Ebrei di Abbazia clandestini a Palmanova 1943-1945

Si è abituati a considerare i nazisti come uomini tutto d’un pezzo. Certi fedeli esecutori del dettame hitleriano invece, ad un certo punto, si sciolgono come neve al sole. È accaduto a Udine e in Friuli. Quelli che fino a poco tempo prima ordinavano la fucilazione di persone inermi accusate di andar contro lo sforzo bellico della Grande Germania, pur di salvarsi la pelle, sono disposti a scendere a patti niente meno che con i partigiani. Pochi mesi prima davano la caccia agli ebrei, depredandoli e deportandoli. Davano la caccia ai partigiani, torturandoli e impiccandoli, poi cambiano le cose. Certi ufficiali delle Waffen SS uccidevano a bruciapelo i traditori del Terzo Reich, poi sono loro i primi a intavolare delle trattative proprio col nemico, ossia coi partigiani. Tra i nomi più celebri del voltafaccia tedesco abbiamo Jakob von Alvensleben, come accennava don Aldo Moretti, prete partigiano delle Brigate Osoppo Friuli. Altri soldati tedeschi, per danaro o per altri motivi, non arrestano certi ebrei nascosti dalla popolazione friulana, come è successo a Palmanova. Che lo abbiano fatto per umanità?

Il caso Rudovitz di Palmanova

Ecco il caso accaduto alla famiglia Parisotto, di Palmanova (UD), come ha raccontato Luigi Parisotto in una lettera al «Messaggero Veneto» del 2 marzo 2019. Rientra tra quei pochi friulani che, con gravi rischi per la propria vita, nasconde degli ebrei nella propria abitazione, per salvarli dalla persecuzione nazista. Dal 1932 Giuseppe Parisotto, padre di Luigi, gestisce una cartoleria nella città stellata.

“Negli anni ’40 i miei genitori a Palmanova – ha scritto Parisotto – nascosero tre ebrei di Abbazia, dove gestivano un albergo”. Si tratta dei signori Willy Rudovitz, della signora Rudovitz e del figlio quarantenne di nome, pure lui, Willy Rudovitz, ospitati dalla famiglia di Giuseppe Parisotto, dal mese di novembre 1943 fino alla fine di maggio 1945. Fa da tramite il signor Berin, fattore degli Hausbrandt, proprietari terrieri a Chiopris Viscone, come emerge dal Dossier Rudovitz, fornitomi dallo stesso Luigi Parisotto, che usa la grafia “Willy” con la “y” finale. Tra le altre, il cognome Rudovitz è presente negli Usa; pare che un Rudovitz sia emigrato dalla Russia zarista negli Usa alla fine dell’Ottocento.

Ad un certo punto il racconto del signor Parisotto si tinge di mistero. Si viene a sapere che la signora Rudovitz è parente degli Hausbrandt. Poi si sa che la signora Maria Osso Parisotto, madre del testimone, cucina anche per i Rudovitz, che mangiano in momenti distinti dalla famiglia ospitante. In particolare, come riferisce Luigi Parisotto, la signora Rudovitz si muove in casa, anche per i pasti, con una “valigetta che posava sempre ai proprio piedi”, come ha detto il testimone. Conteneva soldi, oggetti preziosi? Sono le domande ricorrenti di Luigi Parisotto, che a quel tempo era un ragazzino. In casa Parisotto una sera di dicembre 1943 compare un ufficiale tedesco, il tenente Stolvitz, che dice di essere a conoscenza dell’ospitalità offerta dai Parisotto a terzi. Anzi il tedesco mostra un foglio recante il nome dei Rudovitz e tenta di rassicurare la famiglia ospitante, dicendo che vuole solo parlare con i signori ebrei di Abbazia in quanto, pare, che siano suoi conoscenti. Così l’impietrito Giuseppe Parisotto accompagna il tenente Stolvitz alla camera dei Rudovitz, mentre la signora Maria Osso ha lo sguardo fisso nel vuoto. La paura di essere arrestati è molto forte. Dopo mezz’ora di colloquio con i Rudovitz il tenente tedesco scende al piano di sotto e bussa alla porta della sala dove stanno i Parisotto terrorizzati. Dopo i saluti il tenente tedesco dice che dovrà ritornare e si congeda. Il giovane Parisotto racconta che il tenente Stolvitz esce di casa con la valigetta nera della signora Rudovitz.

Gabriele Anelli Monti, Friuli 1944, pennarello su carta, cm 11 x 15, 2019, ispirato a G. Zigaina, Partigiani impiccati

Il giorno seguente i Rudovitz, scesi per il pranzo, non mostrano alcun turbamento riguardo alla visita inaspettata del tenente tedesco, né danno spiegazione alcuna alla famiglia ospitante che nulla chiede in giornate già colme di ansia. Nell’inverno del 1943 i tedeschi indossano “lunghi e mal confezionati cappotti chiusi da pesanti cinturoni – continua il racconto di Parisotto –. Al loro seguito c’erano i mongoli, piccoli, tarchiati, con gli occhi obliqui e con lunghi baffoni. Sembravano dei predatori, ma non erano altro che dei disgraziati al seguito delle truppe tedesche”. Si tratta di popolazioni cosacche e caucasiche della Russia meridionale anticomuniste e zariste con occhi a mandorla, come i mongoli, alleate dei nazisti.

Nei primi giorni del 1944 ritorna a fare visita il tenente Stolvitz in casa Parisotto. Il tedesco si intrattiene a lungo con i Rudovitz, poi saluta e se ne va. I Parisotto sono sempre più preoccupati. Il giovane chiede notizie ai genitori, che minimizzano e troncano il discorso. Nel frattempo la guerra va avanti. Anche a Palmanova si sentono sempre di più i rumori dei bombardieri anglo-americani che vanno in missione verso la Germania nazista. I rastrellamenti dei tedeschi procedono di pari passo alle azioni dei partigiani fino al termine del conflitto. Il testimone riferisce che la famiglia Rudovitz lascia indenne casa Parisotto alla fine di maggio del 1945.

Poi il mistero di infittisce. Nell’estate del 1960 i Parisotto cambiano casa. I genitori di Luigi Parisotto muoiono a pochi anni l’uno dall’altra verso il 1970, mentre lui continua l’attività commerciale. Un certo giorno il famoso Stolvitz si ripresenta a Palmanova a casa Parisotto. Resta male sapendo che i genitori di Luigi Parisotto sono deceduti. Poi c’è la domanda su quella valigetta. L’ex-ufficiale dà una risposta che ha dell’inverosimile. “Lui allora era addetto a compiti riservati – conclude Luigi Parisotto – ed aveva accesso a documenti top secret ed a suo dire la famiglia Rudovitz gli permise di ricevere un’ulteriore importante documentazione, quella appunto contenuta nella piccola valigetta nera”. La spiegazione, secondo Parisotto, è che collaborava “con una rete clandestina che procurava visti di espatrio per la salvezza di cittadini ebrei soggetti alle persecuzioni”. L’ex-ufficiale, dopo i saluti e gli abbracci, se ne va e non si rivedrà più.

Luigi Parisotto sta cercando ancor oggi di capire dove sono finiti i Rudovitz di Abbazia, forse in Australia. Non si sa. Il tempo cancella molti fatti. Bisogna comunque constatare come non ci sia traccia nella letteratura storica di una “rete clandestina” tedesca dedita al salvataggio degli ebrei in Friuli. Tutt’altro, i tedeschi presenti in zona si impegnano nei rastrellamenti a depredare e deportare gli ebrei ad Auschwitz.  Dall’autunno 1943 il comando d’azione Reinhard (Aktion Reinhard) è impegnato a garantire la sicurezza delle comunicazioni sul territorio partigiano nel Carso e in Istria, importante nei collegamenti stradali e ferroviari tra Fiume, Trieste e Udine, in collegamento con le Waffen SS. Si tratta, secondo la cancelleria di Berlino, di territori destinati in pratica a essere annessi al grande Reich, in caso di vittoria nazista. Il reparto dell’Aktion Reinhard è formato da “specialisti” dei campi della morte di Belzec, Soribòr e Treblinka. L’ufficio nazista di Udine è detto “R/3” (in via S. Martino), con giurisdizione anche su Gorizia e collegamenti con Castelnuovo d’Istria. A Fiume c’è l’Abteilung R/2 (Fölkel pp. 53, 56, 123).

Un dato certo è che Rudovitz Willi compare fra i condannati del regime di Tito, subendo “il sequestro e la confisca dei beni” dalla Pretura Popolare di Fiume / Kotarski narodni sud u Rijeci. In particolare il suo nome è contenuto in una lista pubblicata in forma bilingue (italiano / croato) nel 2002. Vedi: Elenco parziale dei fiumani condannati a vario titolo dal 3 maggio 1945 al 1948 (Ballarini p. 235). Non è chiaro, tuttavia, se il fatto che risulti una condanna a suo carico significhi che egli fosse presente fisicamente nella provincia di Fiume e se al sequestro e alla confisca dei suoi beni materiali da parte titina, come per migliaia di fiumani italiani, abbia fatto seguito una sua eliminazione fisica in una foiba o in un campo di concentramento iugoslavo.

Negli elenchi dell’Archivio di Stato di Fiume messi in rete da Anna Pizzuti si legge di un: “Rudovic Iso, maschio, zidov / ebreo, proveniente da Lubiana, internato a Ferramonti (CS) il 31.07.1941 fino al 10.09.1943. Dopo la fuga o la liberazione si trova a S. Maria al Bagno (LE) 06.09.1945. [Nota:] Profugo proveniente dalla Jugoslavia occupata presente in Provincia del Carnaro”.

Ebrei arrestati in Friuli e nella Venezia Giulia e deportati ad Auschwitz

La Risiera di San Sabba a Trieste (l’Abteilung R/1) è il campo di concentramento degli ebrei per la deportazione nei campi di sterminio. I treni della morte partono da Trieste, passano per Gorizia, Udine, Tarvisio ed entrano nel Grande Reich a Klagenfurt, per arrivare a destinazione: Auschwitz. Detenuti nella Risiera di San Sabba furono deportati ad Auschwitz e qui uccisi, come altri arrestati oltre 270 ebrei fiumani. Tale dato sta nel Monumento inaugurato a Fiume, nel Cimitero di Cosala, il 17 giugno 1981; esso è dedicato ai 275 deportati già appartenenti alla Comunità ebraica della città del Quarnaro.

Maria Iole Furlan, Pausa dell’Abteilung R in rastrellamento anti-partigiano, fotocopia e pastelli, cm 21 x 29,5, 2019; da una fotografia nel libro di T. Matta.

È un prete, fiancheggiatore della Resistenza friulana, don Giuseppe Grillo, “Micros”, a menzionare la presenza di ebrei nel carcere di via Spalato a Udine. Don Grillo conosceva bene quella prigione, dato che vi fu recluso dai nazisti per ben nove mesi. Egli nomina gli ebrei incarcerati a Udine nella sua Relazione del Movimento e dell’Assistenza carceraria al Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) della provincia di Udine, documento custodito nell’Archivio Osoppo della Resistenza in Friuli (Aorf), C.Q. fasc. 26, doc. 2. Tali materiali di studio sono citati nel volume scritto da Luigi Raimondi Cominesi sul comandante partigiano “Tribuno” (pp. 105-106). Tra le altre don Grillo, descrivendo il modo di operare nazista, aggiunge che “persino con le partenze dei deportati (ne abbiamo i nominativi) si faceva partire una spia”.

Plinio Palmano ha scritto di essere stato recluso al carcere di via Spalato a Udine il 17 luglio 1944. È stato il maresciallo delle Waffen SS Kitzmüller in persona ad accompagnarlo in automobile, dopo l’arresto. Nel 1945 Kitzmüller è conosciuto come “quello che poco tempo dopo (perché non lo fece prima?) doveva compiere quel voltafaccia che permise la liberazione di molti compagni fra cui Verdi [ossia Candido Grassi], Mario ed altri” (Palmano p. 100). Sul finire della guerra non sono pochi i nazisti che fanno delle trattative coi partigiani, tentando di salvare la pelle, passando tranquillamente dall’altra parte. Tra i tedeschi carcerieri c’è il sergente Fritz, detto “Il boia”, per la sua malvagità (p. 105).

Come si stava nelle celle delle prigioni di via Spalato? Nel 1944, come spiega Palmano, nella cella da sei posti venivano ammucchiati 18-20 prigionieri, in attesa della deportazione ai campi di concentramento. Durante l’ora d’aria gli capita di vedere altri detenuti, come don Giuseppe Grillo, di Flaibano, l’avvocato Nimis, il commendator Calligaro, il signor Payer ed altri. I reclusi possono leggere i libri della biblioteca carceraria, oltre ai giornali che entrano clandestinamente. Il cappellano delle carceri è don Corrado Roiatti. Egli riesce a portare messaggi andando contro gli ordini delle Waffen SS (Palmano p. 103), ma si capisce che le guardie carcerarie italiane non sono così ossessive e pressanti. Celebrano la messa vari preti, oltre a don Roiatti, c’erano don Grillo e don Ennio D’Agostini, di Canale di Grivò. Oltre ai 98 fucilati nel 1943-1945 su ordine nazista nel carcere di Udine risultano, per Palmano, anche alcune eliminazioni di reclusi che figurano tra i “partiti per la Germania”.

Si ricorda che Liliana Picciotto menziona le squadre del gruppo dell’Aktion Reinhard, ossia gli “specialisti” dei campi della morte di Belzec, Soribòr e Treblinka. L’ufficio nazista di Udine è detto “R/3” (di Via S. Martino), con giurisdizione anche su Gorizia. Al suo comando troviamo Franz Stangl e poi Fritz Küttner e Arthur Walter. Detto reparto aveva il compito di ripulire il Litorale Adriatico da partigiani e ebrei, impadronendosi dei beni di questi ultimi (Picciotto p. 933). Di tali specialisti si è già scritto poco sopra ed uno di loro lo si ritrova nel paragrafo seguente fautore di un’efferata strage in un villaggio dell’entroterra fiumano.

Abbazia in una cartolina dei primi anni del ‘900

La strage di Lipa (Fiume), opera del tenente nazista Arthur Walter

Ecco il racconto del fiumano Rodolfo Decleva, diffuso nel web nel 2019, già pubblicato nel 2003 nella Rivista “Fiume” della Società Studi Fiumani. Il villaggio di Lipa nel 1944 era una frazione del Comune di Elsane, facente parte della Provincia del Carnaro, posta a metà strada tra Fiume e Trieste – racconta Decleva –. I partigiani di Tito pensavano ad un’azione dimostrativa contro il Presidio fascista, posto di guardia al bivio di Rupa, fissata per la domenica del 23 aprile e poi spostata alla domenica successiva 30 aprile 1944. Ciò in quanto questa data era il giorno che precedeva il Primo Maggio, Festa dei Lavoratori, e quindi l’attacco avrebbe avuto anche un grande significato politico e propagandistico. Appena cominciato l’attacco la domenica del 30 aprile e cadute su Rupa le prime granate, il Comandante del Presidio fascista Tenente Aurelio Pieszt manda un uomo a chiedere rinforzi e questi ferma per tale scopo una colonna di tedeschi che procede verso Fiume. La colonna – sono quattro camionette con una cinquantina di soldati – si ferma per decidere il da farsi e in quel momento cade su di essa una granata che provoca quattro morti. Immediatamente il comandante tedesco si collega con il suo Comando, che ha sede a Castelnuovo d’Istria – a circa 10 Km. da Rupa – e, quando dopo qualche ora arrivano altri rinforzi, procede contro il paese di Lipa che viene circondato. Ogni civile che si trova in strada e sui campi viene ammazzato. I militari entrano nelle case e le svuotano degli abitanti, che vengono concentrati in un edificio diroccato all’inizio del paese. Ad un tratto furono svuotate latte di benzina su di loro e venne dato fuoco per bruciarli vivi, e colpi di mitra per chi tentava di uscire da quell’inferno. Poi per nascondere l’eccidio usarono anche la dinamite ma i sopravvissuti, grazie al fatto che quel giorno non si trovavano in paese, poterono raccontare l’accaduto. Si calcola che dei 300 abitanti di Lipa solo una trentina di persone rimasero vive e furono i ragazzi che pascolavano il bestiame nei dintorni o i giovani che erano in bosco coi partigiani o quelle poche persone che – pur essendo domenica – erano ugualmente a Fiume per lavoro. Alcuni cognomi più ricorrenti delle 269 vittime: Africh, Bernetich, Calcich, Gabersnik, Iskra, Jaksetich, Juricich, Maglievaz, Puharich, Simcich (la famiglia più numerosa), Slosar, Smaila, Tomsich, Toncich, Toncinich e Valencich. Anton Toncinich era la persona più anziana, aveva 81 anni, mentre le tre bambine Bozilka Iskra, Carla Slosar, cuginetta di Decleva, e Miliza Valencich non avevano ancora compiuto il primo anno della loro vita.

Ivan Ivancich ebbe la fortuna di essere solo scalfito dalla pallottola e ferito all’orecchio. Egli si finse morto – restando immobile per ore accanto al cadavere della moglie – e salvando così la vita. Fu l’unico testimone dell’eccidio tedesco, che descrisse nei giorni seguenti a Scalniza, una località vicina a Lipa. Si diceva che per prudenza avesse addirittura soffocato con le catene il proprio cane di guardia per timore di non essere tradito.

Maria Africh riuscì a salvarsi grazie all’aiuto di un fascista – a lei sconosciuto – che quando uscì dalla sua casa situata ai margini del paese le salvò la vita facendola fuggire in direzione opposta alla morte. La presenza di quell’angelo in camicia nera prova che anche gli italiani furono della partita, ma con funzioni di “copertura”.

Il Comandante tedesco responsabile delle operazioni era il Tenente Arthur Walter, già protagonista della distruzione dei paesi di Sejane, Mune Grande e Mune Piccolo e della deportazione di quella popolazione civile.

Subito dopo la guerra a Lipa fu costruito un sobrio Cimitero monumentale nello stesso posto dove le vittime vennero concentrate e bruciate vive, e anche il paese è risorto sulle stesse case bruciate e diroccate per volontà dei superstiti della strage. Nel Museo storico di allora, che raccoglieva i poveri cimeli rinvenuti tra le macerie delle case diroccate, era esposto in una parete l’ingrandimento di una fotografia dove un militare tedesco, riconoscibile dall’elmetto, veniva ripreso mentre ricacciava nel fuoco un bambino che tentava di uscire dall’inferno. Si diceva che un altro militare tedesco avesse fotografato quella scena e avesse dato a sviluppare il rullino ad un fotografo di Villa del Nevoso e che questi – vedendo il soggetto – ne avesse fatto una copia per sé. Ora il Museo è stato modernizzato e questa gigantografia non è più esposta mentre i cognomi delle povere vittime sono stati cambiati con la grafia croata. Così si conclude la testimonianza di Rodolfo Decleva.

Documenti originali e digitali

Luigi Parisotto, Dossier Rudovitz, 2004-2019, ritagli di giornale, datt. e ms.

Rodolfo Decleva, messaggio del 28 aprile 2019 in Facebook, nel gruppo Un Fiume di Fiumani!

Cenni bibliografici

Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski (a cura di / uredili), Le vittime di nazionalità italiana di Fiume e dintorni (1939-1947) / Žrtve talijanske nacionalnosti u Rijeci i okolici (1939.-1947.), Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2002.

Ferruccio Fölkel, La Risiera di San Sabba. L’Olocausto dimenticato: Trieste e il Litorale Adriatico durante l’occupazione nazista, Milano, Bur, 2000.

Tristano Matta, Il lager di San Sabba. Dall’occupazione nazista al processo di Trieste, Beit, Trieste, 2012.

Plinio Palmano, “Al Grande Albergo di via Spalato”, «Avanti cul brum! Lunari di Titute Lalele pal 46», 1945.

Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), 1^ edizione 1991, Milano, Mursia, 2002.

Anna Pizzuti, Ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico, nel web dal febbraio 2016: http://www.annapizzuti.it/

Luigi Raimondi Cominesi, Modotti Mario ‘Tribuno’. Storia di un comandante partigiano, Udine, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, 2002.

Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Girolamo Jacobson e E. Varutti. Fotografie e disegni da collezioni private citate nell’articolo. Si ringrazia per la collaborazione alle ricerche Lucio Rossi di Palmanova. In copertina dell’articolo presente: Maria Iole Furlan, Truppe dell’Abteilung R in rastrellamento anti-partigiano, fotocopia e pastelli, cm 21 x 29,5, 2019; da una fotografia nel libro di T. Matta.

Pubblicato da

eliovarutti

Comitato Esecutivo dell'ANVGD di Udine

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