Sebenico, e poi da Bihac’ e Knin già nel Dicembre 1944.

L’ordine ai tedeschi era di difendere ogni palmo di terra per tenere lontana la guerra dalla Germania in attesa che gli scienziati producessero l’arma segreta – dopo le micidiali V1, V2 e V3 che stavano piovendo su Londra – dalla quale sarebbero cambiate le sorti del conflitto mondiale. Perciò ci vollero 4 mesi di combattimenti accaniti dell’Esercito di Tito per guadagnare i 200 km. di distanza tra Fiume e Bihac’, per cui i 2800 Caduti dichiarati recentemente in Croazia possono riguardare questo percorso raggiungendo, e insediandosi a Sussak verso la fine di Aprile.

Ma è ormai generalmente noto che la conquista di Fiume fu rinviata e il grosso dell’Armata si allargò passando a nord della nostra  città perché l’obbiettivo finale era diventato Trieste e il territorio sino all’Isonzo allo scopo di realizzare il fatto compiuto dell’occupazione militare e quindi ottenere l’assegnazione alla Jugoslavia del territorio occupato, in sede di Trattato di Pace. E in effetti con questo espediente l’Esercito di Tito vinse la storica ‘Corsa per Trieste’ giungendo in città il giorno 1° Maggio 1945 con un giorno di anticipo sui Neozelandesi fermi in attesa di ordini a Monfalcone.

A Fiume l’esercito partigiano entrò solo dopo che i tedeschi l’abbandonarono nella notte tra il 2-3 Maggio. La presero senza sparare un colpo, senza un morto, senza entusiasmi e nella freddezza del popolo fiumano.

Entrarono in città passando il Ponte sull’Eneo verso le ore 9,30 del 3 Maggio arrestando soldati italiani che stavano prendendo possesso della città. Personalmente assistetti all’arresto di tre Finanzieri di cui un Ufficiale, che erano in Via Roma a guardia di due mine anticarro lasciate dai tedeschi sulla strada a 20 metri dell’imboccatura del rifugio vis-à-vis la Caserma dei Carabinieri, oggi ancora in piedi. Probabilmente i nostri facevano parte del Gruppo di Don Luigi Polano, purtroppo bloccato dagli eventi in Italia, per cui non poté personalmente guidare il ritorno alla normalità.

In conclusione ripeto: – Nell’ultima settimana di Aprile fino al 3 Maggio 1945 la vita  a Fiume scorreva nella consueta normalità di stato di guerra con il timore di eventuali bombardamenti aerei, qualche isolato schrapnel che cadesse su qualche tetto, e il rumore delle Batterie di Santa Caterina e Drenova che rispondevano ai colpi delle postazioni partigiane a Sussak e Tersatto. ll mio amico Massimo Gustincich ha lavorato al Bunker Streiffen 3/B della TODT a Santa Caterina regolarmente fino a tutto il 29 Aprile 1945, situato nel dirupo a strapiombo sull’Eneo in fronte ai partigiani posizionati nella collina di Tersatto. Nel giorno 30 Aprile, il Gruppo di cui faceva parte venne spostato in zona meno esposta. Quindi, fino ancora due giorni dall’occupazione titina egli si recava a piedi dal Centro della città sino a Santa Caterina senza incontrare problemi o pericoli durante il tragitto.

Il porto saltava a pezzi tra l’indifferenza della gente in strada, preoccupata solo di non esserne    colpita, e consapevole che si era ormai alla fine. – La popolazione dormiva nei rifugi antiaerei o nelle abitazioni. – Non ci furono assolutamente sparatorie strada per strada o battaglie casa per casa, etc. da provocare morti né italiani né jugoslavi. – Alle 8 del mattino del 3 Maggio 1945 nella città di Fiume c’erano soldati italiani imboscati e Forze di polizia italiane al lavoro in servizio d’ordine.

– I Partigiani che da giorni erano stabiliti a Sussak, passarono il Ponte sull’Eneo verso le 9,30 a piedi entrando nel Centro della città dalla Via Roma e dalla Via Fiumara come già descritto in narrativa. Così occuparono la città. In fede. F.to  Dr. Rodolfo Decleva. Fatto in Genova, il 1° Ottobre 2020”.

Cartolina con borgo di Sussak; Collezione Aldo Tardivelli

Nel 1944, Fiume tra guerra e teatri – Sono le parole di Aldo Tardivelli quelle che seguono. È un altro fiumano patoco. Aldo Tardivelli, nato a Fiume il 20 settembre 1925, è deceduto a Genova il 19 novembre 2020 a causa del Corona virus. Ecco il suo racconto, scritto agli inizi del 2000. “La passione per la recitazione aveva spinto mio fratello Bruno ad allestire, insieme con altri amici, una compagnia di recitazione ‘filodrammatica’, come aveva fatto nostro padre, quando frequentava il circolo degli impiegati la Filodrammatica del Dopolavoro Ferroviario, con gran successo. ‘Lo Smemorato. Le Baruffe Chioggiotte. I Gatti Selvatici, L’Antenato. I fallimenti del curatore, Tre Rusteghi, Il medico e la pazza’. Commedie brillanti e di successo nel Teatro Fenice e Teatro Giuseppe Verdi nel 1944.

Fiume, 15.6.1944 – Il medico e la pazza. Compagnia teatrale filodrammatica. Collezione Aldo Tardivelli

Non c’erano grandi occasioni mondane in quel tempo. Se per caso suonava durante la recita l’allarme, correvano tutti nel rifugio, e poi…il successo era stato garantito, ma fra questi ‘bravi e novelli teatranti’ c’erano alcuni militanti e simpatizzanti collegati politicamente alle cellule clandestine del ‘Movimento Antifascista di Liberazione’. Alla fine la maggioranza di questi attori hanno optato e partirono per l’Italia nel 1947-48. In corso di un rastrellamento, durante la notte, le ‘forze di sicurezza naziste delle SS’ avevano arrestato gran parte della compagnia teatrale e condotta, con la forza, nelle carceri di Via Roma, mentre altri che non erano presenti in casa erano riusciti a sfuggire alla cattura.

Su tutti i detenuti del carcere persistevano per i diversi capi d’imputazione, l’incubo di una ìmorte certa’. Il dramma di questi condannati, non era diverso da quello di diventare, anche, ‘ostaggi di se stessi’ in seguito a qualche inutile attentato od omicidio di uno o più soldati Tedeschi, commesso dai loro ‘Compagni di lotta’.

Con uno stratagemma Aldo Tardivelli, tuttavia, riuscì a far liberare il fratello Bruno, che si salvò dalle grinfie naziste. Col 3 maggio 1945 la città fu invasa dagli iugoslavi ed iniziarono gli arresti di italiani da parte dei titini.

Fonti originali – Rodolfo Decleva, 2 – 3 maggio 1945, L’occupazione jugoslava di Fiume. Testimonianza depositata in data 1° Ottobre 2020 presso la Società di Studi Fiumani in Roma, Via A. Cippico 10, testo in Word, pp. 2; Collezione Elio Varutti, ANVGD di Udine.

Dalla Collezione di Claudio Ausilio, esule da Fiume a Montevarchi, ANVGD di Arezzo: – Aldo Tardivelli, Una vita in pericolo (1944-1945), testo in Word, s.d. [2003?] pagg. 15. – A. Tardivelli, Fiume, 3 maggio 1945, testo in Word, s.d. [2003?] pp. 12.

Collezione famiglia Conighi, esule da Fiume a Udine, ms.

Collezione Aldo Tardivelli, esule da Fiume a Genova, cartoline e testi in Word

Sitologia – E. Varutti, Diario di Carlo Conighi, Fiume aprile-maggio 1945, on line dal 7 giugno 2016.

Ricerca di Claudio Ausilio (ANVGD di Arezzo) e Elio Varutti (ANVGD di Udine). Autore principale: Rodolfo Decleva. Altri testi e Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio, Rodolfo Decleva e Sebastiano Pio Zucchiatti. Copertina: Cartolina del Ponte sull’Eneo tra Fiume e Sussak/Sussa, anni ‘40; Collezione Aldo Tardivelli. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia, 29 – I piano, c/o ACLI – 33100 Udine; orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Elisabetta Reich, ebrea di Fiume, sopravvissuta ad Auschwitz

Salvare la memoria è lo scopo del presente articolo. Mi riferisce Riccardo Simoni, già geriatria all’Ospedale de “I Fraticini” di Firenze, una vicenda incredibile. Mentre è di turno, verso gli anni ’70, gli capita una paziente anziana ed elegante. Durante la visita medica, scoprendole il polso, con grande impressione gli capita di scorgere sull’avambraccio un numero tatuato 76.845, come per chi è stato rinchiuso in un lager nazista. Il dottor Simoni è specializzato anche in psichiatria, perciò con tutte le arti apprese e con la delicatezza del caso, cerca di parlare con la signora riguardo alla Shoah. “Scopro così che il suo nome è Elisabetta Reich, sposata Szegö – dice Simoni – nata a Fiume nel 1902 e, dopo il 1943, fuggita a Firenze in clandestinità e rifugiatasi in un convento”.

Abbazia, verso il 1920. Sposi. Firmata a mano, in basso a destra: “Jellusich- Mayer, Abbazia”. Coll. Bora

Poi, si dice, che l’avidità del cuoco del convento delle monache ebbe il sopravvento. Egli fa la spia. I delatori ricevono dal governo fascista la somma di 10 mila lire per ogni ebreo catturato, 5 mila lire per ogni femmina ebrea segnalata e 2 mila lire per ogni bambino fatto arrestare. Elisabetta Reich viene fermata il 15 marzo 1944 assieme al padre Alessandro Reich, in base alle Leggi razziali fasciste e alla RSI succube di Hitler. “Poi la signora Reich è imprigionata al campo di transito di Fossoli di Carpi (MO) – aggiunge Simoni – infine, il 5 aprile 1944, è deportata al lager di Auschwitz e si ricordava che all’arrivo alla stazione un bel capitano tedesco si rivolge al gruppo di deportati dicendo che chi fosse stanco e anziano poteva salire sul camion, mentre gli altri avrebbero proseguito a piedi, poi scoprì che il capitano così gentile era tale Josef Mengele, criminale nazista, detto l’angelo di Birkenau e quelli saliti sul camion non si sono più visti, perché li avevano tutti ammazzati all’arrivo”.

Come fa a salvarsi la signora Elisabetta Reich?

“Si salva è vero perché era piena di vita – risponde Simoni – anche dopo la marcia forzata da Auschwitz a Ravensbruck, dato che i sovietici erano in avvicinamento i nazisti spostarono i prigionieri in un altro lager nell’interno. Si salvò e visse per qualche tempo in Svizzera, dove scrisse un memoriale, in tedesco, di oltre 100 pagine sulle sue tribolazioni nel lager, quel manoscritto è rimasto in famiglia, così mi spiegò la figlia Adriana Szegö a Firenze”.

Chi è vissuto sotto l’Austria-Ungheria, o più in generale nei Balcani tra Ottocento e Novecento ‘il tedesco se lo porta in testa’, come ha scritto Elias Canetti. Ci sono altri ricordi della signora di Fiume?

“La signora Reich – conclude Simoni – mi raccontava che negli anni ’20 ad Abbazia, presso Fiume, credo nel sanatorio Szegö, c’era un’intensa vita culturale, tanto che facevano i sabati letterari con Edoardo Weiss, Sándor Ferenczi ed altri allievi di Sigmund Freud. Erano tempi così”.

1890 ca, fotografia “E. Jelussich – Abbazia”. Coll. Bora

Altri cenni biografici di Elisabetta Reich

Come già accennato, Elisabetta Reich nasce a Fiume il 30 settembre 1902 da Alessandro e Dora Weiss, secondo le ricerche di Liliana Picciotto. Fuggita clandestina a Firenze con la famiglia, nel 1943, subisce le persecuzioni nazifasciste. Coniugata con Paolo Szegoe, è arrestata a Firenze e reclusa al Campo di raccolta di Fossoli di Carpi (MO), per essere deportata il 5 aprile 1944 al Campo di sterminio di Auschwitz col convoglio n. 9. La data di arrivo del convoglio ad Auschwitz è il 10 aprile successivo. È marchiata col numero di matricola: 76845. Sopravvive alla Shoah, ma non il marito e nemmeno il padre, come conclude la Picciotto.

Come ha scritto Federico Falk la famiglia Reich a Fiume abita in via del Pomerio 9, nella stessa strada dove, nel 1902, viene costruita dall’impresa Conighi l’elegante sinagoga in stile moresco, devastata dai nazisti nel 1944. I ruderi del luogo di culto sono poi livellati sotto Tito. Il capofamiglia è Alessandro Reich, fu Bernardo e fu Rosalia Deutsch, nato a Bonyhád (Ungheria) il 9 luglio 1868. È commerciante in chincaglierie, giocattoli ed altro con bel negozio in Corso Vittorio Emanuele III. Vive a Fiume dal 1898. Riceve la cittadinanza italiana per concessione del 21 agosto 1930. Alessandro Reich è coniugato con Dora Weiss, fu Giuseppe e fu Rosa Echfeld, nata  l’11 novembre 1878 a Novi Sad (all’epoca Ungheria, poi negli anni Venti: Jugoslavia). Dora, casalinga, coadiuva il marito nella frequentata azienda commerciale fiumana. I coniugi Alessandro e Dora Reich hanno due figli: Elisabetta, nata a Fiume nel 1902, casalinga, coniugata con Paolo Szegö, residente a Firenze e Federico, nato a Fiume, commerciante, emigrato negli USA. Paolo Szegö è deportato a Theresienstadt, o Terezín (oggi in Repubblica Ceca).

I coniugi Paolo ed Elisabetta Szegö avevano due figlie: Melitta Tatiana, nata a Fiume nel 1922, residente a Napoli, e Adriana, nata a Fiume il 21 settembre 1925, deceduta a Firenze il 15 dicembre 2004. Dopo l’occupazione nazista di Fiume del 1943 Alessandro Reich e la moglie si rifugiano a Firenze, dove egli venne arrestato assieme alla figlia. Detenuti a Fossoli, vengono deportati da Fossoli il 5 aprile 1944 ad Auschwitz, dove Alessandro Reich venne ucciso all’arrivo il 10 aprile 1944, mentre la figlia viene liberata e ritorna a Firenze, dove muore il 19 maggio 1982. Dora Weiss si salva nella clandestinità e, dopo la guerra, raggiunge il figlio negli USA dove in seguito muore, come conclude Federico Falk nel suo saggio on line. Auschwitz è un insieme di campi di concentramento e di lavoro nazisti situato nelle vicinanze della cittadina polacca di Oświęcim.

Quante vittime ha fatto la Shoah a Fiume ed Abbazia? I dati degli storici non sempre coincidono, ma siamo sull’ordine di 275-300 ebrei fiumani imprigionati e deportati nei campi di sterminio. Secondo Curci, gli ebrei residenti nel 1940, in base ai dati della prefettura, erano 1.105. Quelli rastrellati e deportati ammontano a 243 persone, delle quali solo 19 sopravvissero (Curci, p. 120). Si aggiunga che il monumento inaugurato a Fiume, nel Cimitero di Cosala, il 17 giugno 1981, è dedicato ai 275 deportati già appartenenti alla Comunità ebraica della città del Golfo del Quarnaro. Nel cimitero di Cosala a Fiume, ancor oggi, fanno la loro storica presenza le tombe delle famiglie Reich, Weiss e Szegö.

Gruss aus Abbazia. Cartolina di Abbazia con l’Hotel Quarnero; primi del ‘900

Il Sanatorio Szegoe di Abbazia

La famiglia Szegö è legata al “Kurhaus”, clinica del dottor Kalman Szegoe di Abbazia, oggi Opatija, in Croazia. Era detto anche Sanatorio Szegoe; era specializzato nella cura di pazienti di malattie polmonari. Su raffinato progetto dell’architetto Max Fabiani, il sanatorio viene edificato a fine Ottocento dall’azienda che aveva la seguente intestazione: “Carlo ing. Conighi, Impresa di costruzioni, Fiume – Abbazia”. Come si legge su «La Vedetta d’Italia» del 26 febbraio 1933, l’articolista attribuisce ai Conighi varie costruzioni di Fiume ed Abbazia. Tra di esse ci sono “le più sfarzose ville della riviera degli anni Trenta”, come la villa Rosalia, la villa Adria, la villa Nettuno, le ville barone Ransonnett, Smith, Harey, Frappart, Portheim, Janet, Italia, oltre all’Hotel Bellevue e al Sanatorio Szegoe. La sinagoga di via Pomerio a Fiume, di “aspetto orientaleggiante”, opera del 1902, fu fatta saltare in aria nel 1944, in un attentato antisemita. Carlo Alessandro Conighi, triestino di nascita, è a Trieste nel 1878, componente della Commissione per strade, ponti e strade ferrate della Società d’Ingegneri ed Architetti in Trieste. Il sanatorio di Abbazia è citato nella Guida sanitaria italiana del 1924, a pag. 668.

Abbazia, fratelli e cugini; sullo sfondo l’Hotel Qvarner. Anni ’40. Coll. Bora

Il fotografo Edmund Jelusich di Abbazia

Jellusich Edmund, o Edmondo di Fiume, opera nell’Impero Austro-Ungarico. Quale fotografo di Fiume, è menzionato nelle raccolte fotografiche del Museo Marittimo e Storico del Litorale Croato di Fiume verso il 1890 (Museo Fiume; vedi in Bibliografia). Ha in Corso 23 lo stabilimento fotografico per la produzione di ritratti; è presente pure in Abbazia, documentato nel periodo 1900-1912 in base ad album di famiglia di Fiume e Roma (Coll. F. Conighi). Secondo certi autori inizia la sua carriera ad Abbazia nel 1886. È uno dei dodici fotografi attivi ad Abbazia nel 1914. Pare sia noto con altre varie grafie, come Edmond Jelusich, oppure Jelusic, o Jellusig (Smokvina). Nel 1914 ha una succursale presso il fotografo Andrioni, recando l’indicazione di “Andrioni & Co., succursale di E. Jellusich” sul verso delle fotografie in album di famiglie di Fiume scappate, col potere dei titini, dopo il 1945 verso Udine (Coll. H. Conighi). In certi ritratti fotografici, del 1928, appartenenti ad altri album familiari, dopo che Fiume è stata annessa al Regno d’Italia, comprare solo questa indicazione: “Andrioni & Co.” (Coll. Lupetich). C’è una sua firma manoscritta in una fotografia di una coppia di sposi, verso il 1920, “Jellusich- Mayer, Abbazia”; si veda la fotografia riportata più sopra (Coll. Bora).

Cambia volto Abbazia nel XIX secolo, luogo si soggiorno e cura della Mitteleuropa, dei nobili russi, nonché sito di incontri culturali sulla psicanalisi, inframmezzati da assaggi di fette di torta Dobos o di Buchtel col ripieno di marmellata alle albicocche. Non è più come la descrive qualche decennio prima, con estrema crudezza, Anton Čechov, nel racconto intitolato Arianna: “Siete stato ad Abbazia? È una cittadina slava, sporca, con una sola strada puzzolente, in cui dopo la pioggia è impossibile camminare senza soprascarpe. (…) Adesso, mentre coi pantaloni rimboccati attraversavo con precauzione quella strada angusta, e compravo svogliatamente delle pere acerbe da una vecchia (…) provavo vergogna e dispetto”.

Targa commemorativa al Campo di transito di Fossoli di Carpi (MO); foto Varutti, 2020

Fonte originale

Si è cercato di confrontare la testimonianza con i documenti e con gli studi in letteratura. Per la collaborazione riservata alla ricerca, oltre che a Mariateresa Bora, di mamma Abbaziana, che sta a Camogli (GE), si è riconoscenti a: Riccardo Simoni, Rovigno 1940, esule a San Casciano in Val di Pesa (FI), intervista telefonica a cura di Elio Varutti del 2 e del 5 aprile 2020. La redazione del blog ringrazia il signor Claudio Ausilio, esule da Fiume e socio dell’ANVGD di Arezzo, che ha cortesemente fornito i contatti per la ricerca presso il dottor Riccardo Simoni, andando a consolidare una tradizionale e continua collaborazione con l’ANVGD di Udine.

Collezioni familiari

Si precisa che il corredo fotografico dell’articolo presente non contiene immagini dei Reich- Szegoe, principali protagonisti della tragica vicenda, ma solo di contesto geografico, grazie ai pubblici archivi e alle collezioni familiari menzionate, che si ringraziano per la cortese concessione alla pubblicazione e citazione nel blog.

  • Mariateresa Bora, di Abbazia; immagini inedite.
  • Ferruccio Conighi, esule da Fiume a Roma, ora in Coll. privata, Udine.
  • Helga Conighi, esule da Fiume a Udine, ora in Coll. fam. Conighi, Udine.
  • Giovanni Lupetich, con avi di Fiume, esule a Belluno.
Abbazia, Strandpromenade, cartolina viaggiata 1° aprile 1913. Coll. Varutti

Bibliografia, sitologia ragionata e abbreviazioni

  1. Sui costruttori Conighi di Fiume si vedano i seguenti materiali.

Archiv des Vereines der Österreichischen Gesellschaft vom Goldenen Kreuze, Wien (Austria).

Atti della Società d’Ingegneri ed Architetti di Trieste, I, V, 1878.

“Carlo Conighi ingegnere e patriota festeggia oggi il suo ottantesimo compleanno”, «La Vedetta d’Italia», Fiume, 26 febbraio 1933, p. 2.

E. Varutti, Shoah a Udine sud. Campi di concentramento e dicerie, on line dal 24 gennaio 2020. https://eliovarutti.wordpress.com/2020/01/24/shoah-a-udine-sud-campi-di-concentramento-e-dicerie/

E. Varutti, Le Case Penso e Unione dei costruttori Conighi di Fiume, 1908, on line dal 28 febbraio 2020.

2. Riguardo al sanatorio Szegoe e agli ebrei di Fiume ed Abbazia perseguitati dai nazifascisti si sono utilizzati i sottoelencati prodotti.

Elias Canetti, Die gerettete Zunge. Geschichte einer Jugend, München, Hanser, 1977, traduzione ital. di A. Pandolfi e R. Colorni, La lingua salvata. Storia di una giovinezza, Milano, Adelphi, 1980, XI ediz.: 2005, pag. 22.

Roberto Curci, Via San Nicolò. Traditori e traditi nella Trieste nazista, Bologna, Il Mulino, 2015.

Federico  Falk (a cura di), Le comunità israelitiche di Fiume e Abbazia tra le due guerre mondiali. Gli ebrei residenti nella provincia del Carnaro negli anni 1915 – 1945, nel web dal 26 febbraio 2016.    https://www.bh.org.il/jewish-spotlight/fiume/?page_id=499

Guida sanitaria italiana (Annuario sanitario d’Italia), XVI, N.S., n. 3, Milano, Unitas, 1924.

Liliana Picciotto, Il libro della memoria: gli ebrei deportati dall’Italia, 1943-1945, ricerca della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, Milano, Mursia, 2002, pp. 77-80, pp. 66-71. Dal seguente sito web.

http://digital-library.cdec.it/cdec-web/persone/detail/person-7486/reich-elisabetta.html

3. Per la storia della fotografia di Fiume e Abbazia si sono consultati, oltre a varie collezioni familiari i seguenti testi.

Anton Čechov, I grandi racconti (ediz. origin.: Sankt-Petersburg, 1903), versione di Ercole Reggio e Marussia Shkirmantova, Milano, Garzanti, 1965.

Museo Fiume = Museo marittimo e storico del litorale croato, Fiume / Maritime and History Museum of the Croatian Littoral Rijeka. Curatrice della Sezione fotografica: Margita Cvijetinović Starac.    http://ppmhp.hr/en/zbirka-fotografija/

Smokvina = Milijienko Smokvina, Istria tra ottocento e novecento. Apporti alla conoscenza della storia della fotografia in Istria, Istrianet.org, Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia (CRAF), Spilimbergo (PN), on-line dal 27 gennaio 2013.

http://www.istrianet.org/istria/visual_arts/archives/photographs/1800-1900_storia.htm

http://www.craf-fvg.it/ita/craf/cont_d.asp?Cont_ID=104

E. Varutti, Cartoline d’Istria, Fiume e Dalmazia 1900-1965, on line dal 20 agosto 2018.

Cartolina di Fiume viaggiata ai primi del ‘900

Servizio giornalistico, di ricerca e di Networking a cura di Girolamo Jacobson, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettrice: Daniela Conighi. Copertina: Das Kurhaus in Abbazia, progetto di Max Fabiani (firma in basso a destra) 1898, realizzato in parte dall’Impresa Carlo Conighi; noto pure come Sanatorio Szegoe. Archiv des Vereines der Österreichischen Gesellschaft vom Goldenen Kreuze, Wien. Fotografie da collezioni pubbliche e private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Ebrei di Abbazia clandestini a Palmanova 1943-1945

Si è abituati a considerare i nazisti come uomini tutto d’un pezzo. Certi fedeli esecutori del dettame hitleriano invece, ad un certo punto, si sciolgono come neve al sole. È accaduto a Udine e in Friuli. Quelli che fino a poco tempo prima ordinavano la fucilazione di persone inermi accusate di andar contro lo sforzo bellico della Grande Germania, pur di salvarsi la pelle, sono disposti a scendere a patti niente meno che con i partigiani. Pochi mesi prima davano la caccia agli ebrei, depredandoli e deportandoli. Davano la caccia ai partigiani, torturandoli e impiccandoli, poi cambiano le cose. Certi ufficiali delle Waffen SS uccidevano a bruciapelo i traditori del Terzo Reich, poi sono loro i primi a intavolare delle trattative proprio col nemico, ossia coi partigiani. Tra i nomi più celebri del voltafaccia tedesco abbiamo Jakob von Alvensleben, come accennava don Aldo Moretti, prete partigiano delle Brigate Osoppo Friuli. Altri soldati tedeschi, per danaro o per altri motivi, non arrestano certi ebrei nascosti dalla popolazione friulana, come è successo a Palmanova. Che lo abbiano fatto per umanità?

Il caso Rudovitz di Palmanova

Ecco il caso accaduto alla famiglia Parisotto, di Palmanova (UD), come ha raccontato Luigi Parisotto in una lettera al «Messaggero Veneto» del 2 marzo 2019. Rientra tra quei pochi friulani che, con gravi rischi per la propria vita, nasconde degli ebrei nella propria abitazione, per salvarli dalla persecuzione nazista. Dal 1932 Giuseppe Parisotto, padre di Luigi, gestisce una cartoleria nella città stellata.

“Negli anni ’40 i miei genitori a Palmanova – ha scritto Parisotto – nascosero tre ebrei di Abbazia, dove gestivano un albergo”. Si tratta dei signori Willy Rudovitz, della signora Rudovitz e del figlio quarantenne di nome, pure lui, Willy Rudovitz, ospitati dalla famiglia di Giuseppe Parisotto, dal mese di novembre 1943 fino alla fine di maggio 1945. Fa da tramite il signor Berin, fattore degli Hausbrandt, proprietari terrieri a Chiopris Viscone, come emerge dal Dossier Rudovitz, fornitomi dallo stesso Luigi Parisotto, che usa la grafia “Willy” con la “y” finale. Tra le altre, il cognome Rudovitz è presente negli Usa; pare che un Rudovitz sia emigrato dalla Russia zarista negli Usa alla fine dell’Ottocento.

Ad un certo punto il racconto del signor Parisotto si tinge di mistero. Si viene a sapere che la signora Rudovitz è parente degli Hausbrandt. Poi si sa che la signora Maria Osso Parisotto, madre del testimone, cucina anche per i Rudovitz, che mangiano in momenti distinti dalla famiglia ospitante. In particolare, come riferisce Luigi Parisotto, la signora Rudovitz si muove in casa, anche per i pasti, con una “valigetta che posava sempre ai proprio piedi”, come ha detto il testimone. Conteneva soldi, oggetti preziosi? Sono le domande ricorrenti di Luigi Parisotto, che a quel tempo era un ragazzino. In casa Parisotto una sera di dicembre 1943 compare un ufficiale tedesco, il tenente Stolvitz, che dice di essere a conoscenza dell’ospitalità offerta dai Parisotto a terzi. Anzi il tedesco mostra un foglio recante il nome dei Rudovitz e tenta di rassicurare la famiglia ospitante, dicendo che vuole solo parlare con i signori ebrei di Abbazia in quanto, pare, che siano suoi conoscenti. Così l’impietrito Giuseppe Parisotto accompagna il tenente Stolvitz alla camera dei Rudovitz, mentre la signora Maria Osso ha lo sguardo fisso nel vuoto. La paura di essere arrestati è molto forte. Dopo mezz’ora di colloquio con i Rudovitz il tenente tedesco scende al piano di sotto e bussa alla porta della sala dove stanno i Parisotto terrorizzati. Dopo i saluti il tenente tedesco dice che dovrà ritornare e si congeda. Il giovane Parisotto racconta che il tenente Stolvitz esce di casa con la valigetta nera della signora Rudovitz.

Gabriele Anelli Monti, Friuli 1944, pennarello su carta, cm 11 x 15, 2019, ispirato a G. Zigaina, Partigiani impiccati

Il giorno seguente i Rudovitz, scesi per il pranzo, non mostrano alcun turbamento riguardo alla visita inaspettata del tenente tedesco, né danno spiegazione alcuna alla famiglia ospitante che nulla chiede in giornate già colme di ansia. Nell’inverno del 1943 i tedeschi indossano “lunghi e mal confezionati cappotti chiusi da pesanti cinturoni – continua il racconto di Parisotto –. Al loro seguito c’erano i mongoli, piccoli, tarchiati, con gli occhi obliqui e con lunghi baffoni. Sembravano dei predatori, ma non erano altro che dei disgraziati al seguito delle truppe tedesche”. Si tratta di popolazioni cosacche e caucasiche della Russia meridionale anticomuniste e zariste con occhi a mandorla, come i mongoli, alleate dei nazisti.

Nei primi giorni del 1944 ritorna a fare visita il tenente Stolvitz in casa Parisotto. Il tedesco si intrattiene a lungo con i Rudovitz, poi saluta e se ne va. I Parisotto sono sempre più preoccupati. Il giovane chiede notizie ai genitori, che minimizzano e troncano il discorso. Nel frattempo la guerra va avanti. Anche a Palmanova si sentono sempre di più i rumori dei bombardieri anglo-americani che vanno in missione verso la Germania nazista. I rastrellamenti dei tedeschi procedono di pari passo alle azioni dei partigiani fino al termine del conflitto. Il testimone riferisce che la famiglia Rudovitz lascia indenne casa Parisotto alla fine di maggio del 1945.

Poi il mistero di infittisce. Nell’estate del 1960 i Parisotto cambiano casa. I genitori di Luigi Parisotto muoiono a pochi anni l’uno dall’altra verso il 1970, mentre lui continua l’attività commerciale. Un certo giorno il famoso Stolvitz si ripresenta a Palmanova a casa Parisotto. Resta male sapendo che i genitori di Luigi Parisotto sono deceduti. Poi c’è la domanda su quella valigetta. L’ex-ufficiale dà una risposta che ha dell’inverosimile. “Lui allora era addetto a compiti riservati – conclude Luigi Parisotto – ed aveva accesso a documenti top secret ed a suo dire la famiglia Rudovitz gli permise di ricevere un’ulteriore importante documentazione, quella appunto contenuta nella piccola valigetta nera”. La spiegazione, secondo Parisotto, è che collaborava “con una rete clandestina che procurava visti di espatrio per la salvezza di cittadini ebrei soggetti alle persecuzioni”. L’ex-ufficiale, dopo i saluti e gli abbracci, se ne va e non si rivedrà più.

Luigi Parisotto sta cercando ancor oggi di capire dove sono finiti i Rudovitz di Abbazia, forse in Australia. Non si sa. Il tempo cancella molti fatti. Bisogna comunque constatare come non ci sia traccia nella letteratura storica di una “rete clandestina” tedesca dedita al salvataggio degli ebrei in Friuli. Tutt’altro, i tedeschi presenti in zona si impegnano nei rastrellamenti a depredare e deportare gli ebrei ad Auschwitz.  Dall’autunno 1943 il comando d’azione Reinhard (Aktion Reinhard) è impegnato a garantire la sicurezza delle comunicazioni sul territorio partigiano nel Carso e in Istria, importante nei collegamenti stradali e ferroviari tra Fiume, Trieste e Udine, in collegamento con le Waffen SS. Si tratta, secondo la cancelleria di Berlino, di territori destinati in pratica a essere annessi al grande Reich, in caso di vittoria nazista. Il reparto dell’Aktion Reinhard è formato da “specialisti” dei campi della morte di Belzec, Soribòr e Treblinka. L’ufficio nazista di Udine è detto “R/3” (in via S. Martino), con giurisdizione anche su Gorizia e collegamenti con Castelnuovo d’Istria. A Fiume c’è l’Abteilung R/2 (Fölkel pp. 53, 56, 123).

Un dato certo è che Rudovitz Willi compare fra i condannati del regime di Tito, subendo “il sequestro e la confisca dei beni” dalla Pretura Popolare di Fiume / Kotarski narodni sud u Rijeci. In particolare il suo nome è contenuto in una lista pubblicata in forma bilingue (italiano / croato) nel 2002. Vedi: Elenco parziale dei fiumani condannati a vario titolo dal 3 maggio 1945 al 1948 (Ballarini p. 235). Non è chiaro, tuttavia, se il fatto che risulti una condanna a suo carico significhi che egli fosse presente fisicamente nella provincia di Fiume e se al sequestro e alla confisca dei suoi beni materiali da parte titina, come per migliaia di fiumani italiani, abbia fatto seguito una sua eliminazione fisica in una foiba o in un campo di concentramento iugoslavo.

Negli elenchi dell’Archivio di Stato di Fiume messi in rete da Anna Pizzuti si legge di un: “Rudovic Iso, maschio, zidov / ebreo, proveniente da Lubiana, internato a Ferramonti (CS) il 31.07.1941 fino al 10.09.1943. Dopo la fuga o la liberazione si trova a S. Maria al Bagno (LE) 06.09.1945. [Nota:] Profugo proveniente dalla Jugoslavia occupata presente in Provincia del Carnaro”.

Ebrei arrestati in Friuli e nella Venezia Giulia e deportati ad Auschwitz

La Risiera di San Sabba a Trieste (l’Abteilung R/1) è il campo di concentramento degli ebrei per la deportazione nei campi di sterminio. I treni della morte partono da Trieste, passano per Gorizia, Udine, Tarvisio ed entrano nel Grande Reich a Klagenfurt, per arrivare a destinazione: Auschwitz. Detenuti nella Risiera di San Sabba furono deportati ad Auschwitz e qui uccisi, come altri arrestati oltre 270 ebrei fiumani. Tale dato sta nel Monumento inaugurato a Fiume, nel Cimitero di Cosala, il 17 giugno 1981; esso è dedicato ai 275 deportati già appartenenti alla Comunità ebraica della città del Quarnaro.

Maria Iole Furlan, Pausa dell’Abteilung R in rastrellamento anti-partigiano, fotocopia e pastelli, cm 21 x 29,5, 2019; da una fotografia nel libro di T. Matta.

È un prete, fiancheggiatore della Resistenza friulana, don Giuseppe Grillo, “Micros”, a menzionare la presenza di ebrei nel carcere di via Spalato a Udine. Don Grillo conosceva bene quella prigione, dato che vi fu recluso dai nazisti per ben nove mesi. Egli nomina gli ebrei incarcerati a Udine nella sua Relazione del Movimento e dell’Assistenza carceraria al Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) della provincia di Udine, documento custodito nell’Archivio Osoppo della Resistenza in Friuli (Aorf), C.Q. fasc. 26, doc. 2. Tali materiali di studio sono citati nel volume scritto da Luigi Raimondi Cominesi sul comandante partigiano “Tribuno” (pp. 105-106). Tra le altre don Grillo, descrivendo il modo di operare nazista, aggiunge che “persino con le partenze dei deportati (ne abbiamo i nominativi) si faceva partire una spia”.

Plinio Palmano ha scritto di essere stato recluso al carcere di via Spalato a Udine il 17 luglio 1944. È stato il maresciallo delle Waffen SS Kitzmüller in persona ad accompagnarlo in automobile, dopo l’arresto. Nel 1945 Kitzmüller è conosciuto come “quello che poco tempo dopo (perché non lo fece prima?) doveva compiere quel voltafaccia che permise la liberazione di molti compagni fra cui Verdi [ossia Candido Grassi], Mario ed altri” (Palmano p. 100). Sul finire della guerra non sono pochi i nazisti che fanno delle trattative coi partigiani, tentando di salvare la pelle, passando tranquillamente dall’altra parte. Tra i tedeschi carcerieri c’è il sergente Fritz, detto “Il boia”, per la sua malvagità (p. 105).

Come si stava nelle celle delle prigioni di via Spalato? Nel 1944, come spiega Palmano, nella cella da sei posti venivano ammucchiati 18-20 prigionieri, in attesa della deportazione ai campi di concentramento. Durante l’ora d’aria gli capita di vedere altri detenuti, come don Giuseppe Grillo, di Flaibano, l’avvocato Nimis, il commendator Calligaro, il signor Payer ed altri. I reclusi possono leggere i libri della biblioteca carceraria, oltre ai giornali che entrano clandestinamente. Il cappellano delle carceri è don Corrado Roiatti. Egli riesce a portare messaggi andando contro gli ordini delle Waffen SS (Palmano p. 103), ma si capisce che le guardie carcerarie italiane non sono così ossessive e pressanti. Celebrano la messa vari preti, oltre a don Roiatti, c’erano don Grillo e don Ennio D’Agostini, di Canale di Grivò. Oltre ai 98 fucilati nel 1943-1945 su ordine nazista nel carcere di Udine risultano, per Palmano, anche alcune eliminazioni di reclusi che figurano tra i “partiti per la Germania”.

Si ricorda che Liliana Picciotto menziona le squadre del gruppo dell’Aktion Reinhard, ossia gli “specialisti” dei campi della morte di Belzec, Soribòr e Treblinka. L’ufficio nazista di Udine è detto “R/3” (di Via S. Martino), con giurisdizione anche su Gorizia. Al suo comando troviamo Franz Stangl e poi Fritz Küttner e Arthur Walter. Detto reparto aveva il compito di ripulire il Litorale Adriatico da partigiani e ebrei, impadronendosi dei beni di questi ultimi (Picciotto p. 933). Di tali specialisti si è già scritto poco sopra ed uno di loro lo si ritrova nel paragrafo seguente fautore di un’efferata strage in un villaggio dell’entroterra fiumano.

Abbazia in una cartolina dei primi anni del ‘900

La strage di Lipa (Fiume), opera del tenente nazista Arthur Walter

Ecco il racconto del fiumano Rodolfo Decleva, diffuso nel web nel 2019, già pubblicato nel 2003 nella Rivista “Fiume” della Società Studi Fiumani. Il villaggio di Lipa nel 1944 era una frazione del Comune di Elsane, facente parte della Provincia del Carnaro, posta a metà strada tra Fiume e Trieste – racconta Decleva –. I partigiani di Tito pensavano ad un’azione dimostrativa contro il Presidio fascista, posto di guardia al bivio di Rupa, fissata per la domenica del 23 aprile e poi spostata alla domenica successiva 30 aprile 1944. Ciò in quanto questa data era il giorno che precedeva il Primo Maggio, Festa dei Lavoratori, e quindi l’attacco avrebbe avuto anche un grande significato politico e propagandistico. Appena cominciato l’attacco la domenica del 30 aprile e cadute su Rupa le prime granate, il Comandante del Presidio fascista Tenente Aurelio Pieszt manda un uomo a chiedere rinforzi e questi ferma per tale scopo una colonna di tedeschi che procede verso Fiume. La colonna – sono quattro camionette con una cinquantina di soldati – si ferma per decidere il da farsi e in quel momento cade su di essa una granata che provoca quattro morti. Immediatamente il comandante tedesco si collega con il suo Comando, che ha sede a Castelnuovo d’Istria – a circa 10 Km. da Rupa – e, quando dopo qualche ora arrivano altri rinforzi, procede contro il paese di Lipa che viene circondato. Ogni civile che si trova in strada e sui campi viene ammazzato. I militari entrano nelle case e le svuotano degli abitanti, che vengono concentrati in un edificio diroccato all’inizio del paese. Ad un tratto furono svuotate latte di benzina su di loro e venne dato fuoco per bruciarli vivi, e colpi di mitra per chi tentava di uscire da quell’inferno. Poi per nascondere l’eccidio usarono anche la dinamite ma i sopravvissuti, grazie al fatto che quel giorno non si trovavano in paese, poterono raccontare l’accaduto. Si calcola che dei 300 abitanti di Lipa solo una trentina di persone rimasero vive e furono i ragazzi che pascolavano il bestiame nei dintorni o i giovani che erano in bosco coi partigiani o quelle poche persone che – pur essendo domenica – erano ugualmente a Fiume per lavoro. Alcuni cognomi più ricorrenti delle 269 vittime: Africh, Bernetich, Calcich, Gabersnik, Iskra, Jaksetich, Juricich, Maglievaz, Puharich, Simcich (la famiglia più numerosa), Slosar, Smaila, Tomsich, Toncich, Toncinich e Valencich. Anton Toncinich era la persona più anziana, aveva 81 anni, mentre le tre bambine Bozilka Iskra, Carla Slosar, cuginetta di Decleva, e Miliza Valencich non avevano ancora compiuto il primo anno della loro vita.

Ivan Ivancich ebbe la fortuna di essere solo scalfito dalla pallottola e ferito all’orecchio. Egli si finse morto – restando immobile per ore accanto al cadavere della moglie – e salvando così la vita. Fu l’unico testimone dell’eccidio tedesco, che descrisse nei giorni seguenti a Scalniza, una località vicina a Lipa. Si diceva che per prudenza avesse addirittura soffocato con le catene il proprio cane di guardia per timore di non essere tradito.

Maria Africh riuscì a salvarsi grazie all’aiuto di un fascista – a lei sconosciuto – che quando uscì dalla sua casa situata ai margini del paese le salvò la vita facendola fuggire in direzione opposta alla morte. La presenza di quell’angelo in camicia nera prova che anche gli italiani furono della partita, ma con funzioni di “copertura”.

Il Comandante tedesco responsabile delle operazioni era il Tenente Arthur Walter, già protagonista della distruzione dei paesi di Sejane, Mune Grande e Mune Piccolo e della deportazione di quella popolazione civile.

Subito dopo la guerra a Lipa fu costruito un sobrio Cimitero monumentale nello stesso posto dove le vittime vennero concentrate e bruciate vive, e anche il paese è risorto sulle stesse case bruciate e diroccate per volontà dei superstiti della strage. Nel Museo storico di allora, che raccoglieva i poveri cimeli rinvenuti tra le macerie delle case diroccate, era esposto in una parete l’ingrandimento di una fotografia dove un militare tedesco, riconoscibile dall’elmetto, veniva ripreso mentre ricacciava nel fuoco un bambino che tentava di uscire dall’inferno. Si diceva che un altro militare tedesco avesse fotografato quella scena e avesse dato a sviluppare il rullino ad un fotografo di Villa del Nevoso e che questi – vedendo il soggetto – ne avesse fatto una copia per sé. Ora il Museo è stato modernizzato e questa gigantografia non è più esposta mentre i cognomi delle povere vittime sono stati cambiati con la grafia croata. Così si conclude la testimonianza di Rodolfo Decleva.

Documenti originali e digitali

Luigi Parisotto, Dossier Rudovitz, 2004-2019, ritagli di giornale, datt. e ms.

Rodolfo Decleva, messaggio del 28 aprile 2019 in Facebook, nel gruppo Un Fiume di Fiumani!

Cenni bibliografici

Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski (a cura di / uredili), Le vittime di nazionalità italiana di Fiume e dintorni (1939-1947) / Žrtve talijanske nacionalnosti u Rijeci i okolici (1939.-1947.), Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2002.

Ferruccio Fölkel, La Risiera di San Sabba. L’Olocausto dimenticato: Trieste e il Litorale Adriatico durante l’occupazione nazista, Milano, Bur, 2000.

Tristano Matta, Il lager di San Sabba. Dall’occupazione nazista al processo di Trieste, Beit, Trieste, 2012.

Plinio Palmano, “Al Grande Albergo di via Spalato”, «Avanti cul brum! Lunari di Titute Lalele pal 46», 1945.

Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), 1^ edizione 1991, Milano, Mursia, 2002.

Anna Pizzuti, Ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico, nel web dal febbraio 2016: http://www.annapizzuti.it/

Luigi Raimondi Cominesi, Modotti Mario ‘Tribuno’. Storia di un comandante partigiano, Udine, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, 2002.

Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Girolamo Jacobson e E. Varutti. Fotografie e disegni da collezioni private citate nell’articolo. Si ringrazia per la collaborazione alle ricerche Lucio Rossi di Palmanova. In copertina dell’articolo presente: Maria Iole Furlan, Truppe dell’Abteilung R in rastrellamento anti-partigiano, fotocopia e pastelli, cm 21 x 29,5, 2019; da una fotografia nel libro di T. Matta.