Basta con l’ANPI. Parola del patriota Igino Bertoldi, della Divisione Osoppo Friuli

Perché fare assieme le manifestazioni dell’Associazione Osoppo con l’ANPI? Se lo chiede Igino Bertoldi, detto Ercole, Bogomiro o Ragamir, nato a Tavagnacco (UD) il 29 agosto 1926. È stato un patriota delle Brigate Osoppo, di area cattolica, azionista, monarchica e laico-socialista. Poi Volontario della libertà, per il periodo 1945-1948, in contatto con gli angloamericani. Dal 1948 al 1954, Igino ha fatto parte dei ‘Volontari Difesa Confini Italiani VIII’, col nome di ‘Bogomiro’, oppure ‘Ragamir’. “Se non ci fossimo stati noi adesso qui ci sarebbe un’altra nazione – ripete come un ritornello – ora sono dall’Associazione Partigiani Osoppo-Friuli (APO) di Udine”. Non gli piacciono i “miscugli ANPI – APO”, come li chiama lui. È che l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI), secondo lui, è schierata con i comunisti e certi suoi dirigenti sono giustificazionisti dell’eccidio di Porzûs e negazionisti della tragedia delle foibe istriane.

Gli strali di Bogomiro sono contenuti in una lettera, del 18 ottobre 2023. Sostiene che ci sia “una grave responsabilità nei confronti di noi combattenti ed in particolare dei nostri martiri dell’eccidio di Porzûs e delle foibe trucidati per creare il terrore nella popolazione” (Lettera al Presidente dell’APO 2023 : 2).

Vero è che certi storici descrivono la soppressione di un partigiano osovano effettuata dai partigiani garibaldini comunisti di Tavagnacco genericamente in questo modo: “Stella Arrigo (Robur). Classe 1923. Partigiano 3^ Brg. Osoppo Friuli. Ucciso a Laipacco il 28.4.1945 da forze partigiane” (Angeli 1994, pp. 139, 167-168).

Per Igino Bertoldi l’ANPI filo-comunista è la discendente ideologica dei partigiani dei Gap, i Gruppi di Azione Patriottica, creati dal Partito comunista, che dal 7 febbraio 1945 a Porzûs, in Comune di Attimis (UD), oltre che al Bosco Romagno (Cividale del Friuli) e Drenchia passarono per le armi il Comando partigiano della Osoppo, che si opponeva alle annessioni territoriali jugoslave e non volle sottostare al comando del IX Corpus di Tito.

Gorizia, 11 giugno 2023 – È stato inaugurato il nuovo Lapidario con i nomi di altre 97 vittime, oltre alle già 600 deportazioni ricordate col monumento del 1985. Fotografia dell’ANVGD

Pochi studiosi spiegano che i titini, oltre ad occupare Fiume, Pola, Trieste e Gorizia, sono giunti sino a Monfalcone, Muggia, Romans d’Isonzo, Cividale del Friuli, Aquileia e Cervignano del Friuli, nella Bassa friulana, arrestando e ammazzando a destra e a manca. Una jeep di artificieri iugoslavi fu vista da partigiani della Osoppo sulle rive del Tagliamento, vicino ad un ponte. Come ha scritto Maria Grazia Ziberna a Gorizia “il periodo dell’occupazione titina, dal 2 maggio al 12 giugno 1945, vide la costituzione nella Venezia Giulia dello Slovensko Primorje, cioè il Litorale Sloveno, che aveva come capoluogo Trieste e comprendeva anche il circondario di Gorizia, diviso in sedici distretti e composto anche dai comuni di Cividale del Friuli, Tarvisio e Tarcento [in provincia di Udine], considerati slavofoni” (Ziberna 2013 : 83). Proprio da Gorizia e da Trieste ricevette l’ordine di allontanarsi, nel Natale del 1944, dai comandi del IX Corpus titino la Divisione Garibaldi Natisone, formata da comunisti italiani. Così si poteva meglio annettere quelle terre alla Jugoslavia a fine conflitto, magari fino al fiume Tagliamento. Solo quelli delle Brigate Osoppo rifiutarono l’ordine slavo, così furono sterminati i comandi alle maghe di Porzûs e nel Bosco Romagno (Moretti 1987 : 193). Altre eliminazioni avvennero a Premariacco (UD), come emerso nel 2016 dall’archivio di quel comune.

Durante i 40 giorni di occupazione titina a Gorizia avvennero molti arresti di italiani contrari al nuovo regime jugoslavo, con l’aiuto dei miliziani comunisti della Divisione Garibaldi. Sono riusciti sicuramente a salvarsi sei militari italiani nei primi giorni dell’occupazione del IX Corpus sloveno, avvenuta tra il 2 maggio e l’11 giugno 1945. È stato Sergio Pacori a nasconderli in una stanza di casa. “Quando sono arrivati i partigiani titini per controllare le abitazioni – ha detto Pacori – conoscendo lo sloveno, li ho intrattenuti e portati in giro per la casa, senza farli entrare, ovviamente, nel vano degli sbandati, finito il controllo, i titini se ne sono andati soddisfatti e io avevo salvato quei sei soldati italiani dalla deportazione in Jugoslavia”.

C’è poi la vicenda di Arrigo Secco, nato a Faedis nel 1916, nome di battaglia Secondo. È uno di quelli che riuscì a salvarsi dall’eccidio di Porzus, messo in atto dai partigiani comunisti garibaldini il 7 febbraio 1945, per uccidere 17 partigiani osovani, compresa una donna, con la scusa di essere “fascisti, monarchici, traditori”. A raccontare l’episodio, tramandato nelle vicende familiari è una sua discendente: Monica Secco, insegnante di matematica a Udine. “Zio Arrigo era sposato con la partigiana Vania – ha detto la professoressa Monica Secco – e scampò ai fatti di Porzus, poiché incaricato di recarsi in paese in missione, così mi hanno raccontato i famiglia”. Arrigo Secco morì a Udine nel 1968 e, per la sua attività nella Resistenza, fu insignito della medaglia di bronzo. Fin qui i ricordi familiari.

L’attività partigiana di Arrigo Secco, detto Secondo, è documentata pure in un libro di Giampaolo Gallo sulla Resistenza in Friuli. Prima ancora che nascessero le Brigate Osoppo Friuli (Bof), egli combatté dalla metà di settembre 1943 nel battaglione “Rosselli”, composto da un numero variabile di uomini che andava da 40 a 70 elementi. Fu il primo distaccamento “Giustizia e Libertà”, sorto ad opera del Partito d’Azione al comando di Carlo Comessatti, nome di battaglia Spartaco. Il vice-comandante era Alberto Cosattini, detto Cosimo, mentre il commissario politico era Fermo Solari, Somma.

Pensare che “i primi patrioti di Udine, dopo l’8 settembre 1943 – ha detto G.P.F. – si ritrovarono all’Osteria Alla Ghiacciaia, una sorta di tempio degli Irredentisti nella Grande guerra”. Avevano uno spirito di solidarietà cristiana. Erano anti-tedeschi e col vessillo del tricolore senza altri emblemi. Alcuni erano monarchici, perciò chiamati: traditori badogliani. Rifiutavano la divisa tedesca o della R.S.I. Non volevano egemonie di partigiani garibaldini rossi e nemmeno di partigiani comunisti sloveni di Tito che erano, secondo A. B.: “i più tremendi e sanguinari”. Nel Comune di Premariacco (UD), Roberto Trentin ha detto: “ricordo una frase di mio padre, quando si parlava della guerra, lui diceva: ‘Pôre dai partisans, mai dai todescs!’ [Paura dei partigiani sì, mai dei tedeschi!]”.

Igino Bertoldi, detto Ercole, Bogomiro o Ragamir. Fotografia di Elio Varutti 2023

Ritorniamo alle parole di Bogomiro. “Terminata la guerra, i compagni insediarono il tribunale del popolo – aggiunge nella Lettera citata – io ero lì, quando iniziarono la tosatura delle ragazze che operavano nella centrale telefonica. Solo le più ingenue si lasciarono tagliare i capelli [per spregio; NdR] perché le più astute alzarono la voce: ‘Non toccateci, altrimenti parleremo’. L’indomani mandarono a prelevare un semplice uomo che operava nella centrale telefonica a Tavagnacco e proveniva da Amaro. Cominciato l’interrogatorio, la giuria non trovò nessuna colpa. Lo consegnarono, in seguito, alle donne comuniste che, senza pietà lo torturarono. Si sentirono le urla fino a grandi distanze. La mattina dopo fu trovato [morto] in un fosso a Torreano di Martignacco, ma era già programmato un altro processo a danno di un mio coetaneo. I fratelli Clocchiatti, osovani, approfittando di Berto che era sceso da Subit [frazione di Attimis, UD] e alloggiato nelle scuole elementari di Tavagnacco, andarono a chiedere rinforzi per ottenere il rilascio dell’accusato, che avvenne immediatamente. Da tener presente che il grosso dei combattenti Diavoli Rossi, IX Corpus e Garibaldini erano trasferiti a Gorizia a infoibare” (Lettera al Presidente dell’APO 2023 : 1). Tra l’altro, sul tribunale del popolo di Udine ha scritto Fabio Verardo, nel 2018.

Si ricorda che gli arresti e le deportazioni di italiani a Gorizia seguirono l’occupazione militare della città per 40 giorni da parte dei partigiani del IX Corpus sloveno. Si toccò l’apice fra il 2 e il 20 maggio 1945 a guerra conclusa. Si contarono 332 scomparsi, dei quali 182 civili e 150 militari, nel goriziano, dato arrivato a oltre 665 persone a disamina storica conclusa.

Passata l’invasione titina di Gorizia “un amico mi riferì che Mario e Lino, due fratelli del GAP di Tavagnacco – ha ricordato Igino Bertoldi – ormai morti, ritornando dalle eliminazioni di Gorizia, furono intercettati dalla ronda inglese di confine, così spararono uccidendo due soldati britannici, che oggi riposano nel Cimitero del Commonwealth a Adegliacco di Tavagnacco. Gli uccisori poi emigrarono uno in Germania e l’altro nella Legione straniera per non farsi prendere. Erano tempi così. Chi non la pensasse come loro, era già finito. Mio padre Giuseppe, del 1894 e mancato nel 1972, era come me ed altri 80 paesani di Tavagnacco sulla lista di quelli da impiccare secondo quelli del GAP”.

Cimitero del Commonwealth a Adegliacco di Tavagnacco. Fotografia dal sito web del Comune di Tavagnacco

Da ultimo si ricorda che tra i martiri delle malghe di Porzûs c’è pure Guido Pasolini, fratello del noto poeta e regista Pier Paolo. In considerazione del modo “orrendo” con il quale venne finito, essendo stato solo ferito nella concitata iniziale fucilazione nel Bosco Romagno, c’è chi lo paragona alla morte di Cristo (Castenetto 2023 : 182). È per tale motivo che si è scelta per copertina l’opera di Sergio Pacori intitolata Crocifissione... C’era il piccone per il colpo di grazia sul cranio, oltre alle pugnalate e alla decapitazione (tecnica, quest’ultima, usata nell’eccidio di Stremiz di Faedis, UD, scoperto nel 1997). Ecco come avvenne, nel febbraio 1945, il massacro di certe vittime osovane ad opera dei gappisti comunisti agli ordini di Mario Toffanin, detto Giacca. Essi agirono “prima colpendole con il calcio del mitra, eppoi, quando caddero rantolando, infierendo sui corpi con i tacchi degli scarponi” (Cresta 1969 : 124). Il signor C. Fe. ha confermato: “Gli osovani uccisi al Bosco Romagno sono stati colpiti a randellate dai filo-titini, lo so perché ho parlato con chi nell’APO ha visto le fotografie dei loro corpi martoriati”.

Fonti orali – Le interviste (int.) sono state condotte a Udine da Elio Varutti con penna, taccuino e macchina fotografica, se non altrimenti indicato.

 – Igino Bertoldi, detto Ercole, Bogomiro o Ragamir, nato a Tavagnacco (UD) il 29 agosto 1926, int. del 21 novembre 2023 a Tavagnacco.

– A. B., San Giovanni al Natisone (UD), int. del 22 giugno 2015.

– C.  Fe., Codroipo (UD), int. al telefono del 27 novembre 2023.

– G.P.F., Gemona del Friuli 1938, int. a Udine del 7 luglio 2023.

– Monica Secco (Udine, 1963), int. del 31 maggio 2009 e 19 novembre 2014.

– Sergio Pacori, Gargaro (ex provincia di Gorizia, oggi Slovenia) 1933, esule a Gorizia, int. del 17 maggio 2023 ed e-mail del 22 luglio 2023.

– Roberto Trentin, Premariacco, comunicazione a Cividale del Friuli del 9 settembre 2017.

Documenti originali

Comune di Premariacco, Anpi, gioie e dolori, registro anagrafe con 60 nominativi di persone abbattute dai partigiani, perché ritenute spie o collaborazionisti. Vedi: “Le carte di Premariacco: ecco i nomi dei morti”, «Messaggero Veneto», 3 maggio 2016.

– Igino Bertoldi, Lettera al Presidente dell’APO, testo in WORD, Tavagnacco 18 ottobre 2023, pp. 2.

Collezioni private

– Giorgio Secco, Udine, fotografia, lettere e cartoline, ms.

Interventi di Igino Bertoldi già pubblicati nel web

– E. Varutti, Arduino di Fiume scampato ai fucili titini e varie trame jugoslave al confine orientale, 1943-1954, on line dal 30 aprile 2023 su evarutti.wixsite.com

– E. Varutti, 25 aprile 2023: Patrioti o Partigiani. Igino Bertoldi denuncia, on line dal 2 giugno 2023 su eliovarutti.blogspot.com.

– E. Varutti, Strage di Porzûs programmata e misteri jugoslavi al confine orientale italiano, on line dal giorno 11 luglio 2023 su varutti-elio3.webnode.it

– E. Varutti, Le fucilazioni facili dei partigiani comunisti in Friuli. L’osovano “Ercole” rivela, 1945, on line dal 31 luglio 2023 su evarutti.wixsite.com

– E. Varutti, I rapporti coi comunisti dei GAP per il patriota Igino Bertoldi, delle Brigate Osoppo Friuli, on line dal 20 settembre 2023 su evarutti.wixsite.com

Bibliografia

– Giannino Angeli, Viva l’Italia libera! (1943-1945). (Storia, memorie, testimonianze dei tempi di guerra nel Comune di Tavagnacco), Comune di Tavagnacco (UD), Comitato per il 50° anniversario della Liberazione, 1994.

– Roberto Castenetto, “Pier Paolo Pasolini e la morte del fratello Guido ‘Martire Cristo”, in: Roberto Volpetti, I Pasolini Guido e Pier Paolo resistenza e libertà, Udine, Associazione Partigiani Osoppo, 2023.

– Primo Cresta, Un partigiano dell’Osoppo al confine orientale, Udine, Del Bianco, 1969.

– Giampaolo Gallo, La Resistenza in Friuli 1943-1945, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine, 1988.

– Aldo Moretti, “La ‘questione nazionale’ del Goriziano nell’esperienza osovana (1943-1945)”, in: Aa. Vv., I cattolici isontini nel XX secolo. il Goriziano fra guerra, resistenza e ripresa democratica (1940-1947), Gorizia 1987, pp. 187-199.

– Fabio Verardo, I processi per collaborazionismo in Friuli. La Corte d’Assise Straordinaria di Udine (1945-1947), Milano, Franco Angeli, 2018.

– Maria Grazia Ziberna, Storia della Venezia Giulia da Gorizia all’Istria dalle origini ai nostri giorni, Gorizia, Lega nazionale, 2013.

Modifiche del 2.12.2023Saggio di: Elio Varutti, Docente di “Sociologia del ricordo. Esodo giuliano dalmata” – Università della Terza Età, Udine. Networking a cura di Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Bruno Bonetti, Sergio Satti (ANVGD di Udine), Enzo Faidutti e il professore Stefano Meroi. Per i suggerimenti bibliografici si ringrazia l’architetto Franco Pischiutti (ANVGD di Udine). Grazie a Giuseppe Bertoldi, figlio di Igino. Copertina: Sergio Pacori, Crocifissione con la Madonna e Maria di Cleofa, scultura con residuati bellici, cm 140 x 70,  peso 80 kg, 2011 ca. Collezione dell’Artista, che si ringrazia per la gentile concessione alla pubblicazione del 24 novembre 2023. Immagine qui sotto.

Fotografie dalle fonti citate. Adesioni al progetto: Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine, ANVGD di Arezzo. Per la cortese collaborazione riservata si ringraziano gli operatori e le direzioni delle seguenti biblioteche di Udine: Civica “Vincenzo Joppi”; Biblioteca del Seminario Arcivescovile “Pietro Bertolla”; Biblioteca dell’ANVGD; Biblioteca della Società Filologica Friulana e Biblioteca “Renato Del Din” dell’Associazione Partigiani Osoppo-Friuli; Biblioteca dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione.

Parlano le maestre Carmignani e Stoppielli, delle scuole elementari al Centro profughi di Laterina, 1956

Era tutto un modo diverso di fare scuola – ha raccontato la maestra Emilia Carmignani – avevo bambini dell’Istria, Fiume e Dalmazia, che parlavano in dialetto, se non in croato e ricordo che ho avuto degli scolari che parlavano arabo, poiché le loro famiglie erano state espulse dalla Libia, tutti destinati al Centro raccolta profughi di Laterina (Crp)”. Ricorda qualche collega di lavoro?

Certo, oltre alla maestra Giuliana Stoppielli, che è qui vicino a me, venuta a farmi visita – ha risposto – in questa giornata dei ricordi organizzata da Claudio Ausilio, esule di Fiume e delegato provinciale dell’Associazione degli esuli in Arezzo, poi c’era il Direttore didattico Scala e con grande affetto ricordo la maestra Pasqua Sponza Benvegnù e la sua famiglia di Rovigno”.

Nella foto qui sotto: la maestra Emilia Carmignani, a sinistra, suo marito, Impero Nocentini e la maestra Giuliana Stoppielli, collega della Carmignani al Crp di Laterina. Foto di Claudio Ausilio, 25 ottobre 2022.

Cosa pensa dei suoi scolari al Crp di Laterina? “Ho insegnato per tre anni scolastici nel Campo profughi – ha replicato la Carmignani – era dura, ma se la sono cavata, avevamo i banchi e pochi materiali scolastici, del resto ‘sti bambini con gli jugoslavi che c’avevano a che fare?”. Come si recava al lavoro fino nel Crp?

Con il treno da Montevarchi fino a Laterina stazione – ha aggiunto – poi con un pullman, oppure a piedi”.

Chiedo ora al signor Impero Nocentini di raccontare la sua storia. “Oltre che marito della maestra Emilia Carmignani – ha detto Nocentini – nella provincia di Arezzo ero l’unico titolare di azienda di fotografia a 16 anni”. È vero che faceva le fotografie nel Campo profughi?

Sì, per le prime comunioni, per le visite delle autorità civili o religiose – ha aggiunto Nocentini – ho lavorato dal 1954 al 1977; l’intestazione della mia ditta era: Foto Impero. Arrivavo con la motocicletta in Campo profughi, facevo un bel po’ di scatti fotografici, sviluppavo in studio e stampavo le fotografie, che portavo nel Crp dandole al signor Duca, titolare dello spaccio interno, così lui che conosceva molti profughi, provvedeva a consegnarle per una giusta somma. Poi mi sono diplomato in Ottica ad Arcetri (FI). Così dal 1978 al 2005 ero titolare del negozio di “Ottica Impero” a Terranuova Bracciolini (AR), poi è arrivata la pensione”.

Si ricorda che Giuliana Stoppielli, insegnante aretina della 3^ classe elementare nel Crp di Laterina, scrive nel suo registro nell’anno scolastico 1956-1957: “Sono piccoli uomini e brave donnine, che guardano già all’avvenire con una certa serietà e che, per la loro esperienza o per l’esperienza dei genitori, mostrano di valutare in pieno quel senso di italianità per il quale hanno accettato di vivere miseramente al campo”. Verso la metà di febbraio la classe deve fare lezione nel pomeriggio, poiché ci sono troppi iscritti nella scuola del Crp; bisogna fare i turni. A marzo molti pargoli si ammalano di morbillo. Poi si legge che: “Ancora una volta durante il mese di aprile 1957 abbiamo dovuto abbandonare la nostra aula, ci siamo trasferiti in quella del M.o [Maestro] Alfieri, poiché la nostra ha dovuto accogliere i bambini della signora Stifanich che stanno diventando molto numerosi” (p. 21).

Foto sotto: disegno e dettato di Emilia Ussich, scolara al Crp di Laterina, con la firma della maestra Pasqua Sponza in Benvegnù. Collezione Privata, Arezzo.

La classe 4^ elementare della maestra Carmignani

Dal Registro della classe 4^ traspaiono analoghi commenti a quelli riportati poco sopra. È la maestra Emilia Carmignani, di Terranuova Bracciolini (AR), a scrivere che i suoi alunni sono “pieni di entusiasmo e di buona volontà” (p. 17 del Registro). Hanno poche suppellettili scolastiche. Il libro arriva il 27 gennaio 1957 e “i ragazzi sono tanto contenti e vorrebbero studiarlo tutto insieme”. Il disagio vissuto dai profughi assiepati nelle baracche di Laterina, tuttavia, si fa sentire. Il 22 febbraio la maestra scrive di dolersi per l’assenza di un suo alunno, il cui babbo ubriacatosi, ha picchiato la moglie e, poi, ha tentato il suicidio; conclude così: “chiederò consiglio all’assistente sociale”. Il 15 marzo c’è il visto dell’Ispettrice Olga Raffaelli. Alla fine dell’anno sono 17 gli ammessi all’esame, dei quali 9 sono le femmine, in maggioranza; evidentemente vari scolari sono stati trasferiti.

L’elenco dei 23 alunni della classe 4^ risulta da due registri didattici, a causa dei nuovi arrivi e dei trasferimenti di alunni; si è effettuato inoltre un confronto con l’Elenco alfabetico profughi giuliani e con altre fonti per l’assegnazione della località dal nominativo di Basso in poi, considerata la carenza di dati nei registri scolastici. Ecco la classe 4^: Brachitta Stella, Tripoli, trasferita a Perugia; Benci Maria Luisa, Pola, trasferita a Roma; Bertoldi Benito, Asmara (Eritrea), trasferito; Cernaz Virgilio, Dignano d’Istria (PL), trasferito a Cremona; Minissale Mario, Neresine (PL), trasferito a Firenze; Moisei Giuseppe, Visinada (PL), trasferito a Novara; Sauer Mirella, Pola, trasferita a Serravalle Sesia (VC); Scocco Liliana, Pola, trasferita a Ravenna; Trillo Domenico, Tripoli, trasferito a Monteverdi Marittimo (PI); Trillo Giovanni, Tripoli, trasferito a Monteverdi Marittimo (PI); Vescovi Maria, Pola, trasferita a Genova; Vescovi Paolo, Pola, trasferito a Genova; Basso Claudio, Pola; Creglia Gian Pietro, Barbana (PL) trasferito a Roma; Priletti Anna Maria, s.l.; Ghini Antonio, s.l., ma cognome di Capodistria; Marcetta Bruna, Fiume, trasferita a Bergamo; Brenco Nadia, trasferita a Firenze (cognome di Pola); Bulessi Claudio, Pola; Blecich Liliana, Fiume; Isera Albino, Sanvincenti (PL); Valle Graziella, Castelnuovo d’Istria (FM); Visintini Santina, Torre di Parenzo (PL). Come si può notare la maggioranza degli scolari è della provincia di Pola (65,2%), seguiti da quelli di Fiume (13%), di Tripoli (13%) ed altro.

Qui sotto: Dettato e disegno di Violetta Canaletti, scolara al Crp di Laterina, Collezione privata, Arezzo.

Commenti di Claudio Ausilio

Durante l’intervista collettiva – ha detto Claudio Ausilio – voglio segnalare che, fra i tanti loro ricordi emersi alle maestre Carmignani e Stoppielli, ce n’era uno molto affettuoso per la maestra Sponza Pasqua in Benvegnù con la sua famiglia, che ho portato a conoscenza a Pier Michele Benvegnù, suo figlio che abita a Firenze e che è rimasto piacevolmente colpito. Poi mi dispiace molto che l’archivio fotografico di Impero Nocentini non sia stato conservato, sarebbe stato assai importante per la storia del Crp di Laterina”. C’è qualcos’altro da aggiungere?

Certo, il signor Giovanni Trillo, già scolaro in Crp, che oggi vive in provincia di Pisa, come da suo desiderio – ha concluso Claudio Ausilio – ha tenuto un lungo colloquio telefonicamente con la sua maestra degli anni ‘50 Emilia Carmignani, è stato molto commovente assistere a quell’incontro tra uno scolaro oggi ultrasettantenne e la sua insegnante del tempo”.

Fonti orali – L’intervista telefonica collettiva alle seguenti persone si è svolta il 25 ottobre 2022 con contatti preparatori di Claudio Ausilio. Ringrazio tutti gli interessati.

– Claudio Ausilio, Fiume 1948, esule a Montevarchi (AR), messaggi e-mail del 26 ottobre 2022.

– Emilia Carmignami, Terranuova Bracciolini (AR) 1935, vive a Loro Ciuffenna (AR).

– Impero Luigi Nocentini, San Giustino Valdarno, frazione di Loro Ciuffenna (AR) 1938.

– Giuliana Stoppielli, Terranuova Bracciolini (AR) 1933.

Fonti archivistiche

Premesso che potrebbero esserci alcuni errori materiali di scrittura, ecco i testi della ricerca presente; i materiali sono stati raccolti da Claudio Ausilio, dell’ANVGD di Arezzo.

– Comune di Laterina (AR), Elenco alfabetico profughi giuliani, 1949-1961, ms.

Presso l’Istituto Comprensivo “Francesco Mochi” di Levane (AR) da Claudio Ausilio sono stati consultati i seguenti documenti:

– Provveditorato agli studi di Arezzo, Comune di Laterina, Circolo Didattico di Montevarchi, Frazione C.R.P., Scuola Elementare Laterina C.R.P., Registro della classe 4^ mista, insegnante Emilia Carmignani, anno scolastico 1956-1957, pp. 23+10, stampato e ms.

– Provveditorato agli studi di Arezzo, Comune di Laterina, Scuole elementari, Circolo Didattico di Montevarchi, Scuola Elementare C.R.P., Registro della classe 3^ mista, insegnante Giuliana Stoppielli, anno scolastico [1956-1957], pp. 30, stampato e ms.

Collezioni familiari

  • Claudio Ausilio e Archivio ANVGD di Arezzo, fotografie.
  • Emilia Carmignani, Loro Ciuffenna (AR), fotografia.
  • Collezione privata, Arezzo, disegni e temi di scolari.

Foto sopra: Emilia Carmignani e Impero Nocentini negli anni ’50. Collezione di Emilia Carmignani.

Bibliografia

– GIULIANA PESCA – SERENA DOMENICI – GIOVANNI RUGGIERO, Tracce d’esilio. Il C.R.P. di Laterina 1948-1963. Tra esuli istriano-giuliano-dalmati, rimpatriati e profuganze d’Africa, Città di Castello (PG), Biblioteca del Centro Studi “Mario Pancrazi”, Edizioni NuovaPrhomos, 2021.

– ELIO VARUTTI, La patria perduta. Vita quotidiana e testimonianze sul Centro raccolta profughi Giuliano Dalmati di Laterina 1946-1963, Firenze, Aska, 2021. Dal mese di ottobre 2022 anche in formato e-book.

Ringraziamenti

La redazione del blog per l’articolo presente è riconoscente al signor Claudio Ausilio, esule da Fiume a Montevarchi (AR), socio dell’ANVGD provinciale di Arezzo, per aver fornito con la consueta cortesia i materiali per la ricerca presso l’Archivio del Comune di Laterina e di Levane (AR), andando a incrementare una tradizionale e collaudata collaborazione con l’ANVGD di Udine. Oltre alle fonti orali, si ringraziano gli operatori e le autorità del Comune di Laterina e dell’Istituto Comprensivo “Francesco Mochi” di Levane (AR), per la collaborazione riservata all’indagine storica.

Testi di Elio Varutti. Ricerche di Claudio Ausilio e E. Varutti. Networking a cura di Girolamo Jacobson, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio, Marco Birin. Copertina: Il seminatore, disegno di Renata Blasich, scolara al Crp di Laterina, 1957, Collezione privata, Arezzo. Altre fotografie da collezioni citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede via Aquileia, 29 – primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine.  – orario: da lunedì a venerdì ore 9,30-12,30.  Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. Vicepresidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Sito web:  https://anvgdud.it/

Arrivo dei titini a Fiume senza colpo ferire, 2-3 maggio 1945, di Rodolfo Decleva

Come finisce la seconda guerra mondiale a Fiume? Quante vittime ci sono l’ultimo giorno prima dell’armistizio? Proponiamo in lettura un originale contributo scritto di Rodolfo Decleva, da lui intitolato: 2 – 3 maggio 1945. L’occupazione jugoslava di Fiume. Testimonianza depositata in data 01 Ottobre 2020 presso la Società di Studi Fiumani in Roma, Via A. Cippico 10. La redazione del blog presente ringrazia vivamente l’Autore per la cortese concessione alla pubblicazione. Allo stesso tempo ci permettiamo di aggiungere qualche frase di contesto degli ultimi giorni di una città italiana bombardata dall’aviazione angloamericana, dall’artiglieria titina e minata nel porto dai nazisti , dove non c’è più cibo, né collegamenti ferroviari, postali o d’altro genere.

Ecco le parole dal Diario dell’ingegnere Carlo Alessandro Conighi “3.V [1945] Giornate grandemente burrascose. La città / è stata giorno e notte continuamente intronata [meglio: rintronata] / di poderosi scoppi di mine, di cannonate. Parecchie / granate caddero in città e alcune fecero vittime. / Di faccia a casa nostra dalla parte del cortile fu colpita / una testa di camino. Di tutto ciò non si conosce la / provenienza [neanche si immaginavano certi fiumani che i partigiani di Tito sparassero da Tersatto coi cannoni sulla città, come riportato nelle interviste sull’esodo da Fiume curate dallo scrivente in altri articoli, NdR] e chi siano realmente i combattenti. / Pare che durante la scorsa notte tutti i tedeschi se ne sieno andati. Noi di famiglia stiamo tutti / bene, tranne Amalia molto debole. Io personalmente sono stato e sono perfettamente / tranquillo. Divenni fatalista, quasi indifferente a tutto, / né mi lascio impressionare, lasciando correre e / dicendomi: sarà quel che sarà. Pensiamo sempre ai / lontani, incerti di quando e di come ne avremo notizie…” (Collezione famiglia Conighi, esule da Fiume a Udine). Autore del diario è l’ingegnere Carlo Alessandro Conighi, nato a Trieste il 26 febbraio 1853, costruttore di Fiume e Abbazia, morto esule a Udine il 5 agosto 1950.

Il porto di Fiume, anni ’20 ca., bombardato dagli angloamericani 1944-’45 e minato dai nazisti dalla fine di aprile 1945; Collezione Aldo Tardivelli

Così ha scritto Rodolfo Decleva nel 2020. “In questi giorni [settembre 2020, NdR] sono avvenute a Fiume-Rijeka delle manifestazioni contrarie alla iniziativa presa dall’Amministrazione cittadina di installare in cima al Grattacielo della ex Piazza Regina Elena una grande Stella Rossa formata da 2800 pezzi di vetro di colore rosso rappresentanti 2.800 Caduti Partigiani nella Battaglia per la Liberazione di Fiume. Io sottoscritto Dr. Rodolfo DECLEVA nato a Fiume l’8 Gennaio 1929, residente in quell’epoca a Fiume, in Calle del Barbacane 19, rendo la seguente testimonianza resa ‘Pour servir et valoir ce que de droit’. – – –

Dal 15 aprile al 3 maggio 1945 – Dalla metà di Aprile, ai bombardamenti aerei su Fiume si erano aggiunti lanci isolati di schrapnell [proiettile cavo, riempito di sfere di piombo, o di acciaio, e munito di una carica di scoppio collegata ad una spoletta a tempo] da parte dei Partigiani sulla nostra città che provenivano dalle alture di Tersatto. Perciò la gente si era portata i materassi nel rifugio antiaereo di Via Roma a 120 metri dal confine con Sussak e la Fiumera e vi dormiva. La nostra famiglia  continuò a dormire in casa essendo distanti dal rifugio solo un quarantina di passi. Di giorno la vita in città – occupata da tedeschi e repubblichini – era normale.

Ancora in Aprile io prendevo regolarmente il treno alle ore 7 del mattino per andare al Lager di Mattuglie per firmare la presenza e poi recarmi a piedi a Giordani dove – essendo state chiuse le scuole – ero stato precettato dalla Organizzazione TODT per la costruzione di Bunker sotto la direzione di un militare Gruppfuehrer austriaco. Nella mia squadra di 10 elementi faceva parte anche il signor Stabellini, Bidello della Scuola di Avviamento Commerciale. Rientravamo a Fiume con il treno delle ore 17.

Fiume 1945 – Bruno Tardivelli precettato al lavoro per la Todt. Collezione Aldo Tardivelli

Una settimana prima della fine del mese di Aprile, i tedeschi mi ordinarono di recarmi a lavorare ai Bunker a Santa Caterina, sulle alture sopra Fiume dove erano posizionate le difese italo-tedesche che rispondevano alle provocazioni partigiane che ho descritto sopra, dove già lavorava il mio amico Massimo Gustincich. I schrapnel continuavano a cadere ma ogni tanto uno e non a pioggia, e l’impressione era che si fosse ormai giunti alla fine. Perciò mio padre non mi lasciò andare al lavoro e quindi non feci nemmeno una giornata di lavoro a Santa Caterina. Per paura che i tedeschi mi venissero a cercare, mi fece vivere e dormire nella nostra cantina (fondo) alla quale si entrava dalla Calle dei Facchini n. 9.

Fu proprio in quei giorni – una settimana prima della fine – che i tedeschi fecero brillare le mine che avevano predisposto nei Moli e nella Diga per la distruzione del bacino portuale che richiese 4-5 giornate. Inspiegabilmente i Partigiani di Sussak restarono insensibili a tanto sfacelo senza intervenire.

Affermo che in città non c’era panico. Alle 7,30 del giorno 3 Maggio 1945 venni svegliato da una vicina – la Signora Giuditta Barbalich, la cui famiglia aderiva al movimento partigiano – abitante in Calle del Barbacane n. 23, ultima casa di questa Calle prima della Via Roma – che gridò: “Siamo liberi! I tedeschi sono andati via.”

Così è finita la guerra a Fiume con i Partigiani fermi e passivi a Sussak. Va dato atto all’Esercito jugoslavo, nato dalla lotta partigiana iniziata sin dal 1941, di aver sconfitto gli Eserciti italiano e tedesco da Belgrado a Trieste. Su «La Vedetta d’Italia», quotidiano di Fiume, seguivamo attraverso le poche righe riservate alle brutte notizie della guerra le battaglie ed i ripiegamenti delle nostre truppe da Sebenico, e poi da Bihac’ e Knin già nel Dicembre 1944.

L’ordine ai tedeschi era di difendere ogni palmo di terra per tenere lontana la guerra dalla Germania in attesa che gli scienziati producessero l’arma segreta – dopo le micidiali V1, V2 e V3 che stavano piovendo su Londra – dalla quale sarebbero cambiate le sorti del conflitto mondiale. Perciò ci vollero 4 mesi di combattimenti accaniti dell’Esercito di Tito per guadagnare i 200 km. di distanza tra Fiume e Bihac’, per cui i 2800 Caduti dichiarati recentemente in Croazia possono riguardare questo percorso raggiungendo, e insediandosi a Sussak verso la fine di Aprile.

Ma è ormai generalmente noto che la conquista di Fiume fu rinviata e il grosso dell’Armata si allargò passando a nord della nostra  città perché l’obbiettivo finale era diventato Trieste e il territorio sino all’Isonzo allo scopo di realizzare il fatto compiuto dell’occupazione militare e quindi ottenere l’assegnazione alla Jugoslavia del territorio occupato, in sede di Trattato di Pace. E in effetti con questo espediente l’Esercito di Tito vinse la storica ‘Corsa per Trieste’ giungendo in città il giorno 1° Maggio 1945 con un giorno di anticipo sui Neozelandesi fermi in attesa di ordini a Monfalcone.

A Fiume l’esercito partigiano entrò solo dopo che i tedeschi l’abbandonarono nella notte tra il 2-3 Maggio. La presero senza sparare un colpo, senza un morto, senza entusiasmi e nella freddezza del popolo fiumano.

Entrarono in città passando il Ponte sull’Eneo verso le ore 9,30 del 3 Maggio arrestando soldati italiani che stavano prendendo possesso della città. Personalmente assistetti all’arresto di tre Finanzieri di cui un Ufficiale, che erano in Via Roma a guardia di due mine anticarro lasciate dai tedeschi sulla strada a 20 metri dell’imboccatura del rifugio vis-à-vis la Caserma dei Carabinieri, oggi ancora in piedi. Probabilmente i nostri facevano parte del Gruppo di Don Luigi Polano, purtroppo bloccato dagli eventi in Italia, per cui non poté personalmente guidare il ritorno alla normalità.

In conclusione ripeto: – Nell’ultima settimana di Aprile fino al 3 Maggio 1945 la vita  a Fiume scorreva nella consueta normalità di stato di guerra con il timore di eventuali bombardamenti aerei, qualche isolato schrapnel che cadesse su qualche tetto, e il rumore delle Batterie di Santa Caterina e Drenova che rispondevano ai colpi delle postazioni partigiane a Sussak e Tersatto. ll mio amico Massimo Gustincich ha lavorato al Bunker Streiffen 3/B della TODT a Santa Caterina regolarmente fino a tutto il 29 Aprile 1945, situato nel dirupo a strapiombo sull’Eneo in fronte ai partigiani posizionati nella collina di Tersatto. Nel giorno 30 Aprile, il Gruppo di cui faceva parte venne spostato in zona meno esposta. Quindi, fino ancora due giorni dall’occupazione titina egli si recava a piedi dal Centro della città sino a Santa Caterina senza incontrare problemi o pericoli durante il tragitto.

Il porto saltava a pezzi tra l’indifferenza della gente in strada, preoccupata solo di non esserne    colpita, e consapevole che si era ormai alla fine. – La popolazione dormiva nei rifugi antiaerei o nelle abitazioni. – Non ci furono assolutamente sparatorie strada per strada o battaglie casa per casa, etc. da provocare morti né italiani né jugoslavi. – Alle 8 del mattino del 3 Maggio 1945 nella città di Fiume c’erano soldati italiani imboscati e Forze di polizia italiane al lavoro in servizio d’ordine.

– I Partigiani che da giorni erano stabiliti a Sussak, passarono il Ponte sull’Eneo verso le 9,30 a piedi entrando nel Centro della città dalla Via Roma e dalla Via Fiumara come già descritto in narrativa. Così occuparono la città. In fede. F.to  Dr. Rodolfo Decleva. Fatto in Genova, il 1° Ottobre 2020”.

Cartolina con borgo di Sussak; Collezione Aldo Tardivelli

Nel 1944, Fiume tra guerra e teatri – Sono le parole di Aldo Tardivelli quelle che seguono. È un altro fiumano patoco. Aldo Tardivelli, nato a Fiume il 20 settembre 1925, è deceduto a Genova il 19 novembre 2020 a causa del Corona virus. Ecco il suo racconto, scritto agli inizi del 2000. “La passione per la recitazione aveva spinto mio fratello Bruno ad allestire, insieme con altri amici, una compagnia di recitazione ‘filodrammatica’, come aveva fatto nostro padre, quando frequentava il circolo degli impiegati la Filodrammatica del Dopolavoro Ferroviario, con gran successo. ‘Lo Smemorato. Le Baruffe Chioggiotte. I Gatti Selvatici, L’Antenato. I fallimenti del curatore, Tre Rusteghi, Il medico e la pazza’. Commedie brillanti e di successo nel Teatro Fenice e Teatro Giuseppe Verdi nel 1944.

Fiume, 15.6.1944 – Il medico e la pazza. Compagnia teatrale filodrammatica. Collezione Aldo Tardivelli

Non c’erano grandi occasioni mondane in quel tempo. Se per caso suonava durante la recita l’allarme, correvano tutti nel rifugio, e poi…il successo era stato garantito, ma fra questi ‘bravi e novelli teatranti’ c’erano alcuni militanti e simpatizzanti collegati politicamente alle cellule clandestine del ‘Movimento Antifascista di Liberazione’. Alla fine la maggioranza di questi attori hanno optato e partirono per l’Italia nel 1947-48. In corso di un rastrellamento, durante la notte, le ‘forze di sicurezza naziste delle SS’ avevano arrestato gran parte della compagnia teatrale e condotta, con la forza, nelle carceri di Via Roma, mentre altri che non erano presenti in casa erano riusciti a sfuggire alla cattura.

Su tutti i detenuti del carcere persistevano per i diversi capi d’imputazione, l’incubo di una ìmorte certa’. Il dramma di questi condannati, non era diverso da quello di diventare, anche, ‘ostaggi di se stessi’ in seguito a qualche inutile attentato od omicidio di uno o più soldati Tedeschi, commesso dai loro ‘Compagni di lotta’.

Con uno stratagemma Aldo Tardivelli, tuttavia, riuscì a far liberare il fratello Bruno, che si salvò dalle grinfie naziste. Col 3 maggio 1945 la città fu invasa dagli iugoslavi ed iniziarono gli arresti di italiani da parte dei titini.

Fonti originali – Rodolfo Decleva, 2 – 3 maggio 1945, L’occupazione jugoslava di Fiume. Testimonianza depositata in data 1° Ottobre 2020 presso la Società di Studi Fiumani in Roma, Via A. Cippico 10, testo in Word, pp. 2; Collezione Elio Varutti, ANVGD di Udine.

Dalla Collezione di Claudio Ausilio, esule da Fiume a Montevarchi, ANVGD di Arezzo: – Aldo Tardivelli, Una vita in pericolo (1944-1945), testo in Word, s.d. [2003?] pagg. 15. – A. Tardivelli, Fiume, 3 maggio 1945, testo in Word, s.d. [2003?] pp. 12.

Collezione famiglia Conighi, esule da Fiume a Udine, ms.

Collezione Aldo Tardivelli, esule da Fiume a Genova, cartoline e testi in Word

Sitologia – E. Varutti, Diario di Carlo Conighi, Fiume aprile-maggio 1945, on line dal 7 giugno 2016.

Ricerca di Claudio Ausilio (ANVGD di Arezzo) e Elio Varutti (ANVGD di Udine). Autore principale: Rodolfo Decleva. Altri testi e Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio, Rodolfo Decleva e Sebastiano Pio Zucchiatti. Copertina: Cartolina del Ponte sull’Eneo tra Fiume e Sussak/Sussa, anni ‘40; Collezione Aldo Tardivelli. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia, 29 – I piano, c/o ACLI – 33100 Udine; orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Memorial Aldo Tardivelli, esuli scaraventati nei Campi profughi

Aldo Tardivelli, nato a Fiume il 20 settembre 1925, è deceduto a Genova il 19 novembre 2020 a causa del Corona virus. Con queste righe vogliamo ricordarlo, per la passione con cui scriveva vari interventi sulla sua città e poi li inviava ai suoi corrispondenti di posta elettronica. Siccome nel suo esodo è passato al Centro smistamento profughi di Udine, per finire al Centro Raccolta profughi (Crp) di Laterina (AR), poi a Genova, ecco le sue parole, a volte pittoresche. Omaggio a un novantacinquenne fiumano! La redazione del blog.

Udine! Centro Smistamento Profughi – Il giorno seguente siamo arrivati nella città di Udine. All’arrivo nel  Centro di Smistamento Profughi le famiglie erano divise: gli uomini ed i ragazzi dormivano separati dalle donne e dai fanciulli; durante il giorno però i mariti raggiungevano le mogli ed i figli nella loro camerata e vi rimanevano tutto il giorno, consumandovi pure i pasti distribuiti da un cuoco obeso, scherzoso e prepotente che ci trattava come se il cibo che ci versava con un mestolo nella gavetta militare fosse di sua proprietà e ce lo concedeva soltanto grazie al suo buon cuore.

Ebbi l’impressione che fummo trattati con sufficienza come appartenenti ad una casta di paria e dipendessimo in tutto soltanto dalla buona grazia di coloro che ci sorvegliavano ed accudivano ai servizi. Non ci sognavamo di reclamare, ma tanto nessuno ci avrebbe dato retta, dovevamo esprimere solo gratitudine e sottomissione, ogni cosa ci doveva andare bene, altrimenti potevamo tornarcene al luogo dal quale eravamo venuti: in Jugoslavia.

Finale Ligure, Natale 2011 – Aldo e la figlia Adriana Tardivelli. Collezione Tardivelli, Genova

Era sera, con un istriano, già lì da qualche giorno, andai a gironzolare nei paraggi dell’edificio che ci ospitava e doveva essere una ex Casa del Fascio o della GIL [Era della GIL]. Mi fecero impressione l’opulenza, le abbaglianti luci con cui erano illuminati i negozi e le vetrine stracolme di ogni ben di dio. Ci soffermammo davanti ad una salumeria e rimasi incantato davanti all’abbondanza e alla varietà dei generi alimentari che vi erano esposti; in vita mia non ricordavo di avere mai visto un simile spettacolo: la dovizia delle merci esposte mi fece pensare che avevamo ben ragione di scappare da Fiume, l’Italia mi appariva il Paradiso della Prosperità (ed eravamo appena nel 1948) rimpiangevo che la mia Graziella non fosse con me, la porterò per prima cosa davanti a questa vetrina di salumiere per farla stupire.

Seguii il mio accompagnatore nel negozio; che profumo sconosciuto di leccornie prelibate c’era lì dentro, mi sembrava di sognare. Si vedeva da lontano un miglio che eravamo dei profughi per il vestito dimesso e l’aria spaesata. Ritornammo commentando alle nostre brande, aprii a metà le rosette, ci misi dentro la mortadella anche per Graziella, mi leccai le dita unte e sentimmo per la prima volta il sapore dell’Italia: buono, appetitoso, invitante, gustoso, indimenticabile.

Per noi che volessimo rimanere nella Nostra Italia si sarebbe presentato e iniziato un vero dramma. Fummo convocati nell’ufficio da quelli che gestivano questo traffico umano sperando che ci mandassero in qualche Campo Profughi vicino alla città di Genova. Insistemmo e supplicammo a calde lacrime affinché la nostra destinazione fosse la Liguria, poiché nella città di Genova (come avevamo ripetutamente spiegato), risiedevano diversi parenti di mio padre che avrebbero potuto darci degli aiuti sicuri. Pensavamo sinceramente che avrebbero tenuto conto delle nostre suppliche, ma non vollero sentire ragioni, furono irremovibili, ci trattarono come ‘stranieri’ e ci spedirono… in un paesino al centro della Bella terra di Toscana – Laterina, Arezzo, distante 320 km. da Genova.

Aldo Tardivelli e Graziella Superina. Anniversario delle Nozze d’oro, 1997

Al Crp di Laterina – Mi caddero le braccia davanti a tale mentalità burocratica, ma dovemmo sottostare, altrimenti non avremmo avuto dove alloggiare e ricevere un po’ di cibo; in tasca avevo i pochissimi soldi che mi avevano dato: poche decine di ‘AmLire’ che avevo stabilito di non spendere ulteriormente, dopo essermi tolto la voglia della mortadella, se non per motivi gravi. Fummo muniti di biglietto ferroviario speciale riservato ai profughi e di un ‘foglio di via’ munito del quale potevo entrare nel Campo Profughi di Laterina con l’obbligo di presentarmi entro tre giorni dal nostro arrivo alla Questura dalla quale dovevamo essere registrati.

Un tale che s’aggirava per il Campo Profughi di Udine mi soffiò all’orecchio che ci avrebbero preso le impronte digitali: e fu proprio così, andavamo proprio bene; in Italia ci prendevano per individui poco raccomandabili e ci stavano schedando. Non ne fui risentito, ormai ero abituato a subire ogni sorta di vessazioni morali, una più una meno non mi facevano né caldo né freddo, alla peggiore delle ipotesi dall’Italia ce ne saremmo andati altrove a casa del diavolo, l’importante era essere usciti dalla Jugoslavia di Tito, peggio di lì non saremmo stati da nessuna parte!

Durante il viaggio, infatti, avevo scambiato alcuni discorsi con i viaggiatori che mi facevano delle domande strane sul mio stato, ma ebbi l’impressione che molti non comprendessero il motivo per cui ce ne stavamo andando da Fiume, dove c’era Tito, a loro dire, un benefattore del popolo e nemico dei fascisti: almeno fosse venuto pure in Italia! Qualcuno, senza mezzi termini, espresse il pensiero che da Fiume ci cacciavano perché eravamo fascisti e lì ormai comandava il popolo. Ma tutti noi avevamo poco da stare allegri, il Comunismo sarebbe presto giunto a liberare anche l’Italia. Ero disorientato, non capivano nulla questi italiani! Per noi derelitti che più di tutti avevamo pagato il prezzo della sconfitta ed avevamo cercato rifugio nel grembo della Madre Patria, questa ci stava trattando da perfida matrigna, quali ospiti indesiderati.

Col passare degli anni ho visto che l’Italia ha relegato i suoi figli più sfortunati, quelli che presso di lei hanno cercato rifugio ed hanno pagato per tutti lo scotto della sconfitta, in modo disumano e vergognoso. Io vorrei chiedere a quei signori, nostri connazionali e, ahimè, anche concittadini che dissertano sulla ‘scelta giusta’ di coloro che hanno scelto la via dell’esilio e quelli che invece non se ne sono andati dalla Nostra Terra, di coloro che dicono di condividere o non condividere la scelta che la Nostra Gente ha fatto, se avessero il coraggio di provare quelle esperienze almeno per un giorno solo.

A questo stato ci aveva condotto l’Esodo dalla nostra Terra Natia, al termine della guerra. Non c’è stata per noi Esuli la Liberazione, non abbiamo nulla da festeggiare noi perché non l’abbiamo vissuta, ne siamo stati defraudati. Noi siamo passati da un’oppressione ad un’altra oppressione e da questa ad un totale smarrimento della nostra identità. Questo fu solo l’inizio dell’avventura italiana che scaraventò gli esuli nei Campi Profughi. Uno scenario spoglio di vita nei campi governati da dirigenti ladri che gli amministravano. Nei fatti non ci furono atti di protesta, ma di rassegnazione e sconforto per quanto stava accadendo, mentre le vie dell’infelicità erano già state percorse tutte!

 Tutti fummo sgomenti nel vedere la nostra nuova dimora – ha scritto Aldo – Un vero e proprio campo di concentramento che dopo lo sgombero degli ultimi reclusi aveva cambiato solo nome. Ambienti freddi e umidi. Dove malandate coperte appese ai fili nascondevano pudicamente l’intimità. Appena giunti a destinazione fummo circondati da centinaia di persone che provenivano dalla terra Istriana e che per tornare ad essere cittadini italiani, per rimanere fedeli alla cultura italiana e alla sua gente, avevano abbandonato tutto. Ma il resto del paese non aveva compreso il motivo per cui avevamo lasciato le nostre città”.

Un contributo importante per l’integrazione dei profughi all’interno della comunità lo ha fornito anche la chiesa di Laterina, in particolare don Bruno Bernini, complice in prima persona della realizzazione di una scuola pubblica nel territorio.  Quando venne effettuato un corso per muratori e carpentieri, il parroco propose, sulla base di un contributo statale, una sorta di esperienza pratica da far fare agli apprendisti: è nata così la scuola elementare di Casanova.

Fiume, Corso e Torre civica; collez. Tardivelli, Genova

Fonte orale e digitale – Aldo Tardivelli (Fiume, 20 settembre 1925 – Genova, 19 novembre 2020), int. telefonica e per e-mail nel periodo 20-24 gennaio 2017, con la collaborazione di Claudio Ausilio, dell’ANVGD di Arezzo.

Cenni bibliografici, del web e collezioni private

Genny Pasquino, I ricordi e le testimonianze dei profughi istriani, accolti da un filo spinato, on line su http://www.valdarnopost.it dall’8.2.2012.

Aldo Tardivelli, Un filo spinato… non ancora rimosso, testo videoscritto in Word, s.d. [ma: post 2004?], p. 1-7, Collez. Varutti.

Aldo Tardivelli, …, «La Voce di Fiume», dicembre 2015.

A. Tardivelli, Era un tempo di guerra, 1944 – 1945. Bombardieri anglo americani sulla città di Fiume, dattiloscritto in formato Word, 30 giugno 2018, Collez. Varutti.

E. Varutti, Esodo disgraziato dei Tardivelli, da Fiume a Laterina 1948, pubblicato su eliovarutti.blogspot.com  il 22 gennaio 2017.

Progetto di Claudio Ausilio. Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e Elio Varutti. Collezione famiglia Tardivelli, Genova. Copertina: cartolina di Fiume. Lettore: Claudio Ausilio. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine, – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

I diritti e le ortiche. Esuli dai Campi profughi ai Villaggi per rifugiati di Firenze, 1945-2009

L’esodo degli Sklemba di Fiume, nel 1949, segue la tipica trafila degli italiani che esercitavano il diritto d’opzione nelle province invase dagli iugoslavi (Fiume, Pola e Zara). Antonio Sklemba, classe 1892 e sua moglie Giuseppina Zadnik, nata a Fiume nel 1911, sin dal 5 luglio 1949 ottengono il passaporto provvisorio di sola andata n. 19.672 (lui) e n. 19.673 (lei). Per andarsene dalla loro amata città del Quarnaro, tuttavia, aspettano il parto del secondo figlio. Poi quando il passaporto è aggiornato per ambedue i figli (Guglielmo, del 1948 e Giuliano venuto alla luce proprio del 1949), la famiglia intera se ne va. Passano il confine a Sežana il 12 ottobre 1949, nella Zona B del Territorio Libero di Trieste (TLT) posta sotto il controllo dei carri armati iugoslavi. Alcuni tank con la stella rossa sono di fabbricazione USA, forniti ai partigiani nel 1944. Gli Sklemba varcano la linea confinaria della Zona A del TLT, controllata dagli angloamericani fino al 1954. Varcano così la Cortina di ferro, entrando nel mondo libero, come si diceva al tempo della guerra fredda.

Passaporto di Antonio Sklemba di Fiume

Viene affibbiato loro l’appellativo di “Displaced Persons” (rifugiati) il 13 ottobre 1949, al Centro profughi controllato dai militari USA. È il “Displaced Persons Centre A.M.G.” (Centro per rifugiati dell’Allied Military Government, del Governo Militare Alleato. Ii timbro sul passaporto (vedi foto a fianco) è per il solo viaggio di rimpatrio, come recita il modulo stampato del Consolato Italiano di Zagabria, firmato dal cancelliere A. Zaruba. Col treno raggiungono Udine, dove passano al Centro smistamento profughi, diretto dal dott. Roberto Crimì. Era il più grosso d’Italia, come diceva l’ingegnere Silvio Cattalini, esule da Zara e presidente dell’ANVGD di Udine dal 1972 al 2017. Poi gli Sklemba sono destinati al Centro raccolta profughi (Crp) di Brescia, a quello di Bogliaco (BS) per circa 4 anni e mezzo e trasferiti al Crp di Chiari (BS). Arrivano a Firenze il giorno 8 settembre 1954 in via della Scala per due anni fino al novembre 1956, poi in via Nicola di Tolentino, nelle case del Villaggio profughi.

Retro del passaporto di Antonio Sklemba
  1. Perfin ne le Cappelle Medicee, perché no jera posto

“Me ricordo del Campo profughi de Firenze – ha raccontato Miranda Brussich, esule da Fiume – un vecio fabricado vodo e adibido ai profughi; jera i divisori coi cartoni e le sorelle Maria, Giusepina e Clementina Zanetti le xe stade così per qualche anno. I aveva messo profughi italiani de l’Istria perfin ne le Cappelle Medicee, perché no jera posto. Nei primi anni Cinquanta jera tanti profughi a Firenze, mi li gò visti, perché da Forlì, dove con mio marito e i fioi ierimo esuli da Fiume, andavo a trovar le mie zie Zanetti de Pola”. Si precisa che il Campo profughi istriani, fiumani e dalmati a Firenze era presso la ex Manifattura Tabacchi, compresa tra la via Guelfa, via Panicale e via Taddea, nell’area dell’antico Monastero di Sant’Orsola. Il Campo Profughi operò dal 1945 al 1968, quando alla fine accoglieva anche sfrattati o senza tetto. Come Miranda Brussich ha ricordato i cartoni del Campo Profughi fiorentino di Via Guelfa, anche Myriam Andreatini-Sfilli, nel suo Flash di una giovinezza vissuta tra i cartoni, Alcione, 2000, sin dal titolo del libro accenna ai cartoni che fungevano da parete divisoria nel Centro raccolta profughi di Via Guelfa a Firenze, nel vecchio Monastero di Sant’Orsola.

Su «L’Arena di Pola» del 1948 si legge che nel Campo Profughi di Firenze è stata festeggiata la ricorrenza di San Nicolò, per far contenti i bambini. Qualche altra notizia sul Campo Profughi di Firenze mi è giunta dalla signora Marisa Roman, nata a Parenzo nel 1929. “Una mia amica nata a Trieste, che era Chiara Battigelli in Baldasseroni – ha detto Marisa Roman – mi ha parlato del Campo Profughi di Firenze”. Come mai? “La Battigelli conosceva troppo bene Firenze – racconta la Roman – e, saputo che i profughi giuliano dalmati erano stati accolti nei locali della Manifattura Tabacchi, andò a cercare notizie tra piazza Indipendenza e piazza San Lorenzo, trovando solo il figlio del custode di quel luogo”. Quando fu fatta tale ricerca? “Erano gli anni 1990-1995 – è la risposta della Roman – e in Italia c’erano molti profughi dal Kossovo, perché c’erano le guerre balcaniche, allora la domanda al figlio del custode fu del tipo ‘Ci sono stati dei profughi qui alla Manifattura di Firenze?’ e la risposta fu negativa”. La Battigelli non si arrese, e gli parlò degli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, negli anni 1946-1956. “Allora il figlio del custode disse: ‘Ah, gli istriani e fiumani, ma quelli non erano profughi, erano brave persone, erano educati e hanno lasciato tutto pulito”. Mai una risposta così poteva essere più soddisfacente per il mondo degli esuli.

Profughi. Fornello elettrico della famiglia Sklemba

La documentazione conservata presso l’Archivio della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Ufficio Zone di Confine (d’ora in poi PCM, Archivio UZC), studiato da Raoul Pupo – contiene importanti riferimenti al trasferimento dei lavoratori dalla Manifattura Tabacchi di Pola ad altre Manifatture attive sul territorio italiano. Personale che – come si legge in una nota di servizio redatta dal direttore generale dei Monopoli di Stato il 15 gennaio 1947 e inviata al Ministero dell’Interno – sarà trasferito “verso le fabbriche di Firenze, Lucca e Sestri Ponente in forti nuclei, e verso altri opifici in gruppi di piccola entità”. Si tratta – continua il documento – di circa 2.000 unità, delle quali “580 confluiranno a Firenze, 400 a Lucca e 420 a Sestri Ponente”, mentre le altre saranno “inviate in centri minori” (PCM, Archivio UZC).

Non tutti sanno che il Crp di Firenze, situato nell’antico monastero di Sant’Orsola, in Via Guelfa, fu adattato nell’Ottocento a Manifattura Tabacchi. “Siamo venuti via da Pola il 3 marzo 1947 – ha raccontato la signora Liana Di Giorgi Sossi – ero una bambina e ci hanno imbarcato sul piroscafo Toscana e dopo ci hanno sbarcato a Venezia, per collocarci alla Caserma Sanguinetti per una settimana, accuditi dai militari. Anche quello era un Centro raccolta profughi. Potrei dire che alla Manifattura Tabacchi di Pola saranno rimasti due o tre dipendenti, tutti gli altri sono fuggiti oltre il Territorio Libero di Trieste, nel resto d’Italia, come Firenze, Lucca, Genova”.

Poi cosa è accaduto? “Ci hanno inviato in treno fino a Firenze – replica la testimone, nata a Pola nel 1937 – presso la vecchia Manifattura Tabacchi, adattata a Centro raccolta profughi, in Via Guelfa, dove siamo rimasti per cinque anni. È lì che c’erano molte operaie sfollate dipendenti della Manifattura Tabacchi di Pola e trasferite in quella nuova Manifattura Tabacchi di Firenze, che stava alle Cascine e che fu costruita nel 1941”. Com’era la vita al CRP di Via Guelfa a Firenze? “Diciamo che prima di tutto abbiamo subito una certa forma di razzismo – ha spiegato la signora Liana, con un’affascinante pronuncia toscanaccia – da parte di certi fiorentini contro noi profughi, poi ricordo che eravamo tanti ragazzini e si giocava nel cortile. Prima avevamo le pareti fatte con lo spago e le coperte gettate sopra, per avere un po’ di intimità familiare – ha aggiunto – poi i falegnami della nuova Manifattura Tabacchi fiorentina ci hanno costruito con delle assi di legno e dei cartoni, una serie di separé e così ogni famiglia aveva il suo box. Ricordo anche che, mentre stavo al Campo profughi di Via Guelfa, ho fatto la prima comunione nella Chiesa di Santa Reparata: è stato bello. Però noi lì eravamo isolati. Eravamo in Campo profughi e uscivamo solo per andare a scuola oppure a lavorare”.

Dalla stampa di Firenze del 1956; collez. Sklemba
  1. La Relazione Sklemba sui Crp e sul Villaggio giuliano

Per i paragrafi seguenti ci si avvale di una relazione sui Campi profughi e sui Villaggi per esuli sorti a Firenze, scritta da Guglielmo Sklemba nel 2012 con curioso titolo in lingua inglese. “Fino alla prima metà degli anni cinquanta a Firenze città – ha scritto Sklemba – esistevano tre campi profughi: uno in via della Scala (ex caserma del Genio), uno in via Guelfa e l’altro in via della Pergola. Questi centri di accoglienza rappresentavano una detenzione ingiusta e pesante per coloro che erano obbligati a subirla e, nel contempo, costituivano un problema sociale, un insulto e anche un onere per la città d’arte che era costretta a sopportarli e in parte a supportarli”.

In concomitanza con la Legge 137/52, che prevedeva la costruzione a carico dello Stato di alloggi popolari per i profughi, il Comune di Firenze, essendo sindaco Giorgio La Pira, contribuì alla sistemazione degli esuli, mettendo a disposizione un terreno ai margini della città, in località Le Gore a Rifredi. Nel triennio 1954-’56 su quest’area vennero realizzati dodici fabbricati per un totale di 282 appartamenti che furono assegnati per due terzi ai profughi giuliano dalmati e per un terzo a quelli provenienti dalla Grecia ed altre zone. La gestione venne affidata all’IACP.

Gli appartamenti, alcuni corredati di terrazza, ma tutti sprovvisti di cantina, riscaldamento e bidet, erano compresi tra 43 e 49 metri quadrati, e solo 12 di essi raggiungevano i 70 mq. “Quello di chi scrive – ha aggiunto Sklemba – misurava 49 mq oltre la terrazza. Nel 1956 ospitava il papà, la mamma e tre fratellini, due maschi e una femmina. Questa situazione era più o meno uguale per tutte le altre famiglie”. Il Villaggio profughi, realizzato dall’Impresa Pontello in subappalto all’insegna della massima economicità, era privo di strade, costruite in seguito e delle opere di urbanizzazione, realizzate addirittura solo agli inizi del 2000.

Firenze, le case per i profughi in via Nicola da Tolentino

Per i profughi queste case novelle rappresentavano l’inizio di una nuova vita. Era finita l’epoca delle caserme dimesse. Erano cessati gli orrori della coabitazione in ex-conventi, dove i divisori che separavano le diverse famiglie erano cartoni o coperte. Dopo sette anni di campi profughi si tornava finalmente sotto un tetto, tra pareti fatte di mattoni. Era terminato il grigio inverno e poteva iniziare la bella stagione di diritti acquisiti, ma dietro l’angolo troveranno le ortiche.

“Fin dall’inizio i profughi giuliani vennero etichettati come ‘fascisti’ – ha spiegato Sklemba – mentre quelli greci erano più semplicemente dei  ‘contrabbandieri’. L’atteggiamento da parte della dirigenza dell’IACP nei confronti dei profughi assegnatari è stato negativo, a giudizio della gente. Nel 1959 ci furono le prime aperture per la cessione in proprietà degli alloggi, in quanto la L. 137/52 non ne contemplava la vendita. Tre anni dopo arrivava finalmente la Legge 231/62, che in modo chiaro e organico regolamentava queste cessioni a prezzi di particolare favore, ma tale legislazione non fu nota a tutti.

  1. Esuli a Firenze dagli anni ’60 al nuovo millennio

Nel 1965 solo un quinto dei profughi assegnatari, presentò al Demanio le domande entro i termini con l’appoggio di un Comitato, che contattò poche famiglie. Nel 1972 essi riuscirono a stipulare l’atto di acquisto provocando una frattura all’interno del villaggio.

In seguito all’entrata in vigore della Legge 513/77 l’ATER modificò i canoni di locazione in spregio alla L. 137/52, che invece regolava questo particolare tipo di alloggi. La popolazione in rivolta si riunì in un altro Comitato, tutelando dei propri diritti. Fu  incaricato un legale e vinse due cause consecutive: sentenza del Giudice Conciliatore n. 78 del 25/03/80 e sentenza del Pretore n. 1226 del 23/05/81. L’ATER, tuttavia, continuò ad inviare dei bollettini aumentati; ciò avvenne dopo aver perduto il ricorso in Cassazione: sentenza n. 419 del 09/04/88. Nel frattempo altre 35 famiglie acquistarono dal Demanio l’alloggio ai sensi della L. 513/77, legge che però con i profughi non ci azzeccava proprio per nulla, ha commentato Sklemba.

Nel 1991 sorge l’Associazione Regionale Toscana Profughi Italiani. Costituita da elementi assai diversi tra loro, persegue il medesimo obbiettivo: l’acquisto dal Demanio dello Stato dell’alloggio assegnato al nucleo familiare. In seguito alla emanazione della L. 560/93, il cui comma 24 riprendeva quanto già previsto ampiamente dalla L. 231/62, per prudenza già nella prima metà del 1994 tutti i profughi inquilini avevano presentato le domande di acquisto che scadevano il 15/01/1995. Il clima era frenetico perché i contratti sembravano imminenti e per stipularli bisognava essere in regola con i pagamenti dei canoni scaduti. Per quieto vivere molta gente aveva accettato l’azione dell’ATER, in modo da essere più tranquilla senza che sorgessero problemi interpretativi di sorta in fase di acquisto.

Nel 1995 l’Ufficio Patrimonio Abitativo ha dato il via nel villaggio all’atto di forza di “requisizione immediata di alloggi di proprietà ATER e temporanea assegnazione” a nuclei non profughi. Con tale blitz circa 80 appartamenti sono passati in proprietà comunale, mentre morivano i profughi anziani.

Da geometra professionista Sklemba, nel 1996, aveva fornito al Demanio una planimetria con il piano tipo completo di tutto il villaggio e il costo di ogni alloggio calcolato sulla base della gara di appalto, aggiudicata da Pontello. Sembrava fatta. Invece c’erano altri problemi burocratici.

“Dopo un anno di insistenze fatte a titolo personale ogni volta che andavo in Catasto – ha aggiunto Sklemba nel suo memoriale – e anche in modo ufficiale attraverso l’Associazione Regionale Toscana Profughi Italiani della quale per lungo tempo sono stato il vice presidente e la penna storica, finalmente nel maggio 1997 il Demanio si decideva ad inviare il prezzo di acquisto ai vari assegnatari”. Nella comunicazione veniva specificato che il contratto si sarebbe effettuato solo dopo che il Comune avesse trasferito al Demanio la proprietà del terreno. Mancava il completamento degli interventi urbanistici.

In questo frangente l’Associazione Profughi Italiani tempestava di lettere tutte le parti che potevano avere voce in capitolo, dal sindaco Primicerio al Prefetto, dal Demanio al Parlamento Europeo, dal Direttore del Comune di Firenze alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dalla Direzione Centrale del Demanio alla Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. Tutti, ad esclusione del sindaco, hanno sempre risposto. Infine è stato scritto direttamente all’Ufficio Legale del Comune. In luogo di una generica risposta è arrivata all’Associazione la comunicazione delle due delibere di cessione dei terreni sia di via Nicola da Tolentino che di via Magellano.

Firenze, Villaggio profughi, il degrado di qualche casa nei primi anni 2000; collez. Sklemba

“L’Associazione Profughi Italiani, sulla scorta di alcune informazioni assunte presso il Demanio e con l’aiuto di persone dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia – ha aggiunto Sklemba – ha predisposto e compilato velocemente oltre 180 specifici modelli con i dati relativi agli associati e tutti i profughi si sono precipitati a versare il prezzo richiesto presso la Filiale della Banca d’Italia” era il 1998. A quel punto il Comune, pressato dal Demanio, ha dovuto cedere intanto il terreno di via Magellano con atto stipulato il 15/12/1998. La nota di maggior rilievo del 2000 consiste nel definitivo atto di cessione del terreno di via Nicola da Tolentino al Demanio.

Nel 2001-2003 c’è stato il raggiungimento dell’obiettivo, dopo faticose battaglie: gran parte dei profughi ebbero la casa. Di fatto c’è stata la cessazione dell’attività dell’Associazione Regionale Toscana Profughi Italiani e la sparizione di tutti i suoi soci. Verso il 2009, tuttavia, il Comune è riuscito a farsi dare dal Demanio dello Stato gli ultimi 79 alloggi rimasti, impedendo ai profughi, o ai loro congiunti, di partecipare ai relativi bandi di assegnazione in edifici pur bisognosi di straordinaria manutenzione.

Documenti originali – Guglielmo Sklemba, Julian & Greek Tribes – Florence Reservation. Appunti di viaggio, testo in Word, Firenze, 21 marzo 2012, pp. 6.

Dichiarazione di profugo per Antonio Sklemba dal Centro profughi di Firenze, 1954. Coll. Sklemba

Fonti orali e digitali. Ringrazio e ricordo le persone che hanno concesso l’intervista (int.), svoltasi a Udine a cura di Elio Varutti con penna, taccuino e macchina fotografica, se non altrimenti indicato: -Miranda Brussich vedova Conighi (Pola 1919 – Ferrara 2013), int. del 28 dicembre 2008 a Ferrara con Daniela Conighi. – Silvio Cattalini (Zara 1927 – Udine 2017), int. del 22 gennaio 2004 e 10 febbraio 2016. – Liana Di Giorgi Sossi, Pola 1937, esule a Rignano sull’Arno (FI), int. telef. del 16 gennaio 2017. – Marisa Roman, Parenzo 1929, int. del 23 dicembre 2014.Guglielmo Sklemba, Fiume 1948, vive a Firenze, int. telefonica del 18 settembre 2020.

Collezione privata – Guglielmo Sklemba, esule da Fiume a Firenze, fotografie, stampati e documenti ms.

Bibliografia e sitologia – Myriam Andreatini-Sfilli, Flash di una giovinezza vissuta tra i cartoni, Alcione, 2000.

«L’Arena di Pola», n. 5, IV, 15 aprile 1948.

Elena Commessatti, “Villaggio Metallico e altre storie a Udine, città dell’accoglienza”, «Messaggero Veneto», 30 gennaio 2011, pag. 4; poi in: E. Comessatti, Udine Genius Loci, Udine, Forum, 2013, pp. 98-101.

Raoul Pupo, L’Ufficio per le zone di confine e la Venezia Giulia: filoni di ricerca, «Qualestoria», XXXVIII, 2, dicembre 2010, pp. 57-63.

E. Varutti, Il Campo Profughi di Via Pradamano e l’Associazionismo giuliano dalmata a Udine. Ricerca storico sociologica tra la gente del quartiere e degli adriatici dell’esodo, 1945-2007, Udine, Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Comitato Provinciale di Udine, 2007.

E. Varutti, Quella vecchia zia di Pola. Un racconto sull’Istria e sull’esodo a Firenze, on line dal 9 novembre 2014.

E. Varutti, Da Pola al Centro Profughi di Firenze, con pareti di cartone, on line dal 17 gennaio 2017.

E. Varutti, Tabacchine istriane esuli a Firenze, conferenza a Udine, on line dal 21 febbraio 2017.

Progetto e ricerche di C. Ausilio, dell’ ANVGD di Arezzo e E. Varutti, dell’ANVGD di Udine. Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio e Enrico Modotti. Copertina: Stoviglie (o gamele) per i profughi; Collezione Guglielmo Sklemba, Firenze. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Mi scampo e i titini me spara drio, Trieste 1950

Fugge da Verteneglio a 11 anni Antonio Zappador, esule oggi a Carpi (MO). “C’era una manifestazione titina, nel 1950, e a me capita di strappare un pezzo di una gigantografia di Tito – ha detto Zappador – allora elementi dell’Ozna comunicano a mio padre che mi avrebbero dovuto mettere all’Istituto di rieducazione di Maribor, un vero lager per bambini”. Cosa succede, invece?

“Succede che un medico compiacente fa un certificato da cui risulta – è la risposta – che io sarei dovuto andare a Trieste per farmi operare d’ernia, accompagnato dai miei genitori, che ottengono a Verteneglio il  relativo permesso per Trieste, dovendo però rientrare subito in Jugoslavia”. Ha funzionato tutto bene?

“No, perché il certificato non era firmato – ha spiegato Zappador – poiché il medico temeva ritorsioni e al momento di partire col pullman per Trieste, mio padre è agitato per la paura dei titini, così gli viene un infarto; lo lasciamo a terra, poi si riprenderà, mentre la corriera parte. Al confine si scende per i controlli doganali, ma quando la comitiva si muove verso la sbarra degli angloamericani, io resto a piedi”. Ma, quand’è che le sparano addosso?

Villaggio San Marco, Fossoli di Carpi (MO); da sinistra: Varutti, Lugli, Riccò e Zappador. Sullo sfondo comitiva dell’ANVGD di Udine in visita al Campo profughi. Fotografia di Paolo De Luise

“Quando dalla guardiola della dogana esce un miliziano agitando il foglio di ricovero – ha aggiunto il testimone – poiché si era accorto che non era valido, urlava in slavo, ma io non capivo. Uno sconosciuto che aveva compreso tutto mi spinge verso il valico dicendomi: ‘Scampa picio’. Allora io corro, mentre i titini mi sparano dietro, sentivo le pallottole che mi fischiavano accanto. Quando arrivo al confine del Territorio Libero di Trieste mi aspetta a braccia aperte un soldatone nero-americano”. Così si è salvato la pelle, vero signor Zappador?

“Avevo più paura del soldatone che delle pallottole titine – ha replicato – dato che non avevo mai visto una persona di colore, tuttavia corro fra le braccia del militare Usa che mi salva la vita. Ho avuto gli incubi per anni di quel fatto e ho sentito sempre i fischi di quelle pallottole nei sogni angosciosi. So che qualche mese dopo la mia fuga, un altro ragazzo  tentò la sortita, ma fu colpito da due proiettili”. Quindi cosa è accaduto?

Villaggio San Marco di Fossoli – La casa dei Zappador dal 1954 al 1970 circa. Foto di E. Varutti

“Passate le ore a Trieste, mia madre doveva rientrare in Jugoslavia – ha detto Zappador – non sapeva a chi affidarmi alla stazione delle corriere, per fortuna si aggirava lì don Teseo Furlani, che mi prende con sé, portandomi al Villaggio del Fanciullo di Villa Opicina, sopra Trieste. In quel Centro profughi imparai il mestiere di compositore tipografico, determinante per il resto della mia vita”. Così sono finite le sorprese?

“Veramente no, perché a Villa Opicina incontro mio fratello Giorgio – ha specificato – scappato dalla Jugo mesi prima e dato per mitragliato e  morto dall’Ozna. Ai miei genitori quelli dell’Ozna dissero che il suo cadavere era rimasto all’aperto, come esempio. Poi siamo arrivati al Villaggio San Marco di Fossoli, dove l’accoglienza fu molto critica, perché ci sputavano dove si camminava e ci dicevano ‘trestèin fassisti’. Mi ricordo che giravo con un motorino, negli anni ’60, e vicino al Villaggio mi aspettavano quattro energumeni per picchiarmi, un’altra volta mi sono azzuffato con uno di loro e poi però siamo diventati amici”.

La testimonianza di Antonio Zappador è contenuta anche in un recente volume pubblicato sotto gli auspici del Comitato Provinciale di Modena dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD). Ne è autore Roberto Riccò, un amico degli esuli istriani (Riccò, pagg. 169-171; vedi in Bibliografia).

Un’altra scena sconvolgente cui assiste Antonio Zappador a Verteneglio si riferisce agli sgherri dell’Ozna, il servizio segreto di Tito che, dal 1946, cambia nome. “Mi è capitato di vedere due agenti dell’Ozna – ha riferito Zappador – accoltellare a morte un compaesano, così in mezzo alla strada, come se niente fosse, poi mio padre ha fatto di tutto per tenermi nascosto dato che ero un testimone scomodo”. Lo scrive pure in un verso di una sua recente raccolta poetica: “Ho rivisto la casa della mia fanciullezza, / pietre senza anima, / profanata dagli uomini dei pugnali” (Zappador, pag. 83).

Cartolina di fine ‘900; foto dal web

La “Odeljenje za Zaštitu Naroda” (Ozna) è la sigla che significa: Dipartimento per la Sicurezza del Popolo. C’è una seconda versione che così spiega la sigla: “Oddelek za zaščito naroda”; letteralmente: Dipartimento per la protezione del popolo. Era parte dei servizi segreti militari iugoslavi. L’organizzazione titina era dotata di carceri proprie e attuava requisizioni, vessazioni ed addirittura ha programmato le eliminazioni di italiani dell’Istria. La pianificazione delle uccisioni, per pulizia etnica, è stata descritta da Orietta Moscarda Oblak nel 2013, a pp. 57-58 di un suo saggio. Agenti dei servizi segreti di Tito negli anni ‘50 si infiltravano perfino nei Centri raccolta profughi (CRP) sparsi in Italia per carpire notizie sui rifugiati e sull’Organizzazione di Gladio, sorta per contrastare un’eventuale invasione sovietica del Friuli Venezia Giulia.

Dal 1946 al 1991 la polizia segreta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia diviene “Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti” o Udba; letteralmente: “Amministrazione Sicurezza Statale”, ma la gente continua a chiamarla Ozna.

Ecco una testimonianza riguardo a un agente dell’Ozna (o Udba)  in missione a Gorizia e a Grado (GO) negli anni Sessanta. “Quel de l’Ozna che sequestrava la roba ai italiani de Fasana se ciamava Nino M., deto Nini – ha riferito la signora Armida Villio – e un bel giorno nei anni sesanta el capita veramente a Grado nela mia nuova famiglia, gavevo sposado proprio un dei fradei Chersin, scampadi in barca nel 1948 con due barche a motor e i ze finidi fin sul delta del Po. ‘Sto omo de l’Ozna el ne domanda soldi per andare a Gorizia e dopo per tornar a casa in Jugo, el se gà butado in zenocio e dopo el gà chiesto scusa per i sequestri fati, così la mia famiglia commossa ghe gà dà el capoto, vestiti e i soldi per andar a Gorizia e per tornar a Fasana”.

Cartolina dei primi anni ’50; immagine dal web

I servizi segreti jugoslavi organizzano vari attentati a Arnaldo Harzarich, il maresciallo dei pompieri di Pola, che per primo andò a esumare le salme di italiani uccisi nelle foibe dai titini dal 1943. Cosa accadde nell’attentato dell’Udba a Harzarich a Bressanone? “Un tizio uscì da un cespuglio vicino a casa – ha detto Sara Harzarich, nipote del maresciallo Harzarich – sparando con una pistola, ma lo zio Arnaldo si salvò perché si era girato verso casa, dato che la moglie Stefania lo aveva richiamato per un ultimo bacio. Ecco, fu quel bacio a salvargli la vita ancora una volta”.

Un esule da Pirano, Paolo De Luise ha riferito che suo padre pescatore “nel 1953 giunge a Trieste, in seguito anche il resto della famiglia riesce a venir via”. Nel 1954 i nonni sono inviati a Udine, dove funzionava il Centro smistamento profughi. “Andarono ad abitare in un altro Campo di Udine – ha spiegato De Luise – in certe grandi baracche di lamiera, calde d’estate e fredde d’inverno”. Poi i De Luise si spostarono al Villaggio San Marco di Fossoli pur di stare tutti assieme (RICCÒ, pag. 161).

“Mio nonno Antonio Vegliani, nato nel 1911 a Umago e la nonna Palmira Gambo, classe 1920 – ha detto Monica Lugli – hanno vissuto al Villaggio San Marco e nonno Antonio era alla Manifattura Tabacchi”. Pure loro, come i vari profughi del Villaggio negli anni ’50 hanno passato momenti di mala accoglienza, come gli sputi o l’epiteto di “triestèin fassisti”. In seguito i comportamenti si acquietarono e diversi profughi si sono integrati mediante matrimonio con gli autoctoni, di tradizionale tendenza politica comunista.

Villaggio San Marco di Fossoli, 23.2.2020 – Zappador fa da cicerone alla comitiva dell’ANVGD di Udine in visita al Campo, oltre all’intervento professionale e assai competente della guida turistica Francesca. Foto di E. Varutti

Fonti orali

Interviste a cura di Elio Varutti con penna, taccuino e macchina fotografica. Si ringraziano i seguenti signori per il racconto esclusivo della loro esperienza, nonostante provochi ancor oggi dolore e disorientamento.

  • Paolo De Luise, Pirano 1949, int. del 23 febbraio 2020 a Fossoli di Carpi (MO).
  • Sara Harzarich, Pola 1931, int. del 13 febbraio 2015 a Pagnacco (UD).
  • Monica Lugli, Carpi (MO), int. del 23 febbraio 2020 a Fossoli di Carpi (MO).
  • Armida Villio, Fasana (Pola) 1933, int. a Grado (GO) del 30 agosto 2018; si ringrazia, per la collaborazione riservata, la signora Alda Devescovi, nata a Rovigno ed esule a Grado.
  • Antonio Zappador, Verteneglio 1939, int. del 23 febbraio 2020 a Fossoli di Carpi (MO).

Riferimenti bibliografici

Orietta Moscarda Oblak, “La presa del potere in Istria e in Jugoslavia. Il ruolo dell’OZNA”, «Quaderni del Centro Ricerche Storiche Rovigno», vol. XXIV, 2013, pp. 29-61.

Giacomo Pacini, Le altre Gladio: la lotta segreta anticomunista in Italia 1943-1991, Torino, Einaudi, 2014.

Roberto Riccò, Quegli strani italiani del Villaggio San Marco di Fossoli, «Terra e identità», n. 89, Modena, 2019.

Paolo Venanzi, Conflitto di spie e terroristi a Fiume e nella Venezia Giulia, Milano, L’Esule, 1982.

Antonio Zappador, 29.200 giorni. Una vita piena di tutto… di più, Carpi (MO), stampato in proprio, 2019.

Sitologia

E. Varutti, Esodo istriano di Armida da Fasana con la paura, i sequestri e le bugie dei titini, on line dal 31 agosto 2018.

E. Varutti, Visita a Fossoli di Carpi, Campo di concentramento e Villaggio San Marco di esuli istriani, on line dal 25 febbraio 2020.

Servizio giornalistico di Elio Varutti. Ricerche e Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Copertina: Antonio Zappador fotografato al Villaggio San Marco di Fossoli da E. Varutti. Fotografie di Elio Varutti, Paolo De Luise e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Shoah a Udine sud. Campi di concentramento e dicerie

Giorgio Linda, presidente dell’Associazione Italia-Israele, col tema: “Shoah: verità e luoghi comuni” ha smontato le dicerie negazioniste contro gli ebrei. In tal senso il relatore ha voluto mettere in chiaro come non sia vero che l’odio verso gli ebrei sia stato messo in atto solo da Hitler e dai nazisti, dato che importanti filosofi come Hegel, Kant, Schopenhauer e Nietzsche hanno scritto frasi decisamente antisemite. Tra le altre ha citato il libro di Daniel Goldhagen intitolato I volonterosi carnefici di Hitler.  Riguardo ai soldati tedeschi, infermiere incluse, tale autore sostiene che occorra “demolire punto per punto l’idea che essi contribuissero al genocidio perché costretti a farlo, per acritica  obbedienza, per le pressioni sociali che subivano, per favorire la propria promozione personale, perché non comprendevano ciò che facevano e la presunta frammentazione delle operazioni faceva sì che non se ne sentissero responsabili”. Linda ha, infine, sfatato altri luoghi comuni dell’antisemitismo tra gli applausi degli oltre cento presenti.

Udine 23.1.2020, Oratorio Zanin, Giorgio Linda, a sinistra, Elio Varutti e Tiziana Menotti. Fotografia di Rosalba Meneghini

L’evento “Shoah a Udine sud. Parliamo di deportazioni e campi di concentramento” si è tenuto giovedì 23 gennaio 2020 alle ore 20,30 per il Giorno della Memoria a Udine sud, presso l’Oratorio “Mons. E. Zanin”, in Via Montebello 3, angolo Via Marsala. Don Maurizio Michelutti, parroco di S. Pio X, ha aperto la serata, ricordando i messaggi papali di pace e di convivenza. Rosalba Meneghini, delegato pastorale della Parrocchia del Cristo ha quindi presentato gli altri oratori. Marco Balestra, presidente dell’Associazione Nazionale Ex Deportati politici (ANED) di Udine, ha portato il saluto del sodalizio accennando ai numerosi viaggi della memoria organizzati con i pullman di studenti verso i campi di concentramento nazisti. “Perché ricordare?” – ha domandato Balestra, dando per risposta una frase di Gianfranco Maris, dirigente ANED: “Il giorno in cui gli orrori non saranno più conosciuti, se mai dovesse arrivare quel giorno, vorrà dire che sono usciti dalla memoria storica e che il mostro non è stato vinto, che è pronto per scrivere una nuova cronaca di odio, di divisioni, di violenza, di ingiustizia e di morte, e il giorno dopo forse non vi saranno più testimoni”.

“Shoah a Udine sud 2020. Parliamo di deportazioni e campi di concentramento”, pubblico in sala Oratorio “Mons. E. Zanin” di via Montebello 3. Foto di Germano Vidussi

Poi c’è stata la relazione di Tiziana Menotti, studiosa di slavistica, su: “Terezín, il ghetto dei bambini e degli artisti”. Nel silenzio della sala, la Menotti ha letto alcuni commoventi brani di letteratura ceca, da lei tradotti per le case editrici italiane, mostrando alcune diapositive del ghetto di Terezín, presso Praga, evidenziando la farsa del ghetto-modello propagandato dai nazisti.

Il professor Elio Varutti ha esposto i dati di una recente ricerca su “Ebrei di Abbazia salvati a Palmanova”. È accaduto alla famiglia Parisotto, come ha riferito il testimone Luigi Parisotto. Dal 1932 Giuseppe Parisotto, padre di Luigi, gestiva una cartoleria a Palmanova. Negli anni ’40 essi nascosero tre ebrei di Abbazia, dove gestivano un albergo. Si tratta dei signori Willy Rudovitz, della signora Rudovitz e del figlio quarantenne di nome, pure lui, Willy Rudovitz, ospitati in casa Parisotto, dal mese di novembre 1943, fino al 1945. Fece da tramite il signor Berin, fattore degli Hausbrandt, proprietari terrieri a Chiopris Viscone.

Udine, 23.1.2020, Parla Marco Balestra, dell’ANED

Al termine dell’affollato incontro, il parrocchiano Giuseppe Capoluongo ha letto la poesia intitolata “La giornata della memoria”. I suoi versi dicono: “Non più il passo di divise nere / rimbomba e spargerà terrore al mondo / nei cuori inermi a tanta crudeltà, / esisterà memoria tra la gente / ai pianti e lutti e di feroci menti / votate al sangue contro un Dio assente: / Non pianger su di me, ma sui tuoi figli! / Ebbe promessa il popolo eletto / neghitto e cieco avanti al Dio perfetto. / Vibra ancora lo sdegno con l’orrore / incredulo al marciar di quelle armi / con sentimenti grevi di follia, / dove riflesso era nello specchi / la genie crocifissa del terrore / d’insana umanità sparsa nel vento”.

Udine, 23.1.2020, Oratorio Zanin, il poeta Giuseppe Capoluongo legge la sua poesia. Foto di Germano Vidussi

L’incontro pubblico, nel quadro delle attività del Comune di Udine, è stato organizzato dal Gruppo culturale parrocchiale di S. Pio X, con la collaborazione di: ANED di Udine, Parrocchia del Cristo e Alpini di Udine Sud, che hanno proposto il brindisi della Memoria. Si ringrazia per la copertina del biglietto di sala e della locandina il pittore Giorgio Celiberti, che ha messo a disposizione dell’evento la sua tavola, del 1966, intitolata Terezin nel cuore, dedicata proprio ai disegni dei bambini ebrei rinchiusi nel ghetto Terezín.

Riferimenti nel web


Rassegna stampa. Ringraziamo le seguenti testate per la diffusione della notizia.

Da “La Vita Cattolica” del 22.1.2020 con errore di stampa evidenziato in giallo. L’evento si è tenuto in via Montebello 3.
Dal “Messaggero Veneto” del 23.1.2020 con errore di stampa evidenziato in giallo. L’evento si è tenuto invece in via Montebello 3, come riferito da varie altre fonti

Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e Elio Varutti. Fotografie di Germano Vidussi e di Rosalba Meneghini, che si ringraziano per l’autorizzazione alla diffusione e pubblicazione nel blog presente. Foto di copertina: don Maurizio Michelutti, parroco di S. Pio X e del Cristo apre l’incontro.

I tre relatori all’incontro sulla Shoah a Udine sud, con la bandiera di Fiume, che è vicino a Abbazia, da dove scappano nel 1943 i Rudovitz. Foto di Rosalba Meneghini

Libro di Timilin sull’emigrazione da Forni di Sopra (UD)

Alfio Anziutti, detto Timilin, ha pubblicato un poderoso volume fotografico sull’emigrazione da Forni di Sopra. Nel testo ci sono oltre 300 pagine di rare fotografie sbucate dagli album di famiglia, citati con nomi e cognomi e con tanto di patronimico nelle ultime pagine. Poi contiene molti documenti storici, provenienti dalle collezioni private, anche dall’estero e dall’archivio municipale. Ci sono molte statistiche dei nati, dei morti, degli obblighi militari e dei matrimoni, con riferimento agli archivi del paese.

Le fotografie sono presentate con brevi didascalie che, talvolta, diventano lunghi elenchi di persone raffigurate, con relativi soprannomi di casato, viste le numerose omonimie. L’autore, senza lungaggini, analizza i tempi e i modi dell’andare tal forest (all’estero). I cramars (venditori ambulanti) del Medioevo e dell’Età moderna, si può ben dire che rappresentino l’antefatto culturale e socio-economico del forte fenomeno migratorio sviluppatosi dall’Ottocento e fino ad oltre la metà del Novecento. Ciò accadeva in Carnia e, quindi, anche a Forni di Sopra, che è l’estremo lembo nord-occidentale dell’area in questione.

Nel secondo e terzo capitolo Timilin elenca i luoghi dell’emigrazione fornese: paesi tedeschi e il Centro Europa (Austria, Germania, Boemia, Ungheria, Balcani, Svizzera…). Vengono presentate anche le corrispondenze, molto interessanti, che gli emigranti tenevano con la famiglia. C’è un florilegio di cartoline, lettere e carte postali, con timbri e affrancature di tutta Europa. Negli ultimi brevi capitoli si parla delle Americhe, dagli Stati Uniti, al Brasile, Argentina, Canada, sempre al lavoro nei cantieri, nelle cave di pietra e nelle fabbriche, con i dovuti riferimenti bibliografici.

Le fotografie di gruppo sono a volte struggenti, perché ci mostrano il dolore della lontananza, la fierezza del livello sociale raggiunto e la voglia di ricreare un pezzo di Friuli e di Carnia anche all’estero; così nacquero i Fogolâr Furlans. Un capitolo viene dedicato alla stampa politica e alle letture degli emigranti.

La copertina riproduce una lunga fotografia di gruppo, proveniente dalla Pennsylvania, trovata in una casa di Forni di Sopra, con una schiera di operai di varie nazionalità, tra i quali si possono individuare molti volti di fornesi; l’immagine è databile ai primi anni Venti.

Il libro recensito

Alfio Anziutti Timilin, Il grande libro dell’emigrazione fornese. Ricerca sul fenomeno migratorio tra ‘800 e ‘900 da Forni di Sopra al mondo, Edizioni del Circolo Fornese di Cultura, Forni di Sopra (UD), 2019, pp. 304, con fotografie in b/n.

Dimensioni del volume: cm 24,5 x 30,5.

Per informazioni sul volume

Alfio Anziutti, Circolo Fornese di Cultura, via Madonna della Salute 1, 33024 Forni di Sopra (UD), ITALIA.

Recensione di Elio Varutti. Networking a cura di Girolamo Jacobson, Tulia Hannah Tiervo e E. Varutti.

Ebrei di Abbazia clandestini a Palmanova 1943-1945

Si è abituati a considerare i nazisti come uomini tutto d’un pezzo. Certi fedeli esecutori del dettame hitleriano invece, ad un certo punto, si sciolgono come neve al sole. È accaduto a Udine e in Friuli. Quelli che fino a poco tempo prima ordinavano la fucilazione di persone inermi accusate di andar contro lo sforzo bellico della Grande Germania, pur di salvarsi la pelle, sono disposti a scendere a patti niente meno che con i partigiani. Pochi mesi prima davano la caccia agli ebrei, depredandoli e deportandoli. Davano la caccia ai partigiani, torturandoli e impiccandoli, poi cambiano le cose. Certi ufficiali delle Waffen SS uccidevano a bruciapelo i traditori del Terzo Reich, poi sono loro i primi a intavolare delle trattative proprio col nemico, ossia coi partigiani. Tra i nomi più celebri del voltafaccia tedesco abbiamo Jakob von Alvensleben, come accennava don Aldo Moretti, prete partigiano delle Brigate Osoppo Friuli. Altri soldati tedeschi, per danaro o per altri motivi, non arrestano certi ebrei nascosti dalla popolazione friulana, come è successo a Palmanova. Che lo abbiano fatto per umanità?

Il caso Rudovitz di Palmanova

Ecco il caso accaduto alla famiglia Parisotto, di Palmanova (UD), come ha raccontato Luigi Parisotto in una lettera al «Messaggero Veneto» del 2 marzo 2019. Rientra tra quei pochi friulani che, con gravi rischi per la propria vita, nasconde degli ebrei nella propria abitazione, per salvarli dalla persecuzione nazista. Dal 1932 Giuseppe Parisotto, padre di Luigi, gestisce una cartoleria nella città stellata.

“Negli anni ’40 i miei genitori a Palmanova – ha scritto Parisotto – nascosero tre ebrei di Abbazia, dove gestivano un albergo”. Si tratta dei signori Willy Rudovitz, della signora Rudovitz e del figlio quarantenne di nome, pure lui, Willy Rudovitz, ospitati dalla famiglia di Giuseppe Parisotto, dal mese di novembre 1943 fino alla fine di maggio 1945. Fa da tramite il signor Berin, fattore degli Hausbrandt, proprietari terrieri a Chiopris Viscone, come emerge dal Dossier Rudovitz, fornitomi dallo stesso Luigi Parisotto, che usa la grafia “Willy” con la “y” finale. Tra le altre, il cognome Rudovitz è presente negli Usa; pare che un Rudovitz sia emigrato dalla Russia zarista negli Usa alla fine dell’Ottocento.

Ad un certo punto il racconto del signor Parisotto si tinge di mistero. Si viene a sapere che la signora Rudovitz è parente degli Hausbrandt. Poi si sa che la signora Maria Osso Parisotto, madre del testimone, cucina anche per i Rudovitz, che mangiano in momenti distinti dalla famiglia ospitante. In particolare, come riferisce Luigi Parisotto, la signora Rudovitz si muove in casa, anche per i pasti, con una “valigetta che posava sempre ai proprio piedi”, come ha detto il testimone. Conteneva soldi, oggetti preziosi? Sono le domande ricorrenti di Luigi Parisotto, che a quel tempo era un ragazzino. In casa Parisotto una sera di dicembre 1943 compare un ufficiale tedesco, il tenente Stolvitz, che dice di essere a conoscenza dell’ospitalità offerta dai Parisotto a terzi. Anzi il tedesco mostra un foglio recante il nome dei Rudovitz e tenta di rassicurare la famiglia ospitante, dicendo che vuole solo parlare con i signori ebrei di Abbazia in quanto, pare, che siano suoi conoscenti. Così l’impietrito Giuseppe Parisotto accompagna il tenente Stolvitz alla camera dei Rudovitz, mentre la signora Maria Osso ha lo sguardo fisso nel vuoto. La paura di essere arrestati è molto forte. Dopo mezz’ora di colloquio con i Rudovitz il tenente tedesco scende al piano di sotto e bussa alla porta della sala dove stanno i Parisotto terrorizzati. Dopo i saluti il tenente tedesco dice che dovrà ritornare e si congeda. Il giovane Parisotto racconta che il tenente Stolvitz esce di casa con la valigetta nera della signora Rudovitz.

Gabriele Anelli Monti, Friuli 1944, pennarello su carta, cm 11 x 15, 2019, ispirato a G. Zigaina, Partigiani impiccati

Il giorno seguente i Rudovitz, scesi per il pranzo, non mostrano alcun turbamento riguardo alla visita inaspettata del tenente tedesco, né danno spiegazione alcuna alla famiglia ospitante che nulla chiede in giornate già colme di ansia. Nell’inverno del 1943 i tedeschi indossano “lunghi e mal confezionati cappotti chiusi da pesanti cinturoni – continua il racconto di Parisotto –. Al loro seguito c’erano i mongoli, piccoli, tarchiati, con gli occhi obliqui e con lunghi baffoni. Sembravano dei predatori, ma non erano altro che dei disgraziati al seguito delle truppe tedesche”. Si tratta di popolazioni cosacche e caucasiche della Russia meridionale anticomuniste e zariste con occhi a mandorla, come i mongoli, alleate dei nazisti.

Nei primi giorni del 1944 ritorna a fare visita il tenente Stolvitz in casa Parisotto. Il tedesco si intrattiene a lungo con i Rudovitz, poi saluta e se ne va. I Parisotto sono sempre più preoccupati. Il giovane chiede notizie ai genitori, che minimizzano e troncano il discorso. Nel frattempo la guerra va avanti. Anche a Palmanova si sentono sempre di più i rumori dei bombardieri anglo-americani che vanno in missione verso la Germania nazista. I rastrellamenti dei tedeschi procedono di pari passo alle azioni dei partigiani fino al termine del conflitto. Il testimone riferisce che la famiglia Rudovitz lascia indenne casa Parisotto alla fine di maggio del 1945.

Poi il mistero di infittisce. Nell’estate del 1960 i Parisotto cambiano casa. I genitori di Luigi Parisotto muoiono a pochi anni l’uno dall’altra verso il 1970, mentre lui continua l’attività commerciale. Un certo giorno il famoso Stolvitz si ripresenta a Palmanova a casa Parisotto. Resta male sapendo che i genitori di Luigi Parisotto sono deceduti. Poi c’è la domanda su quella valigetta. L’ex-ufficiale dà una risposta che ha dell’inverosimile. “Lui allora era addetto a compiti riservati – conclude Luigi Parisotto – ed aveva accesso a documenti top secret ed a suo dire la famiglia Rudovitz gli permise di ricevere un’ulteriore importante documentazione, quella appunto contenuta nella piccola valigetta nera”. La spiegazione, secondo Parisotto, è che collaborava “con una rete clandestina che procurava visti di espatrio per la salvezza di cittadini ebrei soggetti alle persecuzioni”. L’ex-ufficiale, dopo i saluti e gli abbracci, se ne va e non si rivedrà più.

Luigi Parisotto sta cercando ancor oggi di capire dove sono finiti i Rudovitz di Abbazia, forse in Australia. Non si sa. Il tempo cancella molti fatti. Bisogna comunque constatare come non ci sia traccia nella letteratura storica di una “rete clandestina” tedesca dedita al salvataggio degli ebrei in Friuli. Tutt’altro, i tedeschi presenti in zona si impegnano nei rastrellamenti a depredare e deportare gli ebrei ad Auschwitz.  Dall’autunno 1943 il comando d’azione Reinhard (Aktion Reinhard) è impegnato a garantire la sicurezza delle comunicazioni sul territorio partigiano nel Carso e in Istria, importante nei collegamenti stradali e ferroviari tra Fiume, Trieste e Udine, in collegamento con le Waffen SS. Si tratta, secondo la cancelleria di Berlino, di territori destinati in pratica a essere annessi al grande Reich, in caso di vittoria nazista. Il reparto dell’Aktion Reinhard è formato da “specialisti” dei campi della morte di Belzec, Soribòr e Treblinka. L’ufficio nazista di Udine è detto “R/3” (in via S. Martino), con giurisdizione anche su Gorizia e collegamenti con Castelnuovo d’Istria. A Fiume c’è l’Abteilung R/2 (Fölkel pp. 53, 56, 123).

Un dato certo è che Rudovitz Willi compare fra i condannati del regime di Tito, subendo “il sequestro e la confisca dei beni” dalla Pretura Popolare di Fiume / Kotarski narodni sud u Rijeci. In particolare il suo nome è contenuto in una lista pubblicata in forma bilingue (italiano / croato) nel 2002. Vedi: Elenco parziale dei fiumani condannati a vario titolo dal 3 maggio 1945 al 1948 (Ballarini p. 235). Non è chiaro, tuttavia, se il fatto che risulti una condanna a suo carico significhi che egli fosse presente fisicamente nella provincia di Fiume e se al sequestro e alla confisca dei suoi beni materiali da parte titina, come per migliaia di fiumani italiani, abbia fatto seguito una sua eliminazione fisica in una foiba o in un campo di concentramento iugoslavo.

Negli elenchi dell’Archivio di Stato di Fiume messi in rete da Anna Pizzuti si legge di un: “Rudovic Iso, maschio, zidov / ebreo, proveniente da Lubiana, internato a Ferramonti (CS) il 31.07.1941 fino al 10.09.1943. Dopo la fuga o la liberazione si trova a S. Maria al Bagno (LE) 06.09.1945. [Nota:] Profugo proveniente dalla Jugoslavia occupata presente in Provincia del Carnaro”.

Ebrei arrestati in Friuli e nella Venezia Giulia e deportati ad Auschwitz

La Risiera di San Sabba a Trieste (l’Abteilung R/1) è il campo di concentramento degli ebrei per la deportazione nei campi di sterminio. I treni della morte partono da Trieste, passano per Gorizia, Udine, Tarvisio ed entrano nel Grande Reich a Klagenfurt, per arrivare a destinazione: Auschwitz. Detenuti nella Risiera di San Sabba furono deportati ad Auschwitz e qui uccisi, come altri arrestati oltre 270 ebrei fiumani. Tale dato sta nel Monumento inaugurato a Fiume, nel Cimitero di Cosala, il 17 giugno 1981; esso è dedicato ai 275 deportati già appartenenti alla Comunità ebraica della città del Quarnaro.

Maria Iole Furlan, Pausa dell’Abteilung R in rastrellamento anti-partigiano, fotocopia e pastelli, cm 21 x 29,5, 2019; da una fotografia nel libro di T. Matta.

È un prete, fiancheggiatore della Resistenza friulana, don Giuseppe Grillo, “Micros”, a menzionare la presenza di ebrei nel carcere di via Spalato a Udine. Don Grillo conosceva bene quella prigione, dato che vi fu recluso dai nazisti per ben nove mesi. Egli nomina gli ebrei incarcerati a Udine nella sua Relazione del Movimento e dell’Assistenza carceraria al Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) della provincia di Udine, documento custodito nell’Archivio Osoppo della Resistenza in Friuli (Aorf), C.Q. fasc. 26, doc. 2. Tali materiali di studio sono citati nel volume scritto da Luigi Raimondi Cominesi sul comandante partigiano “Tribuno” (pp. 105-106). Tra le altre don Grillo, descrivendo il modo di operare nazista, aggiunge che “persino con le partenze dei deportati (ne abbiamo i nominativi) si faceva partire una spia”.

Plinio Palmano ha scritto di essere stato recluso al carcere di via Spalato a Udine il 17 luglio 1944. È stato il maresciallo delle Waffen SS Kitzmüller in persona ad accompagnarlo in automobile, dopo l’arresto. Nel 1945 Kitzmüller è conosciuto come “quello che poco tempo dopo (perché non lo fece prima?) doveva compiere quel voltafaccia che permise la liberazione di molti compagni fra cui Verdi [ossia Candido Grassi], Mario ed altri” (Palmano p. 100). Sul finire della guerra non sono pochi i nazisti che fanno delle trattative coi partigiani, tentando di salvare la pelle, passando tranquillamente dall’altra parte. Tra i tedeschi carcerieri c’è il sergente Fritz, detto “Il boia”, per la sua malvagità (p. 105).

Come si stava nelle celle delle prigioni di via Spalato? Nel 1944, come spiega Palmano, nella cella da sei posti venivano ammucchiati 18-20 prigionieri, in attesa della deportazione ai campi di concentramento. Durante l’ora d’aria gli capita di vedere altri detenuti, come don Giuseppe Grillo, di Flaibano, l’avvocato Nimis, il commendator Calligaro, il signor Payer ed altri. I reclusi possono leggere i libri della biblioteca carceraria, oltre ai giornali che entrano clandestinamente. Il cappellano delle carceri è don Corrado Roiatti. Egli riesce a portare messaggi andando contro gli ordini delle Waffen SS (Palmano p. 103), ma si capisce che le guardie carcerarie italiane non sono così ossessive e pressanti. Celebrano la messa vari preti, oltre a don Roiatti, c’erano don Grillo e don Ennio D’Agostini, di Canale di Grivò. Oltre ai 98 fucilati nel 1943-1945 su ordine nazista nel carcere di Udine risultano, per Palmano, anche alcune eliminazioni di reclusi che figurano tra i “partiti per la Germania”.

Si ricorda che Liliana Picciotto menziona le squadre del gruppo dell’Aktion Reinhard, ossia gli “specialisti” dei campi della morte di Belzec, Soribòr e Treblinka. L’ufficio nazista di Udine è detto “R/3” (di Via S. Martino), con giurisdizione anche su Gorizia. Al suo comando troviamo Franz Stangl e poi Fritz Küttner e Arthur Walter. Detto reparto aveva il compito di ripulire il Litorale Adriatico da partigiani e ebrei, impadronendosi dei beni di questi ultimi (Picciotto p. 933). Di tali specialisti si è già scritto poco sopra ed uno di loro lo si ritrova nel paragrafo seguente fautore di un’efferata strage in un villaggio dell’entroterra fiumano.

Abbazia in una cartolina dei primi anni del ‘900

La strage di Lipa (Fiume), opera del tenente nazista Arthur Walter

Ecco il racconto del fiumano Rodolfo Decleva, diffuso nel web nel 2019, già pubblicato nel 2003 nella Rivista “Fiume” della Società Studi Fiumani. Il villaggio di Lipa nel 1944 era una frazione del Comune di Elsane, facente parte della Provincia del Carnaro, posta a metà strada tra Fiume e Trieste – racconta Decleva –. I partigiani di Tito pensavano ad un’azione dimostrativa contro il Presidio fascista, posto di guardia al bivio di Rupa, fissata per la domenica del 23 aprile e poi spostata alla domenica successiva 30 aprile 1944. Ciò in quanto questa data era il giorno che precedeva il Primo Maggio, Festa dei Lavoratori, e quindi l’attacco avrebbe avuto anche un grande significato politico e propagandistico. Appena cominciato l’attacco la domenica del 30 aprile e cadute su Rupa le prime granate, il Comandante del Presidio fascista Tenente Aurelio Pieszt manda un uomo a chiedere rinforzi e questi ferma per tale scopo una colonna di tedeschi che procede verso Fiume. La colonna – sono quattro camionette con una cinquantina di soldati – si ferma per decidere il da farsi e in quel momento cade su di essa una granata che provoca quattro morti. Immediatamente il comandante tedesco si collega con il suo Comando, che ha sede a Castelnuovo d’Istria – a circa 10 Km. da Rupa – e, quando dopo qualche ora arrivano altri rinforzi, procede contro il paese di Lipa che viene circondato. Ogni civile che si trova in strada e sui campi viene ammazzato. I militari entrano nelle case e le svuotano degli abitanti, che vengono concentrati in un edificio diroccato all’inizio del paese. Ad un tratto furono svuotate latte di benzina su di loro e venne dato fuoco per bruciarli vivi, e colpi di mitra per chi tentava di uscire da quell’inferno. Poi per nascondere l’eccidio usarono anche la dinamite ma i sopravvissuti, grazie al fatto che quel giorno non si trovavano in paese, poterono raccontare l’accaduto. Si calcola che dei 300 abitanti di Lipa solo una trentina di persone rimasero vive e furono i ragazzi che pascolavano il bestiame nei dintorni o i giovani che erano in bosco coi partigiani o quelle poche persone che – pur essendo domenica – erano ugualmente a Fiume per lavoro. Alcuni cognomi più ricorrenti delle 269 vittime: Africh, Bernetich, Calcich, Gabersnik, Iskra, Jaksetich, Juricich, Maglievaz, Puharich, Simcich (la famiglia più numerosa), Slosar, Smaila, Tomsich, Toncich, Toncinich e Valencich. Anton Toncinich era la persona più anziana, aveva 81 anni, mentre le tre bambine Bozilka Iskra, Carla Slosar, cuginetta di Decleva, e Miliza Valencich non avevano ancora compiuto il primo anno della loro vita.

Ivan Ivancich ebbe la fortuna di essere solo scalfito dalla pallottola e ferito all’orecchio. Egli si finse morto – restando immobile per ore accanto al cadavere della moglie – e salvando così la vita. Fu l’unico testimone dell’eccidio tedesco, che descrisse nei giorni seguenti a Scalniza, una località vicina a Lipa. Si diceva che per prudenza avesse addirittura soffocato con le catene il proprio cane di guardia per timore di non essere tradito.

Maria Africh riuscì a salvarsi grazie all’aiuto di un fascista – a lei sconosciuto – che quando uscì dalla sua casa situata ai margini del paese le salvò la vita facendola fuggire in direzione opposta alla morte. La presenza di quell’angelo in camicia nera prova che anche gli italiani furono della partita, ma con funzioni di “copertura”.

Il Comandante tedesco responsabile delle operazioni era il Tenente Arthur Walter, già protagonista della distruzione dei paesi di Sejane, Mune Grande e Mune Piccolo e della deportazione di quella popolazione civile.

Subito dopo la guerra a Lipa fu costruito un sobrio Cimitero monumentale nello stesso posto dove le vittime vennero concentrate e bruciate vive, e anche il paese è risorto sulle stesse case bruciate e diroccate per volontà dei superstiti della strage. Nel Museo storico di allora, che raccoglieva i poveri cimeli rinvenuti tra le macerie delle case diroccate, era esposto in una parete l’ingrandimento di una fotografia dove un militare tedesco, riconoscibile dall’elmetto, veniva ripreso mentre ricacciava nel fuoco un bambino che tentava di uscire dall’inferno. Si diceva che un altro militare tedesco avesse fotografato quella scena e avesse dato a sviluppare il rullino ad un fotografo di Villa del Nevoso e che questi – vedendo il soggetto – ne avesse fatto una copia per sé. Ora il Museo è stato modernizzato e questa gigantografia non è più esposta mentre i cognomi delle povere vittime sono stati cambiati con la grafia croata. Così si conclude la testimonianza di Rodolfo Decleva.

Documenti originali e digitali

Luigi Parisotto, Dossier Rudovitz, 2004-2019, ritagli di giornale, datt. e ms.

Rodolfo Decleva, messaggio del 28 aprile 2019 in Facebook, nel gruppo Un Fiume di Fiumani!

Cenni bibliografici

Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski (a cura di / uredili), Le vittime di nazionalità italiana di Fiume e dintorni (1939-1947) / Žrtve talijanske nacionalnosti u Rijeci i okolici (1939.-1947.), Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2002.

Ferruccio Fölkel, La Risiera di San Sabba. L’Olocausto dimenticato: Trieste e il Litorale Adriatico durante l’occupazione nazista, Milano, Bur, 2000.

Tristano Matta, Il lager di San Sabba. Dall’occupazione nazista al processo di Trieste, Beit, Trieste, 2012.

Plinio Palmano, “Al Grande Albergo di via Spalato”, «Avanti cul brum! Lunari di Titute Lalele pal 46», 1945.

Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), 1^ edizione 1991, Milano, Mursia, 2002.

Anna Pizzuti, Ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico, nel web dal febbraio 2016: http://www.annapizzuti.it/

Luigi Raimondi Cominesi, Modotti Mario ‘Tribuno’. Storia di un comandante partigiano, Udine, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, 2002.

Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Girolamo Jacobson e E. Varutti. Fotografie e disegni da collezioni private citate nell’articolo. Si ringrazia per la collaborazione alle ricerche Lucio Rossi di Palmanova. In copertina dell’articolo presente: Maria Iole Furlan, Truppe dell’Abteilung R in rastrellamento anti-partigiano, fotocopia e pastelli, cm 21 x 29,5, 2019; da una fotografia nel libro di T. Matta.

Renato Guardia civica, trovato con la gola tagliata a Comeno nel 1945

Scoprire da Internet che il proprio babbo è stato trovato dai commilitoni con la gola tagliata il 9 gennaio 1945. È accaduto al signor Oriano Galvanini, nato a Trieste nel 1944. Fino ad ora non ha mai parlato con i giornalisti, né con gli storici di quel fatto. Nella famiglia si è pensato ad altro. C’è il lavoro, ci sono i figli da crescere e il tran-tran della vita quotidiana. Bisogna tirare avanti. Il dolore per quel lutto viene messo da parte e si assopisce. Lo strazio per la scomparsa del familiare forse se lo sono tenuto dentro il cuore le donne di casa: Milena Galvanini e Alina Montauti, la madre e la nonna di Oriano.

Poi col computer Oriano si mette a fare delle ricerche nel web e il passato torna a galla, quasi per caso. “Ho scoperto quel fatto – ha detto Oriano Galvanini – consultando in Internet una lista di scomparsi e uccisi dai titini che fu scritta da Giorgio Rustia”. Il papà di Oriano si chiamava Renato Galvanini, figlio di Aldo e Giulia Bosco, nato a Verona il 23 giugno 1922. La famiglia veronese negli anni ‘30 si trasferisce a Trieste per lavoro. Nonno Giuseppe Galvanini, detto Mario, è un valente artigiano del legno, con laboratorio vicino al Politeama Rossetti e lì la famiglia cresce.

Come ha scritto Claudio Beccalossi sulla «Gazzetta Italo-brasiliana on line» il 18 luglio 2014, dalle indagini di Giorgio Rustia è emerso che la Guardia civica Renato Galvanini fu: “Catturato dai partigiani comunisti italo-sloveni a Comeno (Gorizia) il 9/1/1945”.

Comeno / Komen, il lago. Editore A. Ravbar, Comeno 1932

Signor Oriano suo padre era militare? “Mio padre Renato – ha aggiunto il testimone – era nell’esercito, di stanza a Schio, in provincia di Vicenza, proprio intorno all’8 settembre 1943 data dell’armistizio era in licenza matrimoniale perciò, nella confusione del ribalton, decise di arruolarsi nella Guardia Civica di Trieste”. Poi si scopre che a comandare sono i tedeschi. La Guardia Civica, Stadtschutz, specialità triestina, finisce nell’ambito della Rsi, nel 1944-1945. I giovani triestini si trovano alle strette fra Germania e Rsi da un lato e i partigiani sloveni comunisti dall’altro, che spadroneggiano nel Cln. Nel resto dell’Italia centro settentrionale i giovani di leva, sfuggendo ai nazisti o ai fascisti, si mettono alla macchia coi partigiani di area laico-liberale, altri indossano il fazzoletto rosso. A Trieste gli istriani o i triestini di sentimenti italiani aborriscono chi va in bosco coi s’ciavi. “Nella Guardia civica erano inquadrati oltre un migliaio di vigili armati – ha detto il testimone – un centinaio di loro sono morti in guerra, beh, i titini ne hanno messi in foiba alcune decine, molti altri sono finiti nei campi di concentramento in Jugoslavia dopo il 1945”.

Dove è stato trovato il suo babbo ucciso? “In famiglia, mia madre Milena e mia nonna Alina – ha spiegato Oriano Galvanini – dicevano che è stato dato per disperso a Comeno nel 1945 e dopo ho scoperto che i suoi commilitoni l’hanno trovato ucciso con la gola tagliata e seppellito a Comeno, vicino a San Daniele del Carso”. La località di Comeno / Komen, oggi in Slovenia, è a 16 chilometri da Opicina, presso Trieste. Dal 1920 al 1947 Comeno appartiene al Regno d’Italia, inquadrato con la Provincia del Friuli (1923-1927) e nella Provincia di Gorizia.

Oriano Galvanini. Fotografia di Elio Varutti

Negli anni ’50 la moglie e i familiari di Renato Galvanini hanno dovuto affrontare pure il mesto evento della dichiarazione di morte presunta, per potere avere i documenti a posto. Poi si continua a vivere, bisogna sbarcare il lunario.

Che ci faceva a Comeno Renato Galvanini nel 1945? “Stando ai racconti di mia madre, era di pattuglia – ha precisato il signor Oriano – con altri due commilitoni, che erano di stanza alla contraerea di Opicina, ci hanno detto che erano stati inviati a cercare viveri e vettovaglie, ma non sono mai ritornati”.

La moglie di Oriano, la professoressa Maria Gallo, presente all’intervista, gli dice di riferire il racconto della fotografia data ai titini. Cos’è ‘sta storia? “Durante i 40 giorni di occupazione dei titini a Trieste – ha riferito Oriano – come dicevano mia mamma e mia nonna, mentre facevano i rastrellamenti e arresti di casa in casa, fu chiesto ai parenti degli scomparsi di mostrare una fotografia per dare eventuali notizie, così nel rione uscirono le persone con le foto in mano per consegnarle ai miliziani di Tito, ma poi dall’altoparlante sulla camionetta si sentì la seguente frase: Bene così sappiamo chi è da eliminare”.

Signor Oriano che ricordi ha del suo papà? “Io ero nato da poco quando fu ucciso quindi ho solo la memoria familiare – ha concluso Galvanini – abbiamo ricevuto una medaglia nel 1955, nel decennale della sua morte dall’Associazione della Guardia Civica di Trieste e una seconda medaglia ci è stata data nel 25° anniversario degli eccidi, tutto qui”.

Posso raccontare questa storia? “Sì, certo – è il commiato – non abbiamo potuto farlo per decenni, si doveva stare in silenzio, per non disturbare Tito, ma adesso è giunto il tempo di rivelare questi fatti, anche se danno ancora fastidio a qualcuno”.

Renato Galvanini; collezione familiare

Fonte orale: Oriano Galvanini, Trieste 1944, intervista a cura di Elio Varutti del 16 aprile 2019 a Udine, in presenza della moglie Maria Gallo Galvanini.

Sappiamo che l’acquerello riprodotto in copertina e, in certe cartoline, è opera di un Fantoni. È intitolato San Daniele del Carso, che dopo la Grande Guerra appartiene al Regno d’Italia fino al 1947. Si sa poi che Ettore Tommaso Fantoni, chiamato Tomaž Fantoni (Gemona del Friuli, 16 dicembre 1822 – Slovenske Konjice, 31 maggio 1892), ha operato in zone slovene nella seconda metà dell’Ottocento, assieme ad altri artisti friulani tra i quali il fratello Giovanni. Nato nel Regno Lombardo Veneto, Tomaž Fantoni si spostò per lavori di affresco nell’area slovena dell’Impero d’Austria Ungheria, dove morì.

Comeno nel 1927

Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Fotografie di E. Varutti e da Internet. Materiali di ricerca dell’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

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Mappa dei Comuni della Provincia di Gorizia, con Plezzo, Idria, Circhina e Comeno, al centro in basso, 1938

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