Basta con l’ANPI. Parola del patriota Igino Bertoldi, della Divisione Osoppo Friuli

Perché fare assieme le manifestazioni dell’Associazione Osoppo con l’ANPI? Se lo chiede Igino Bertoldi, detto Ercole, Bogomiro o Ragamir, nato a Tavagnacco (UD) il 29 agosto 1926. È stato un patriota delle Brigate Osoppo, di area cattolica, azionista, monarchica e laico-socialista. Poi Volontario della libertà, per il periodo 1945-1948, in contatto con gli angloamericani. Dal 1948 al 1954, Igino ha fatto parte dei ‘Volontari Difesa Confini Italiani VIII’, col nome di ‘Bogomiro’, oppure ‘Ragamir’. “Se non ci fossimo stati noi adesso qui ci sarebbe un’altra nazione – ripete come un ritornello – ora sono dall’Associazione Partigiani Osoppo-Friuli (APO) di Udine”. Non gli piacciono i “miscugli ANPI – APO”, come li chiama lui. È che l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI), secondo lui, è schierata con i comunisti e certi suoi dirigenti sono giustificazionisti dell’eccidio di Porzûs e negazionisti della tragedia delle foibe istriane.

Gli strali di Bogomiro sono contenuti in una lettera, del 18 ottobre 2023. Sostiene che ci sia “una grave responsabilità nei confronti di noi combattenti ed in particolare dei nostri martiri dell’eccidio di Porzûs e delle foibe trucidati per creare il terrore nella popolazione” (Lettera al Presidente dell’APO 2023 : 2).

Vero è che certi storici descrivono la soppressione di un partigiano osovano effettuata dai partigiani garibaldini comunisti di Tavagnacco genericamente in questo modo: “Stella Arrigo (Robur). Classe 1923. Partigiano 3^ Brg. Osoppo Friuli. Ucciso a Laipacco il 28.4.1945 da forze partigiane” (Angeli 1994, pp. 139, 167-168).

Per Igino Bertoldi l’ANPI filo-comunista è la discendente ideologica dei partigiani dei Gap, i Gruppi di Azione Patriottica, creati dal Partito comunista, che dal 7 febbraio 1945 a Porzûs, in Comune di Attimis (UD), oltre che al Bosco Romagno (Cividale del Friuli) e Drenchia passarono per le armi il Comando partigiano della Osoppo, che si opponeva alle annessioni territoriali jugoslave e non volle sottostare al comando del IX Corpus di Tito.

Gorizia, 11 giugno 2023 – È stato inaugurato il nuovo Lapidario con i nomi di altre 97 vittime, oltre alle già 600 deportazioni ricordate col monumento del 1985. Fotografia dell’ANVGD

Pochi studiosi spiegano che i titini, oltre ad occupare Fiume, Pola, Trieste e Gorizia, sono giunti sino a Monfalcone, Muggia, Romans d’Isonzo, Cividale del Friuli, Aquileia e Cervignano del Friuli, nella Bassa friulana, arrestando e ammazzando a destra e a manca. Una jeep di artificieri iugoslavi fu vista da partigiani della Osoppo sulle rive del Tagliamento, vicino ad un ponte. Come ha scritto Maria Grazia Ziberna a Gorizia “il periodo dell’occupazione titina, dal 2 maggio al 12 giugno 1945, vide la costituzione nella Venezia Giulia dello Slovensko Primorje, cioè il Litorale Sloveno, che aveva come capoluogo Trieste e comprendeva anche il circondario di Gorizia, diviso in sedici distretti e composto anche dai comuni di Cividale del Friuli, Tarvisio e Tarcento [in provincia di Udine], considerati slavofoni” (Ziberna 2013 : 83). Proprio da Gorizia e da Trieste ricevette l’ordine di allontanarsi, nel Natale del 1944, dai comandi del IX Corpus titino la Divisione Garibaldi Natisone, formata da comunisti italiani. Così si poteva meglio annettere quelle terre alla Jugoslavia a fine conflitto, magari fino al fiume Tagliamento. Solo quelli delle Brigate Osoppo rifiutarono l’ordine slavo, così furono sterminati i comandi alle maghe di Porzûs e nel Bosco Romagno (Moretti 1987 : 193). Altre eliminazioni avvennero a Premariacco (UD), come emerso nel 2016 dall’archivio di quel comune.

Durante i 40 giorni di occupazione titina a Gorizia avvennero molti arresti di italiani contrari al nuovo regime jugoslavo, con l’aiuto dei miliziani comunisti della Divisione Garibaldi. Sono riusciti sicuramente a salvarsi sei militari italiani nei primi giorni dell’occupazione del IX Corpus sloveno, avvenuta tra il 2 maggio e l’11 giugno 1945. È stato Sergio Pacori a nasconderli in una stanza di casa. “Quando sono arrivati i partigiani titini per controllare le abitazioni – ha detto Pacori – conoscendo lo sloveno, li ho intrattenuti e portati in giro per la casa, senza farli entrare, ovviamente, nel vano degli sbandati, finito il controllo, i titini se ne sono andati soddisfatti e io avevo salvato quei sei soldati italiani dalla deportazione in Jugoslavia”.

C’è poi la vicenda di Arrigo Secco, nato a Faedis nel 1916, nome di battaglia Secondo. È uno di quelli che riuscì a salvarsi dall’eccidio di Porzus, messo in atto dai partigiani comunisti garibaldini il 7 febbraio 1945, per uccidere 17 partigiani osovani, compresa una donna, con la scusa di essere “fascisti, monarchici, traditori”. A raccontare l’episodio, tramandato nelle vicende familiari è una sua discendente: Monica Secco, insegnante di matematica a Udine. “Zio Arrigo era sposato con la partigiana Vania – ha detto la professoressa Monica Secco – e scampò ai fatti di Porzus, poiché incaricato di recarsi in paese in missione, così mi hanno raccontato i famiglia”. Arrigo Secco morì a Udine nel 1968 e, per la sua attività nella Resistenza, fu insignito della medaglia di bronzo. Fin qui i ricordi familiari.

L’attività partigiana di Arrigo Secco, detto Secondo, è documentata pure in un libro di Giampaolo Gallo sulla Resistenza in Friuli. Prima ancora che nascessero le Brigate Osoppo Friuli (Bof), egli combatté dalla metà di settembre 1943 nel battaglione “Rosselli”, composto da un numero variabile di uomini che andava da 40 a 70 elementi. Fu il primo distaccamento “Giustizia e Libertà”, sorto ad opera del Partito d’Azione al comando di Carlo Comessatti, nome di battaglia Spartaco. Il vice-comandante era Alberto Cosattini, detto Cosimo, mentre il commissario politico era Fermo Solari, Somma.

Pensare che “i primi patrioti di Udine, dopo l’8 settembre 1943 – ha detto G.P.F. – si ritrovarono all’Osteria Alla Ghiacciaia, una sorta di tempio degli Irredentisti nella Grande guerra”. Avevano uno spirito di solidarietà cristiana. Erano anti-tedeschi e col vessillo del tricolore senza altri emblemi. Alcuni erano monarchici, perciò chiamati: traditori badogliani. Rifiutavano la divisa tedesca o della R.S.I. Non volevano egemonie di partigiani garibaldini rossi e nemmeno di partigiani comunisti sloveni di Tito che erano, secondo A. B.: “i più tremendi e sanguinari”. Nel Comune di Premariacco (UD), Roberto Trentin ha detto: “ricordo una frase di mio padre, quando si parlava della guerra, lui diceva: ‘Pôre dai partisans, mai dai todescs!’ [Paura dei partigiani sì, mai dei tedeschi!]”.

Igino Bertoldi, detto Ercole, Bogomiro o Ragamir. Fotografia di Elio Varutti 2023

Ritorniamo alle parole di Bogomiro. “Terminata la guerra, i compagni insediarono il tribunale del popolo – aggiunge nella Lettera citata – io ero lì, quando iniziarono la tosatura delle ragazze che operavano nella centrale telefonica. Solo le più ingenue si lasciarono tagliare i capelli [per spregio; NdR] perché le più astute alzarono la voce: ‘Non toccateci, altrimenti parleremo’. L’indomani mandarono a prelevare un semplice uomo che operava nella centrale telefonica a Tavagnacco e proveniva da Amaro. Cominciato l’interrogatorio, la giuria non trovò nessuna colpa. Lo consegnarono, in seguito, alle donne comuniste che, senza pietà lo torturarono. Si sentirono le urla fino a grandi distanze. La mattina dopo fu trovato [morto] in un fosso a Torreano di Martignacco, ma era già programmato un altro processo a danno di un mio coetaneo. I fratelli Clocchiatti, osovani, approfittando di Berto che era sceso da Subit [frazione di Attimis, UD] e alloggiato nelle scuole elementari di Tavagnacco, andarono a chiedere rinforzi per ottenere il rilascio dell’accusato, che avvenne immediatamente. Da tener presente che il grosso dei combattenti Diavoli Rossi, IX Corpus e Garibaldini erano trasferiti a Gorizia a infoibare” (Lettera al Presidente dell’APO 2023 : 1). Tra l’altro, sul tribunale del popolo di Udine ha scritto Fabio Verardo, nel 2018.

Si ricorda che gli arresti e le deportazioni di italiani a Gorizia seguirono l’occupazione militare della città per 40 giorni da parte dei partigiani del IX Corpus sloveno. Si toccò l’apice fra il 2 e il 20 maggio 1945 a guerra conclusa. Si contarono 332 scomparsi, dei quali 182 civili e 150 militari, nel goriziano, dato arrivato a oltre 665 persone a disamina storica conclusa.

Passata l’invasione titina di Gorizia “un amico mi riferì che Mario e Lino, due fratelli del GAP di Tavagnacco – ha ricordato Igino Bertoldi – ormai morti, ritornando dalle eliminazioni di Gorizia, furono intercettati dalla ronda inglese di confine, così spararono uccidendo due soldati britannici, che oggi riposano nel Cimitero del Commonwealth a Adegliacco di Tavagnacco. Gli uccisori poi emigrarono uno in Germania e l’altro nella Legione straniera per non farsi prendere. Erano tempi così. Chi non la pensasse come loro, era già finito. Mio padre Giuseppe, del 1894 e mancato nel 1972, era come me ed altri 80 paesani di Tavagnacco sulla lista di quelli da impiccare secondo quelli del GAP”.

Cimitero del Commonwealth a Adegliacco di Tavagnacco. Fotografia dal sito web del Comune di Tavagnacco

Da ultimo si ricorda che tra i martiri delle malghe di Porzûs c’è pure Guido Pasolini, fratello del noto poeta e regista Pier Paolo. In considerazione del modo “orrendo” con il quale venne finito, essendo stato solo ferito nella concitata iniziale fucilazione nel Bosco Romagno, c’è chi lo paragona alla morte di Cristo (Castenetto 2023 : 182). È per tale motivo che si è scelta per copertina l’opera di Sergio Pacori intitolata Crocifissione... C’era il piccone per il colpo di grazia sul cranio, oltre alle pugnalate e alla decapitazione (tecnica, quest’ultima, usata nell’eccidio di Stremiz di Faedis, UD, scoperto nel 1997). Ecco come avvenne, nel febbraio 1945, il massacro di certe vittime osovane ad opera dei gappisti comunisti agli ordini di Mario Toffanin, detto Giacca. Essi agirono “prima colpendole con il calcio del mitra, eppoi, quando caddero rantolando, infierendo sui corpi con i tacchi degli scarponi” (Cresta 1969 : 124). Il signor C. Fe. ha confermato: “Gli osovani uccisi al Bosco Romagno sono stati colpiti a randellate dai filo-titini, lo so perché ho parlato con chi nell’APO ha visto le fotografie dei loro corpi martoriati”.

Fonti orali – Le interviste (int.) sono state condotte a Udine da Elio Varutti con penna, taccuino e macchina fotografica, se non altrimenti indicato.

 – Igino Bertoldi, detto Ercole, Bogomiro o Ragamir, nato a Tavagnacco (UD) il 29 agosto 1926, int. del 21 novembre 2023 a Tavagnacco.

– A. B., San Giovanni al Natisone (UD), int. del 22 giugno 2015.

– C.  Fe., Codroipo (UD), int. al telefono del 27 novembre 2023.

– G.P.F., Gemona del Friuli 1938, int. a Udine del 7 luglio 2023.

– Monica Secco (Udine, 1963), int. del 31 maggio 2009 e 19 novembre 2014.

– Sergio Pacori, Gargaro (ex provincia di Gorizia, oggi Slovenia) 1933, esule a Gorizia, int. del 17 maggio 2023 ed e-mail del 22 luglio 2023.

– Roberto Trentin, Premariacco, comunicazione a Cividale del Friuli del 9 settembre 2017.

Documenti originali

Comune di Premariacco, Anpi, gioie e dolori, registro anagrafe con 60 nominativi di persone abbattute dai partigiani, perché ritenute spie o collaborazionisti. Vedi: “Le carte di Premariacco: ecco i nomi dei morti”, «Messaggero Veneto», 3 maggio 2016.

– Igino Bertoldi, Lettera al Presidente dell’APO, testo in WORD, Tavagnacco 18 ottobre 2023, pp. 2.

Collezioni private

– Giorgio Secco, Udine, fotografia, lettere e cartoline, ms.

Interventi di Igino Bertoldi già pubblicati nel web

– E. Varutti, Arduino di Fiume scampato ai fucili titini e varie trame jugoslave al confine orientale, 1943-1954, on line dal 30 aprile 2023 su evarutti.wixsite.com

– E. Varutti, 25 aprile 2023: Patrioti o Partigiani. Igino Bertoldi denuncia, on line dal 2 giugno 2023 su eliovarutti.blogspot.com.

– E. Varutti, Strage di Porzûs programmata e misteri jugoslavi al confine orientale italiano, on line dal giorno 11 luglio 2023 su varutti-elio3.webnode.it

– E. Varutti, Le fucilazioni facili dei partigiani comunisti in Friuli. L’osovano “Ercole” rivela, 1945, on line dal 31 luglio 2023 su evarutti.wixsite.com

– E. Varutti, I rapporti coi comunisti dei GAP per il patriota Igino Bertoldi, delle Brigate Osoppo Friuli, on line dal 20 settembre 2023 su evarutti.wixsite.com

Bibliografia

– Giannino Angeli, Viva l’Italia libera! (1943-1945). (Storia, memorie, testimonianze dei tempi di guerra nel Comune di Tavagnacco), Comune di Tavagnacco (UD), Comitato per il 50° anniversario della Liberazione, 1994.

– Roberto Castenetto, “Pier Paolo Pasolini e la morte del fratello Guido ‘Martire Cristo”, in: Roberto Volpetti, I Pasolini Guido e Pier Paolo resistenza e libertà, Udine, Associazione Partigiani Osoppo, 2023.

– Primo Cresta, Un partigiano dell’Osoppo al confine orientale, Udine, Del Bianco, 1969.

– Giampaolo Gallo, La Resistenza in Friuli 1943-1945, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine, 1988.

– Aldo Moretti, “La ‘questione nazionale’ del Goriziano nell’esperienza osovana (1943-1945)”, in: Aa. Vv., I cattolici isontini nel XX secolo. il Goriziano fra guerra, resistenza e ripresa democratica (1940-1947), Gorizia 1987, pp. 187-199.

– Fabio Verardo, I processi per collaborazionismo in Friuli. La Corte d’Assise Straordinaria di Udine (1945-1947), Milano, Franco Angeli, 2018.

– Maria Grazia Ziberna, Storia della Venezia Giulia da Gorizia all’Istria dalle origini ai nostri giorni, Gorizia, Lega nazionale, 2013.

Modifiche del 2.12.2023Saggio di: Elio Varutti, Docente di “Sociologia del ricordo. Esodo giuliano dalmata” – Università della Terza Età, Udine. Networking a cura di Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Bruno Bonetti, Sergio Satti (ANVGD di Udine), Enzo Faidutti e il professore Stefano Meroi. Per i suggerimenti bibliografici si ringrazia l’architetto Franco Pischiutti (ANVGD di Udine). Grazie a Giuseppe Bertoldi, figlio di Igino. Copertina: Sergio Pacori, Crocifissione con la Madonna e Maria di Cleofa, scultura con residuati bellici, cm 140 x 70,  peso 80 kg, 2011 ca. Collezione dell’Artista, che si ringrazia per la gentile concessione alla pubblicazione del 24 novembre 2023. Immagine qui sotto.

Fotografie dalle fonti citate. Adesioni al progetto: Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine, ANVGD di Arezzo. Per la cortese collaborazione riservata si ringraziano gli operatori e le direzioni delle seguenti biblioteche di Udine: Civica “Vincenzo Joppi”; Biblioteca del Seminario Arcivescovile “Pietro Bertolla”; Biblioteca dell’ANVGD; Biblioteca della Società Filologica Friulana e Biblioteca “Renato Del Din” dell’Associazione Partigiani Osoppo-Friuli; Biblioteca dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione.

Parlano le maestre Carmignani e Stoppielli, delle scuole elementari al Centro profughi di Laterina, 1956

Era tutto un modo diverso di fare scuola – ha raccontato la maestra Emilia Carmignani – avevo bambini dell’Istria, Fiume e Dalmazia, che parlavano in dialetto, se non in croato e ricordo che ho avuto degli scolari che parlavano arabo, poiché le loro famiglie erano state espulse dalla Libia, tutti destinati al Centro raccolta profughi di Laterina (Crp)”. Ricorda qualche collega di lavoro?

Certo, oltre alla maestra Giuliana Stoppielli, che è qui vicino a me, venuta a farmi visita – ha risposto – in questa giornata dei ricordi organizzata da Claudio Ausilio, esule di Fiume e delegato provinciale dell’Associazione degli esuli in Arezzo, poi c’era il Direttore didattico Scala e con grande affetto ricordo la maestra Pasqua Sponza Benvegnù e la sua famiglia di Rovigno”.

Nella foto qui sotto: la maestra Emilia Carmignani, a sinistra, suo marito, Impero Nocentini e la maestra Giuliana Stoppielli, collega della Carmignani al Crp di Laterina. Foto di Claudio Ausilio, 25 ottobre 2022.

Cosa pensa dei suoi scolari al Crp di Laterina? “Ho insegnato per tre anni scolastici nel Campo profughi – ha replicato la Carmignani – era dura, ma se la sono cavata, avevamo i banchi e pochi materiali scolastici, del resto ‘sti bambini con gli jugoslavi che c’avevano a che fare?”. Come si recava al lavoro fino nel Crp?

Con il treno da Montevarchi fino a Laterina stazione – ha aggiunto – poi con un pullman, oppure a piedi”.

Chiedo ora al signor Impero Nocentini di raccontare la sua storia. “Oltre che marito della maestra Emilia Carmignani – ha detto Nocentini – nella provincia di Arezzo ero l’unico titolare di azienda di fotografia a 16 anni”. È vero che faceva le fotografie nel Campo profughi?

Sì, per le prime comunioni, per le visite delle autorità civili o religiose – ha aggiunto Nocentini – ho lavorato dal 1954 al 1977; l’intestazione della mia ditta era: Foto Impero. Arrivavo con la motocicletta in Campo profughi, facevo un bel po’ di scatti fotografici, sviluppavo in studio e stampavo le fotografie, che portavo nel Crp dandole al signor Duca, titolare dello spaccio interno, così lui che conosceva molti profughi, provvedeva a consegnarle per una giusta somma. Poi mi sono diplomato in Ottica ad Arcetri (FI). Così dal 1978 al 2005 ero titolare del negozio di “Ottica Impero” a Terranuova Bracciolini (AR), poi è arrivata la pensione”.

Si ricorda che Giuliana Stoppielli, insegnante aretina della 3^ classe elementare nel Crp di Laterina, scrive nel suo registro nell’anno scolastico 1956-1957: “Sono piccoli uomini e brave donnine, che guardano già all’avvenire con una certa serietà e che, per la loro esperienza o per l’esperienza dei genitori, mostrano di valutare in pieno quel senso di italianità per il quale hanno accettato di vivere miseramente al campo”. Verso la metà di febbraio la classe deve fare lezione nel pomeriggio, poiché ci sono troppi iscritti nella scuola del Crp; bisogna fare i turni. A marzo molti pargoli si ammalano di morbillo. Poi si legge che: “Ancora una volta durante il mese di aprile 1957 abbiamo dovuto abbandonare la nostra aula, ci siamo trasferiti in quella del M.o [Maestro] Alfieri, poiché la nostra ha dovuto accogliere i bambini della signora Stifanich che stanno diventando molto numerosi” (p. 21).

Foto sotto: disegno e dettato di Emilia Ussich, scolara al Crp di Laterina, con la firma della maestra Pasqua Sponza in Benvegnù. Collezione Privata, Arezzo.

La classe 4^ elementare della maestra Carmignani

Dal Registro della classe 4^ traspaiono analoghi commenti a quelli riportati poco sopra. È la maestra Emilia Carmignani, di Terranuova Bracciolini (AR), a scrivere che i suoi alunni sono “pieni di entusiasmo e di buona volontà” (p. 17 del Registro). Hanno poche suppellettili scolastiche. Il libro arriva il 27 gennaio 1957 e “i ragazzi sono tanto contenti e vorrebbero studiarlo tutto insieme”. Il disagio vissuto dai profughi assiepati nelle baracche di Laterina, tuttavia, si fa sentire. Il 22 febbraio la maestra scrive di dolersi per l’assenza di un suo alunno, il cui babbo ubriacatosi, ha picchiato la moglie e, poi, ha tentato il suicidio; conclude così: “chiederò consiglio all’assistente sociale”. Il 15 marzo c’è il visto dell’Ispettrice Olga Raffaelli. Alla fine dell’anno sono 17 gli ammessi all’esame, dei quali 9 sono le femmine, in maggioranza; evidentemente vari scolari sono stati trasferiti.

L’elenco dei 23 alunni della classe 4^ risulta da due registri didattici, a causa dei nuovi arrivi e dei trasferimenti di alunni; si è effettuato inoltre un confronto con l’Elenco alfabetico profughi giuliani e con altre fonti per l’assegnazione della località dal nominativo di Basso in poi, considerata la carenza di dati nei registri scolastici. Ecco la classe 4^: Brachitta Stella, Tripoli, trasferita a Perugia; Benci Maria Luisa, Pola, trasferita a Roma; Bertoldi Benito, Asmara (Eritrea), trasferito; Cernaz Virgilio, Dignano d’Istria (PL), trasferito a Cremona; Minissale Mario, Neresine (PL), trasferito a Firenze; Moisei Giuseppe, Visinada (PL), trasferito a Novara; Sauer Mirella, Pola, trasferita a Serravalle Sesia (VC); Scocco Liliana, Pola, trasferita a Ravenna; Trillo Domenico, Tripoli, trasferito a Monteverdi Marittimo (PI); Trillo Giovanni, Tripoli, trasferito a Monteverdi Marittimo (PI); Vescovi Maria, Pola, trasferita a Genova; Vescovi Paolo, Pola, trasferito a Genova; Basso Claudio, Pola; Creglia Gian Pietro, Barbana (PL) trasferito a Roma; Priletti Anna Maria, s.l.; Ghini Antonio, s.l., ma cognome di Capodistria; Marcetta Bruna, Fiume, trasferita a Bergamo; Brenco Nadia, trasferita a Firenze (cognome di Pola); Bulessi Claudio, Pola; Blecich Liliana, Fiume; Isera Albino, Sanvincenti (PL); Valle Graziella, Castelnuovo d’Istria (FM); Visintini Santina, Torre di Parenzo (PL). Come si può notare la maggioranza degli scolari è della provincia di Pola (65,2%), seguiti da quelli di Fiume (13%), di Tripoli (13%) ed altro.

Qui sotto: Dettato e disegno di Violetta Canaletti, scolara al Crp di Laterina, Collezione privata, Arezzo.

Commenti di Claudio Ausilio

Durante l’intervista collettiva – ha detto Claudio Ausilio – voglio segnalare che, fra i tanti loro ricordi emersi alle maestre Carmignani e Stoppielli, ce n’era uno molto affettuoso per la maestra Sponza Pasqua in Benvegnù con la sua famiglia, che ho portato a conoscenza a Pier Michele Benvegnù, suo figlio che abita a Firenze e che è rimasto piacevolmente colpito. Poi mi dispiace molto che l’archivio fotografico di Impero Nocentini non sia stato conservato, sarebbe stato assai importante per la storia del Crp di Laterina”. C’è qualcos’altro da aggiungere?

Certo, il signor Giovanni Trillo, già scolaro in Crp, che oggi vive in provincia di Pisa, come da suo desiderio – ha concluso Claudio Ausilio – ha tenuto un lungo colloquio telefonicamente con la sua maestra degli anni ‘50 Emilia Carmignani, è stato molto commovente assistere a quell’incontro tra uno scolaro oggi ultrasettantenne e la sua insegnante del tempo”.

Fonti orali – L’intervista telefonica collettiva alle seguenti persone si è svolta il 25 ottobre 2022 con contatti preparatori di Claudio Ausilio. Ringrazio tutti gli interessati.

– Claudio Ausilio, Fiume 1948, esule a Montevarchi (AR), messaggi e-mail del 26 ottobre 2022.

– Emilia Carmignami, Terranuova Bracciolini (AR) 1935, vive a Loro Ciuffenna (AR).

– Impero Luigi Nocentini, San Giustino Valdarno, frazione di Loro Ciuffenna (AR) 1938.

– Giuliana Stoppielli, Terranuova Bracciolini (AR) 1933.

Fonti archivistiche

Premesso che potrebbero esserci alcuni errori materiali di scrittura, ecco i testi della ricerca presente; i materiali sono stati raccolti da Claudio Ausilio, dell’ANVGD di Arezzo.

– Comune di Laterina (AR), Elenco alfabetico profughi giuliani, 1949-1961, ms.

Presso l’Istituto Comprensivo “Francesco Mochi” di Levane (AR) da Claudio Ausilio sono stati consultati i seguenti documenti:

– Provveditorato agli studi di Arezzo, Comune di Laterina, Circolo Didattico di Montevarchi, Frazione C.R.P., Scuola Elementare Laterina C.R.P., Registro della classe 4^ mista, insegnante Emilia Carmignani, anno scolastico 1956-1957, pp. 23+10, stampato e ms.

– Provveditorato agli studi di Arezzo, Comune di Laterina, Scuole elementari, Circolo Didattico di Montevarchi, Scuola Elementare C.R.P., Registro della classe 3^ mista, insegnante Giuliana Stoppielli, anno scolastico [1956-1957], pp. 30, stampato e ms.

Collezioni familiari

  • Claudio Ausilio e Archivio ANVGD di Arezzo, fotografie.
  • Emilia Carmignani, Loro Ciuffenna (AR), fotografia.
  • Collezione privata, Arezzo, disegni e temi di scolari.

Foto sopra: Emilia Carmignani e Impero Nocentini negli anni ’50. Collezione di Emilia Carmignani.

Bibliografia

– GIULIANA PESCA – SERENA DOMENICI – GIOVANNI RUGGIERO, Tracce d’esilio. Il C.R.P. di Laterina 1948-1963. Tra esuli istriano-giuliano-dalmati, rimpatriati e profuganze d’Africa, Città di Castello (PG), Biblioteca del Centro Studi “Mario Pancrazi”, Edizioni NuovaPrhomos, 2021.

– ELIO VARUTTI, La patria perduta. Vita quotidiana e testimonianze sul Centro raccolta profughi Giuliano Dalmati di Laterina 1946-1963, Firenze, Aska, 2021. Dal mese di ottobre 2022 anche in formato e-book.

Ringraziamenti

La redazione del blog per l’articolo presente è riconoscente al signor Claudio Ausilio, esule da Fiume a Montevarchi (AR), socio dell’ANVGD provinciale di Arezzo, per aver fornito con la consueta cortesia i materiali per la ricerca presso l’Archivio del Comune di Laterina e di Levane (AR), andando a incrementare una tradizionale e collaudata collaborazione con l’ANVGD di Udine. Oltre alle fonti orali, si ringraziano gli operatori e le autorità del Comune di Laterina e dell’Istituto Comprensivo “Francesco Mochi” di Levane (AR), per la collaborazione riservata all’indagine storica.

Testi di Elio Varutti. Ricerche di Claudio Ausilio e E. Varutti. Networking a cura di Girolamo Jacobson, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio, Marco Birin. Copertina: Il seminatore, disegno di Renata Blasich, scolara al Crp di Laterina, 1957, Collezione privata, Arezzo. Altre fotografie da collezioni citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede via Aquileia, 29 – primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine.  – orario: da lunedì a venerdì ore 9,30-12,30.  Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. Vicepresidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Sito web:  https://anvgdud.it/

Visita a Pola del sindaco di Laterina con Gualtiero Mocenni, esule nel 1956 al Campo profughi aretino

“Ecco come la storia personale di una famiglia di artisti, di veri maestri, diventa anche storia di un pezzo di Italia che Italia non è più”. Così si è espressa l’ingegnere Simona Neri, sindaco di Laterina Pergine Valdarno (AR), in visita a Pola, in Istria, il 12 agosto 2021. Le hanno fatto da ciceroni i Maestri scultori Gualtiero e Simone Mocenni, padre e figlio, che hanno tanto amore per l’Istria, terra natale di Gualtiero, esule nel 1956 nel Centro raccolta profughi di Laterina.

Il sindaco Simona Neri si trovava in vacanza in Istria e nel resto della Croazia. A metterli in contatto è stato il comune amico Claudio Ausilio, un fiumano dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Delegazione Provinciale di Arezzo, da tempo impegnato nel ricostruire la memoria dei difficili anni del Crp di Laterina, attivo ufficialmente dal 1948 al 1963. Nelle baracche di quel Crp sono passati oltre 10mila profughi d’Istria, Fiume e Dalmazia, assieme agli italiani espulsi dal Dodecaneso, dalle ex colonie africane e da certi paesi della storica emigrazione italiana, come la Romania e la Tunisia.

Pola, agosto 2021, Simona Neri, sindaco di Laterina Pergine Valdarno con gli scultori Mocenni, a sinistra, vicino alla scultura di Gualtiero Mocenni, I quattro elementi, 1990, cemento bianco altezza mt.10.

“Tra le tante cose che ha fatto nella vita Gualtiero Mocenni – ha aggiunto Simona Neri – c’è quella di essere stato ospite al Crp di Laterina e tanti sono gli aneddoti che ha raccontato, uno per tutti: la richiesta da parte di un negoziante di un dipinto raffigurante il paese in cambio di un paio di scarpe”. Ciò a dimostrazione di una certa integrazione sociale tra profughi e paesani verificatasi sin dagli anni ‘50.

Gualtiero Mocenni (pittore e scultore) e il figlio Simone (non solo pittore e scultore, ma anche poeta e scrittore) sono presenti con le proprie opere nelle più grandi gallerie d’arte mondiali e hanno partecipato a decine di simposi di scultura internazionale; le loro opere si trovano in più di 70 piazze di città di tutto il mondo.

Stando sul tema dell’esodo giuliano dalmata nel mese di luglio 2021 il sindaco Simona Neri ha espresso un giudizio lusinghiero sul libro “Tracce d’esilio. Il Crp di Laterina 1948-1963 tra esuli istriano giuliano dalmati, rimpatriati e profuganze d’Africa”, scritto a più mani da Giuliana Pesca, Serena Domenici e Giovanni Ruggiero.

Pola 2021, lo scultore Gualtiero Mocenni mentre riguarda una delle opere

Bibliografia

Giuliana Pesca – Serena Domenici – Giovanni Ruggiero, Tracce d’esilio. Il C.R.P. di Laterina 1948-1963. Tra esuli istriano-giuliano-dalmati, rimpatriati e profuganze d’Africa, Città di Castello (PG), Biblioteca del Centro Studi “Mario Pancrazi”, Edizioni NuovaPrhomos, 2021.

E. Varutti, La patria perduta. Vita quotidiana e testimonianze sul Centro raccolta profughi Giuliano Dalmati di Laterina 1946-1963, Firenze, Aska, in fase di pubblicazione.

Sitologia sugli scultori Mocenni   

https://eliovarutti.wordpress.com/tag/gualtiero-mocenni/

https://www.enciclopediadarte.eu/scheda-mobile.asp?id=836

https://www.enciclopediadarte.eu/scheda-mobile.asp?id=837

Progetto e attività di ricerca: Claudio Ausilio, ANVGD di Arezzo. Testi di Elio Varutti, Coordinatore del gruppo di lavoro storico-scientifico dell’ANVGD di Udine. Networking a cura di Girolamo Jacobson, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Foto di copertina: Gualtiero Mocenni, Monumento alla città di Pola, 1979, ferro, mt. 7x7x7. Il sindaco di Laterina Pergine Valdarno, Simona Neri, vicino all’autore della scultura e al figlio Simone Mocenni in una foto a Pola nel 2021. Lettori: Simona Neri, Claudio Ausilio e Stefano Mocenni. Adesioni al progetto: Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine. Fotografie della collezione di Simona Neri e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia, 29 – primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine.  – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30.  Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.  

Un libro sui profughi istriani del Villaggio S. Marco di Fossoli di Carpi (MO)

Colma una certa lacuna il volume di Roberto Riccò sul Villaggio San Marco di Fossoli, attivo dal 1954 al 1970. È ben vero che c’era già un testo miscellaneo assemblato in occasione dei 60 anni della sua nascita per il Convegno nazionale di studi a cura del Comitato Provinciale di Modena dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD). Detto elaborato è stato edito nel 2016. Mancava, tuttavia, un lavoro che raccogliesse ampie testimonianze dei protagonisti di quel momento di vita, dopo la fuga dall’Istria, Fiume e Dalmazia, fino all’integrazione nella società locale con le grandi difficoltà incontrate, poiché la popolazione autoctona aveva una visione politica di stampo comunista, mentre gli esuli fuggivano proprio dalle prevaricazioni dei comunisti iugoslavi, che occupavano le case, requisivano loro le ditte, i campi, i patrimoni, il letto e le sedie a favore del popolo iugoslavo. Le nuove autorità insediatesi non tenevano conto che soprattutto sulla costa gli antenati degli italiani d’Istria erano prevalentemente di lingua e di cultura veneziana, bizantina e romana. Il Regno d’Italia è arrivato nel 1918 e il fascismo dopo il 1922, andando a segnare sui libri di storia la pesante esperienza del cosiddetto fascismo di confine, la bonifica linguistica degli alloglotti, la proclamazione delle Leggi razziali nel 1938 e l’invasione della Jugoslavia nel 1941, sotto le forze dell’Asse. Di conseguenza gli iugoslavi vedevano in ogni italiano un fascista su cui rifarsi ammazzandolo nella foiba, per vendetta o per programmata pulizia etnica ordita dall’Ozna, il servizio segreto delle milizie di Tito.

Tali aspetti sono presentati nella prima parte del libro, trasformandolo in un grande atto di divulgazione. Poi c’è la cronistoria dell’arrivo a Fossoli delle prime famiglie di profughi istriani e del loro contrastato inserimento sociale, fino all’assegnazione degli appartamenti definitivi in via Ponente a Carpi, durante gli anni ’70.

Andiamo per ordine. Ci sono 7 fasi di attività del Campo di Fossoli. Sorto nel 1942, quando il Regio esercito italiano piantò delle tende per accogliere i prigionieri di guerra militari inglesi, sudafricani e neozelandesi, era il P.G. 73, ossia Campo di Prigionia n. 73, dove passarono 5.000 prigionieri. Dal 5 dicembre 1943 viene trasformato in Campo di concentramento per ebrei della Repubblica Sociale Italiana (RSI). Sotto la scorta armata di militi italiani partono i primi convogli di ebrei per i campi di sterminio nazisti. Il 22 febbraio 1944, col secondo trasporto, viaggia nei carri bestiame anche Primo Levi, arrestato nel dicembre 1943 in Valle d’Aosta con un gruppo partigiano. In quel periodo la struttura consta di decine di baracche in mattoni, tutte smantellate in seguito, è il cosiddetto Campo vecchio. Il 15 marzo 1944 è trasformato dai nazisti in Campo di Polizia e di Transito. È il principale Campo di concentramento italiano, dato che il lager di San Sabba a Trieste era in una zona di operazioni del Terzo Reich, non facendo più parte dell’Italia. Da Fossoli partono 2.844 ebrei e 2.000 reclusi politici.

Il 2 agosto 1944, con l’avanzare del fronte bellico, il Campo è chiuso e trasferito a Bolzano-Gries, così Fossoli è un centro di raccolta destinata al lavoro coatto nei territori del Reich con la Organizzazione Todt. Dopo la fine del conflitto il Campo accoglie i fascisti e i collaborazionisti militari e civili. Dal mese di agosto 1945 al 1947 accoglie profughi ed ebrei reduci dai campi di concentramento nazisti. Dal 1947 al 1952 don Zeno Saltini accoglie oltre 1.000 bambini e ragazzi abbandonati e orfani. Nel 1954 vengono costruiti 16 edifici per accogliere i profughi d’Istria, Fiume e Dalmazia fino al 1970; essi fuggono dalle loro terre assegnate dal Trattato di pace alla Jugoslavia. Si trattava di 250 famiglie, per 1.500 persone.

L’Autore del libro ha potuto effettuare le sue ricerche presso l’Archivio storico comunale di Carpi e nell’Archivio storico diocesano della cittadina modenese, oltre che nell’Istituto storico della Resistenza di Modena. Oltre che dell’aiuto della Banca Popolare dell’Emilia Romagna, la pubblicazione gode della collaborazione dell’Università della Terza Età locale e dell’ANVGD di Modena.

Il volume qui recensito

Roberto Riccò, Quegli strani italiani del Villaggio San Marco di Fossoli, «Terra e identità», n. 89, Modena, 2019, pagg. 192, con fotografie b/n, euro 12.

info@terraeidentita.it

Recensione di Elio Varutti. Ricerche e Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Fotografie di Elio Varutti, Paolo De Luise e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Foibe e esodo giuliano dalmata, toponomastica del ricordo a Cascina (Pisa)

Riceviamo e volentieri pubblichiamo in questo blog l’articolo, giunto da Trieste, di Laura Brussi, esule da Pola e delegata per il Lazio dell’Associazione Nazionale dei Congiunti di Deportati dispersi in Jugoslavia e nelle zone del confine orientale (ANCDJ), Volontariato per non dimenticare. L’intitolazione di nuove strade o piazze ai personaggi dell’esodo giuliano dalmata è all’ordine del giorno in alcune località italiane. Qui si viene a sapere ciò che ha fatto la Civica amministrazione di Cascina, in provincia di Pisa. Ringraziamo l’autrice per averci inviato l’interessante articolo ed auguriamo ai lettori una buona lettura (E.V.)

La Legge 30 marzo 2004 n. 92, che ha istituito il “Giorno del Ricordo” con voto pressoché unanime, continua a promuovere iniziative in ambito toponomastico da parte di molti Comuni: al riguardo, un riferimento speciale compete a quello di Cascina, in agro di Pisa, dove sono state inaugurate tre nuove denominazioni di altrettante piazze, dedicate rispettivamente agli Esuli, ai Martiri delle Foibe ed a Norma Cossetto, la giovane studentessa istriana insignita di Medaglia d’Oro al Valore nel 2006, ad iniziativa del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Si è trattato di un evento particolarmente significativo, se non altro perché contraddistinto – unico in Italia – dalla contemporaneità di tre nuove intitolazioni, volute dal Comune della città toscana senza distinzioni di appartenenza politica.

La suggestiva cerimonia si è tenuta il 21 settembre 2019, con l’intervento delle massime cariche comunali, di Autorità civili e militari, Organizzazioni del mondo esule, Associazioni d’Arma e cittadinanza. L’evento ha coinvolto, oltre al capoluogo, anche le frazioni di Navacchio e Zambra, a testimonianza della commendevole volontà di dare un segnale importante e tangibile a tutto il territorio del Comune ed ai suoi 45 mila abitanti.

Oratore ufficiale è stato il Sindaco reggente di Cascina, Dario Rollo, che ha sottolineato il valore etico dell’iniziativa, nel quadro di una partecipazione alla tragedia di un intero popolo che intende essere perenne; nella condivisione dei valori per cui si immolarono i Martiri delle Foibe e per cui gli Esuli scelsero in larghissima maggioranza l’impervia via della diaspora rifiutando l’ateismo di stato ed il collettivismo forzoso; e nella necessità di onorare compiutamente il sacrificio di quanti seppero anteporre l’idea di Patria ad ogni opportunismo contingente. Martiri ed Esuli, come è stato sottolineato nella prolusione di Rollo, hanno diritto al Ricordo, nella stessa misura in cui il momento politico ha il dovere di promuoverlo, se non altro per consentire ai troppi ignari l’apprendimento di una storia complessa e terribile.

Il saluto delle Organizzazioni Esuli, ed in particolare dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia – Comitato di Pisa, unitamente all’affermazione dei comuni valori, è stato portato da Guido Giacometti, anche in nome della Presidente Rossella Bari, impossibilitata a presenziare.

Hanno fatto seguito alcuni interventi di parte Esule, con particolare riguardo a quelli di Roberto Luis Picchiani di Borbone, Esule da Arsia (Albona) e figlio di padre Infoibato; di Claudio Bronzin, Esule da Pola sopravvissuto alla strage di Vergarolla e congiunto di una Vittima dell’eccidio; di Carlo Cesare Montani, Esule da Fiume, storico e pubblicista. Il tutto, accompagnato dalle note del Silenzio ad ogni singola scopertura, e dalla lettura dei Nomi di 39 cittadini di Pisa e provincia tragicamente scomparsi nelle Foibe od altrimenti massacrati dai partigiani di Tito, tra cui quello del Brigadiere Aldo Cipolli, cittadino di Cascina, a conferma dell’estensione di quel dramma epocale a tutta la collettività italiana.

Una delle nuove intitolazioni stradali a Cascina (PI)

Nel dettaglio, Picchiani ha testimoniato l’agghiacciante vicenda del padre Alberto, Vice Direttore Generale della Miniera di Arsa (gestita dall’Azienda Carboni Italiani con circa diecimila occupati) infoibato a Vines  durante la “prima ondata” del 1943 insieme a tanti collaboratori – anche operai – per la sola colpa di avere compiuto il proprio dovere, e con un comportamento davvero eroico davanti ai suoi aguzzini compendiato nell’ultimo grido: “Viva l’Italia”!

Bronzin ha ricordato come la strage di Vergarolla, compiuta per mano dell’OZNA – la polizia politica di Tito – il 18 agosto 1946, e quindi ad un anno e mezzo da fine guerra, sia stata il più grande eccidio avvenuto in Italia nel tempo di pace, in cui assieme alla sua zia persero la vita non meno di 110 Vittime, in larga maggioranza donne e bambini; ed ha concluso rammentando la triste vicenda degli oltre cento campi di raccolta dei profughi diffusi in tutta Italia, dove tanti Esuli trovarono sistemazioni precarie, e spesso allucinanti, senza dire che alcuni di tali tristissimi luoghi restarono in funzione sino all’inizio degli anni Settanta. 

Infine, Montani – dopo avere dato atto al Comune della sensibile attenzione manifestata nei confronti del mondo Esule e dei valori non negoziabili – ha tracciato una sintesi della figura di Norma Cossetto, assurta a simbolo del martirio di tutto il popolo giuliano, istriano e dalmata, tanto da essere stata insignita della laurea “ad honorem” da parte dell’Università di Padova, e più tardi della Medaglia d’Oro al Valore, a fronte del comportamento eroico assunto nei confronti dei partigiani che avrebbero voluto la sua collaborazione, e dei suoi diciassette assassini, optando per una morte terribile piuttosto che tradire; ed ha concluso sottolineando che il Ricordo non deve limitarsi ad essere fine a se stesso, elevandosi a motivo di ragionata speranza e di fede in un autentico riscatto morale e civile, mutuato dall’esempio di Norma e di tutti gli altri Martiri.

L’Amministrazione comunale di Pisa, tramite il Consigliere Maurizio Nerini, ha recato la propria adesione, non senza ricordare che anche la Città capoluogo ha contribuito al Martirio giuliano, istriano e dalmata con sette Caduti di cui alla precedente lettura, e che ha già onorato il sacrificio degli Infoibati nella propria toponomastica, confermando la piena disponibilità del Comune per ogni utile sinergia in concomitanza con le future celebrazioni del Ricordo.

È utile aggiungere che, nei quindici anni intercorsi dalla promulgazione della Legge 92, sono già stati concessi circa 1.200 riconoscimenti in onore delle Vittime – fra cui tre cittadini della provincia pisana: Anacleto Bacchi, Vincenzo Vincenzi e Rolando Zingoni – previa domanda da parte dei congiunti aventi causa; ma bisogna ribadire che molto resta da fare, tenuto conto che i Caduti di quella stagione plumbea (1943-1947) furono quasi ventimila come da precisa testimonianza dello storico istriano Luigi Papo, e senza dire che le intitolazioni toponomastiche sono pervenute a circa settecento, pari a meno del dieci per cento dei Comuni. Ecco un buon motivo in più per sottolineare con favore il ruolo di iniziative plurime come quella di Cascina, mutuate da un impegno volitivo che si pone come carattere peculiare della migliore politica, intesa secondo l’antica definizione quale arte di operare nella vita associata al servizio del bene comune.

Laura Brussi

Associazione Nazionale dei Congiunti di Deportati dispersi in Jugoslavia e nelle zone del confine orientale, Volontariato per non dimenticare – Trieste

Cenni sitologici

“Foibe, esodo istriano, Norma Cossetto: intitolate tre piazze a Cascina”, «Pisatoday», on line dal 21 settembre 2019.

Potrebbe interessarti: https://www.pisatoday.it/cronaca/foibe-esodo-istriano-norma-cossetto-intitolate-piazze-cascina.html?fbclid=IwAR3k6oWLrF8l99Oq4Y0C3PNyGasSNp_42oSXi8Jp7ppbp4YlOEVSVdurLms

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Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Fotografie inviate in redazione da Laura Brussi. Altre immagini dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Fede sessantennale. Onore al primo Sindaco di Pola in esilio, Bruno Artusi, di Carlo Cesare Montani

Riceviamo e pubblichiamo con piacere un ricordo riguardo al primo sindaco del Comune di Pola in esilio, scritto da Carlo Cesare Montani, e diffuso nel web, dal mese di agosto 2019, nel sito http://www.storico.org/italia_boom_economico/fede_sessantennale.html

L’articolo descrive anche la situazione in Istria, a seguito alla strage di Vergarolla, del 18 agosto 1946. È l’opinione militante di un esule delle terre adriatiche, che merita una lettura attenta per comprendere meglio ciò che accadde in Istria, a Fiume e in Dalmazia dopo la seconda guerra mondiale. Si capisce pure come si è mosso il mondo associativo dell’esodo giuliano dalmata. Si ringrazia l’autore per avercelo inviato. Ecco il brano di Carlo Cesare Montani (e.v.)

Ricordi e riflessioni nel LX anniversario della Comunità Esule da Pola. Sono passati 60 anni da quell’ormai lontano 1959 quando si tenne a Novara, per iniziativa (1) di Bruno Artusi (1914-1985), il primo incontro degli Esuli da Pola che poi assunse cadenze annuali e che già nel 1967 avrebbe dato luogo alla fondazione del Libero Comune in Esilio, il cui primo Sindaco fu eletto, all’unanimità, nella persona dello stesso Artusi. Vale la pena di rammentare che il suo appello venne raccolto da altri diciotto patrioti benemeriti, animati da una sola fede e da un impegno pienamente condiviso: Pompeo Bilucaglia, Andrea Brussi, Giuseppe Calligaris, Pierantonio Della Mora, Lino De Prato, Lino Drabeni, Ervinio Kukenak, Paolo Jessi, Arturo Luchi, Arturo Marini, Luciano Mozzato, Mario Mozzato, Franco Novaro, Luigi Rose, Sandro Salini, Ugo Schilke, Luigi Tassistro, Ferruccio Ughi. Erano uomini di varia estrazione: dirigenti, professionisti, militari, e via dicendo, ma accomunati da un forte desiderio di “ritrovarsi assieme ricostituendo l’unità nella diaspora” (2) e da un’altrettanto viva nostalgia della terra natale: tutti buoni motivi per onorarne la memoria e per sottolineare la validità etico – politica del loro impegno.

Erano passati parecchi anni dall’Esodo, che per la cittadinanza di Pola si era concentrato nel primo trimestre del 1947, in concomitanza col “Diktat” del 10 febbraio. ed i problemi con cui era stato necessario confrontarsi in tempo reale avevano avuto drammatica priorità, a cominciare dagli “sforzi per trovare lavoro e casa” (3) e per elidere le allucinanti esperienze dei campi di raccolta.

Non appena superato il momento dell’emergenza, la forza morale di Artusi seppe trovare risposte fortemente vincolanti, tanto che nel giro di pochi anni la partecipazione agli incontri annuali avrebbe raggiunto dimensioni di grande rilievo, nell’ordine delle centinaia di presenze, assicurate da persone unite non tanto dal desiderio di ritrovarsi e di stemperare nell’amicizia l’amarezza dell’Esilio, umanamente comprensibile, quanto dalla volontà di esprimere un progetto organizzativo, e quindi politico, come quello che si sarebbe tradotto nella costituzione del Libero Comune, nella civile protesta per le prevaricazioni subite, nel ricordo incancellabile delle Vittime, e nella fondamentale richiesta di giustizia. Un progetto come quello che, pur tra mille difficoltà, ne ha caratterizzato un lungo e complesso percorso.

Bruno Artusi

Bruno Artusi, come emerge dalle cronache dell’epoca, era un personaggio straordinario che si era battuto fino all’ultimo per la difesa della propria terra rischiando ripetutamente la vita e dimostrando tante doti di grande coraggio (4) ma ciò non gli aveva impedito di assumere comportamenti di appassionata umanità e di sincera fratellanza, da cui scaturiva un carisma destinato a trascinare tanti concittadini ed a promuovere un disegno unitario che oggi sarebbe riduttivo circoscrivere alla semplice milizia associativa. Artusi non voleva e non poteva darsi per vinto, perché era Uomo di fede e di speranza: non importa se gran parte dell’opinione pubblica stava dimenticando il grande dramma che si era compiuto in Istria, a Fiume e in Dalmazia, o se talvolta “persino i figli” parevano adagiarsi in un triste disinteresse (5): bisognava continuare la lotta e rispondere alla chiamata del dovere, prescindendo dalle opportunità di successo contingente.

Un evento di particolare spessore nell’esperienza di Artusi quale Sindaco di Pola in Esilio ebbe luogo al Vittoriale degli Italiani, il celebre eremo di Gabriele d’Annunzio, il 14 giugno 1974, in occasione del XVIII Raduno nazionale degli Esuli dal capoluogo istriano, quando venne scoperta una  lapide, molto significativa, volta a perpetuare  nel lungo termine il ricordo di quella così orribile tragedia (6). Nell’occasione, sulla tolda della nave “Puglia” che aveva vissuto il dramma di Spalato all’epoca dell’Impresa di Fiume (iniziata il 12 settembre 1919 e conclusa col Natale di Sangue del 1920) venne concelebrata una Santa Messa da Mons. Felice Odorizzi e da Don Marcello Glustich, per sottolineare la tradizionale convergenza tra patriottismo e fede cristiana del mondo giuliano, istriano e dalmata: un messaggio che è cosa buona e giusta ricordare e sottolineare.

Oggi, la lezione del primo Sindaco di Pola in Esilio merita di essere riproposta, non solo agli Esuli della prima generazione che conobbero Artusi ed i compagni di fede che furono pronti a raccogliere il suo appello (7) ma prima ancora, ai loro eredi, perché non vengano meno all’obbligazione, in primo luogo morale, di coltivare il “nobile sentire” dei padri fondatori, senza dimenticare il “forte agire” che in momenti decisivi della storia giuliana e dalmata era stato necessario onorare in concreto, e di cui lo stesso Artusi aveva dato prove sicure, a cominciare dall’ultima difesa dell’Istria italiana.

Il sessantennio trascorso da quel primo incontro del 1959, contestuale ad un’altra scopertura emblematica, quella del coinvolgente monumento di Basovizza eretto sulla Foiba a simboleggiare la memoria di una tragedia incancellabile nel cuore degli Esuli e di tutti gli Italiani di buona volontà, ha visto mutazioni assolutamente imprevedibili nella congiuntura politica, a cominciare dal crollo del comunismo e dalla dissoluzione della ex Jugoslavia, cosa che conferma – anche a posteriori – la validità e l’attualità delle speranze di Artusi. La storia non si fa con le ipotesi, ma almeno per un istante è lecito supporre quanto diversamente si sarebbe potuta evolvere se analoga fede ed analoga speranza non fossero state patrimonio di pochi.

Si è detto che bisogna adeguarsi perché in caso contrario si finisce per scomparire. Nel mondo globale, caratterizzato da accelerazioni altrettanto impensabili, il ragionamento assume evidenze lapalissiane, ma ciò non vuol dire che si debba andare ad appiattirsi sulle suggestioni del consumismo, o peggio del relativismo etico, col trionfo conseguente delle apparenze e delle attenzioni per la forza corruttrice del denaro. Al contrario, l’adeguamento in termini di progettazione e di ragionevole realismo politico non deve prescindere dalle “alte non scritte ed inconcusse leggi” di antica memoria che governano da qualche millennio il cuore degli uomini veri, e per le quali molti di costoro hanno sacrificato la propria vita, come la storia giuliana, istriana e dalmata ha manifestamente dimostrato.

L’esempio di Bruno Artusi resta emblematico, anche in tal senso, come quello di un uomo di cultura che sapeva essere pragmatico e gioviale, realista e schietto, ma che non si sarebbe mai piegato alla logica del compromesso ed all’accantonamento se non anche al ripudio dei grandi principi per cui si era sempre battuto. Quella che ci ha lasciato è una lezione permanente perché esprime un valore insostituibile, a cui si debbono uniformare, pur nell’opportuna duttilità indotta dalle circostanze, tutti i comportamenti e tutte le opzioni. Una lezione su cui riflettere, che merita un ossequio non soltanto alla persona, ma nello stesso tempo alla fede che seppe interpretare per tutta la vita senza resipiscenze e senza l’ombra di alcun dubbio.

E’ cosa ottima e significativa che il Libero Comune di Pola in Esilio abbia avuto, quale primo Sindaco, un Uomo come Artusi, che nel ventennio del suo lungo mandato fu capace, senza soluzioni di continuità, di porsi – per dirla con Dante – quale “torre ferma che non crolla giammai pel soffiar de’ venti”, costituendo un modello imprescindibile per chi è venuto dopo e per chi verrà in avvenire.

Carlo Cesare Montani

Annotazioni:

(1) – Bruno Artusi (Pola, 18 agosto 1914 – Novara, 15 settembre 1985) è stato un patriota “senza macchia e senza sconfitta” come attestano, fra l’altro, le onorificenze di Cavaliere e di Commendatore al merito della Repubblica che gli vennero conferite. Arruolato nei Bersaglieri all’inizio della guerra e pervenuto al grado di Capitano, dopo il disastro dell’armistizio (1943) non ebbe alcun dubbio circa la scelta patriottica da effettuare, e fu Comandante di una formazione volontaria del Reggimento “Istria” appartenente alla Milizia per la Difesa Territoriale battendosi fino all’ultimo per la salvaguardia della sovranità italiana sulla Venezia Giulia e sulla sua città: condannato in contumacia alla pena di morte dalla cosiddetta “giustizia popolare” slava, fu sempre orgoglioso di essere stato fedele al proprio dovere di Italiano. Esule assieme ad una larghissima maggioranza di concittadini, decise di stabilirsi a Novara proseguendo nell’insegnamento di Educazione Fisica già iniziato nel 1936 dopo gli studi presso il Liceo Ginnasio “Giosuè Carducci” di Pola, e dedicando il tempo libero al mondo dell’Esilio, dapprima in campo assistenziale e cooperativo, concretizzando la realizzazione del “Villaggio Dalmazia” con 302 alloggi destinati ai profughi; e poi nel contesto organizzativo, dove ebbe incarichi di rilievo come quelli di Presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Comitato di Novara), di Vice Presidente dell’Unione degli Istriani e di Consigliere dell’Associazione Nazionale Italia Irredenta. Soprattutto, ebbe un ruolo decisivo nella fondazione del Libero Comune di Pola in Esilio (1967) di cui fu Sindaco per 18 anni fino alla dolorosa scomparsa avvenuta nel generale cordoglio poco prima dell’udienza che il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga avrebbe concesso ad una delegazione Esule, e di quella con cui il Sommo Pontefice Giovanni Paolo I accolse in sala Nervi circa 10 mila giuliani, istriani e dalmati (26 ottobre 1985) alla presenza spirituale di quanti, come Bruno Artusi, erano “andati avanti”.

(2) – Lino Vivoda, L’Associazione “Libero Comune di Pola in Esilio: sessant’anni di cronache della diaspora polesana, Edizioni de “L’Arena di Pola”, Trieste 2005, pag. 18. Si deve aggiungere che al primo incontro dei diciannove patrioti parteciparono anche alcune signore, e che i “padri fondatori” non mancarono di partecipare a tutti quelli successivi fino al “forzato abbandono del campo” confermando con tale continuità esemplare il proprio convincimento, e nello stesso tempo, la propria identificazione nel messaggio e nell’impegno di Artusi.

(3) – Ibid., pag. 18. Il problema del lavoro e della casa fu quello per cui molti profughi avvertirono in misura più straziante lo “sradicamento” descritto con accenti commossi, fra i tanti, da un grande patriota ed operatore di volontariato benefico come Don Luigi Stefani, Cappellano militare della Divisione “Tridentina” ed Esule da Zara. Giova aggiungere che, nonostante le prevedibili difficoltà logistiche e le accoglienze non sempre ottimali ricevute in Patria, alla fine dell’Esodo plebiscitario i cittadini di Pola che scelsero l’impervia via della diaspora pur di non accettare l’ateismo di Stato, la collettivizzazione forzosa ed il tragico rischio della morte in foiba od in una strage proditoria come quella delle 110 Vittime di Vergarolla (18 agosto 1946), avrebbero raggiunto il 92 per cento: quelle che rimasero in una città diventata spettrale furono circa tremila persone, costituite da anziani malati ed impossibilitati a partire, e da una quota sostanzialmente marginale di comunisti dichiarati (per maggiori dettagli circa le partenze da Pola nel primo trimestre del 1947, che ne vide la massima concentrazione, cfr. Raoul Pupo, Il lungo Esodo – Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli Storica, terza edizione, Milano 2005, pagg. 135-141).

(4) – Tra le varie fonti storiografiche in cui si è testimoniato l’impegno di Bruno Artusi nell’ultima difesa della sua terra, cfr. Gaetano La Perna, Pola Istria Fiume (1943-1945): L’agonia di un lembo d’Italia e la tragedia delle foibe, Edizioni Mursia, Milano 1993, pagg. 218-222. L’azione di Artusi e dei suoi commilitoni si tradusse in “missioni diverse e talvolta anche delicate come quando si trattò di fornire protezione ai Vigili del Fuoco impegnati in Istria nel recupero delle salme di coloro che erano stati gettati nelle foibe” dopo la prima ondata del 1943 (Ibid., pag. 222).

(5) – Lino Vivoda, Bruno Artusi e gli Esuli da Pola, Edizioni PACE, Cremona 1986, pag. 34 (dall’intervista rilasciata all’On. Nino de Totto per “Il Secolo d’Italia” del 7 febbraio 1981). “L’unica nostra grave colpa – proseguiva Artusi – é stata quella di amare disperatamente la Patria anche di fronte allo spettacolo indegno dei troppi che la rinnegano”. Conclusione tanto più condividibile anche oggi, perché tristemente attuale.

(6) – Come recita il testo della lapide installata al Vittoriale di Gardone: “Gli Esuli di Pola e dell’Istria / privati della terra natia / onorano e ricordano / nel nome d’Italia / tutti i fratelli / trucidati in Istria / e quelli morti / nei campi profughi / e nell’Esilio / uniti ai Combattenti / Caduti per la Patria / durante i vari conflitti / europei e mondiali / senza  alcuna distinzione / di parte”. Per ulteriori notizie in materia, cfr. Lino Vivoda, L’Associazione Libero Comune di Pola in Esilio: sessant’anni di cronache della diaspora polesana, op. cit., pag. 27.

(7) – Gli Esuli da Pola manifestarono costante adesione agli indirizzi di Bruno Artusi per tutta la durata del suo mandato, e non solo. Non a caso, all’incontro annuale del 1976, ventesimo della serie, che si tenne a Padova, furono quasi cinquecento coloro che intervennero per salutare il Sindaco, rivolgergli un caldo ringraziamento per la costante attività rivolta “a riunire i fratelli sparsi dalla diaspora” e dargli ulteriore testimonianza del loro affetto (cfr. Lino Vivoda, Bruno Artusi e gli Esuli da Pola, op. cit., pag. 106).

Copertina: Prof. Bruno Artusi al Vittoriale degli Italiani, 9 giugno 1974

Servizio redazionale e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Fotografie da collezione privata di Carlo Cesare Montani, esule da Fiume.

Grandi famiglie italiane. Gli Smoquina di Fiume

Vorrei raccogliere la saga delle grandi famiglie d’Istria, Fiume e Dalmazia. In questo senso, inizio qui a descrivere la vicenda degli Smoquina di Fiume, amici dei costruttori Conighi, degli imprenditori Rudan e di altri personaggi del Golfo del Quarnero. Mi viene in mente il romanzo della memoria intitolato Sulla scia del dragòn, di Andrea Molocchi, del 1993, imperniato sulla ricerca di un vecchio amico della nonna Rosetta, esule dalmata, un ex-dragone della cavalleria austro-ungarica, ormai centenario. Quella nonna Rosetta, nata a Zara nel 1892, ha degli amici italiani di Spalato che, nel 1921, sono costretti all’esilio poiché la Dalmazia passa sotto il neonato Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni. Sono storie complesse, poco raccontate a scuola, soprattutto per quegli altri fatti accaduti nel 1944-1945, quando i titini a Spalato incarcerano e uccidono gli italiani. Nel romanzo di Molocchi l’italiano eliminato dai titini è il tale Riccardo Pavan (p. 41). Siamo nel mondo della fantasia e della creatività, tuttavia qualcosa di vero, in veste storica, c’è.

Antonio Smoquina, Fiume 1882-Brescia 1957

Restando attorno al tema della memoria, dalla finzione del romanzo passiamo alla realtà, con tanto di dialetto fiumano messo in primo piano, per abbozzare la biografia di Antonio Smoquina (Fiume 1882-Brescia 1957) figlio di Leopoldo, costui nato a Fiume nel 1858, e di Maria Giurissevich. Antonio è militare dell’esercito austro-ungarico nel 1914-1918. È coniugato con Elisabetta Gregorutti che, nel 1947, lo segue nell’esilio a Concesio (BS), presso parenti. Suo suocero è il maestro del lavoro Alfonso Gregorutti, che a Fiume, il 5 luglio 1921, conclude il IV Corso della Scuola di Meccanica Navale, con una decina di allievi. “I genitori del mio bisnonno Alfonso – ha ricordato Lucilla Smoquina – erano Giuseppe Gregorutti e Giuseppina Pabst”.

Erano fiumani pure gli antenati Smoquina? “Sì certo, il padre di Leopoldo, ancora Antonio di nome, del 1805, quindi il nonno di mio nonno – ha precisato la signora Lucilla – a Fiume era proprietario di un fòndaco, ossia un magazzino per forniture navali, ed era in società con l’ingegnere fiumano Ossoinack e con un certo Cattinelli, marchigiano, per l’esercizio commerciale di un vascello, il Sollecito, impegnato nel traffico merci Fiume – Liverpool. La nave fece naufragio nel Golfo di Biscaglia, lungo le coste dei Paesi Baschi”.

Ricordo del prof. Antonio Smoquina, el Tonzo

Il brano seguente è stato pubblicato da Cristina Scala nel 2014 in dialetto fiumano, appunto. Lo si propone con la grafia originale come uno spaccato di vita scolastica della Fiume anni 1930-1940. È tratto dal libro Ricordi Fiumani e ciacolade di Giulio Scala, pagina 121.

“Ogi volerìo ricordar una volta de più, el mio Professor de Giografia e Sienze Naturali al Tenico de Fiume, Antonio Smoquina. Noi tuti ghe volevimo ben. E de solito non xe che tuti i insegnanti i gode de sta simpatia da parte dei scolari. Per noi tuti lui el era el ‘Tonzo’ e se lo citava solo con tale nomignolo afetuoso. Come el suo fjo el scrivi, lui el fumava la pipa. In tempo de guera, disemo intel 1941-42, non era tabaco e alora el Tonzo el meteva intela pipa – non me crederè – camomila. Però la camomila quando che se fa el tè, o tisana come che se disi, la ga un odor gradevole. Provè una volta a brusar sti fiori inte la pipa: vien fora un odor misto tra le pomìe e le pire funerarie indove che i brusa i morti a Calcutta. In ‘ricreazion’ – che era le pause tra le ore de lezion, che noi tuti erimo intel coridoio che el era piutosto scuro – el professor Smoquina el zavatava co sta pipa-a-combustion-de-camomila che era come ogi le ciminiere de la Industria Chimica Monte Edison a Venezia-Marghera.

Quando che studiavimo la Ungarìa – e par che lui el parlava anca ungarese – una Nazion a la qual lui el era molto afezionado, tratavimo come sempre de tuti i aspetti del Paese. Tuti noi savevimo però che se ti volevi gaver un bon voto per le materie de Giografia/Sienze Naturali con el Professor Smoquina, ti devevi dirghe che in Ungarìa era i più bei e grandi porchi (maiali) de alevamento del mondo. E alora lui el te diseva ‘bravo’. Purtropo soto del Fassismo, apunto intei anni trenta, non xe che a Fiume se stessi mal: zucaro e cafè era franco de dazio e noi muli devevimo far i campeggi con la Opera Balilla (che dopo era la G.I.L.). Coi s’ciopeti de legno e la trombetina che la sonava el Silenzio, che bel! E che la te svejava de matina – e l’ojo de rizino se ti eri ‘lavativo’ – ma insomma se viveva bastanza ben. Sti fassisti i gaveva però anca lori le sue manìe. Non basta che quando che xe arivadi i taliani a Fiume intel 1924 – e era vegnudo perfìn el Re, Vittorio Emanuele, che i lo ciamava ‘sciaboleta’ perché el era picio – i gaveva serado tute le scole tedesche (austriache), ungaresi e croate e severamente proibido le parole estere: el giogo del Bridge el era ‘Ponte’ e al Garage bisognava dirghe Auto-Rimessa.

E – come che mi go scrito tante ma tante volte – questo xe stado per tuti noi, Fiumani, Istriani e Dalmati el ‘prinzipio de la fine’. Dopo il ‘laissez-faire, laissez- passer’ de la Defonta, xe vegnuda la ditatura dei fassisti, l’insofferenza per tutto quel che era ‘straniero’ e le vendette dei s’ciavi. A noi muli i ne gaveva proibido a scola de parlar fra de noi nel nostro bel dialeto fiuman. Devevimo – ripeto fra de noi muli – parlar solo in Lingua e noi, mularìa, se fazevimo mate ridade e se disevimo ‘Hai magnato ogi il parsuto per marenda?’ Alora, pensè indove che ariva la perversità dei omini. A sto povero Prof. Smoquina i ghe gaveva dado el incarico ufizial – sicome che Lui el era Professor Anzian – durante la ricreazion/pausa intei coridoi del Tecnico, de star atento che apunto fra de noi muli non parlassimo in fiuman, ma solo in Lingua. Devo dir la verità che el nostro bon Tonzo, no’l ga mai ciapado sul serio sto suo incarico e el continuava a navigar per el coridojo, inondando l’aria col pestifero fumo de sta sua pipa/ciminiera che la andava a camomila. Me piaserìa assai se ste due monade che go scrito, e che le xe ‘vita vissuta’ le poderìa esser un Postumo Omaggio e quel grande Educatore e amato Insegnante, tuttora presente nella Memoria di tutti noi, suoi ex-alunni. Caro Tonzo, noi te volemo sempre ben”.

Antonio Smoquina militare nei reparti medici austro-ungarici nella Grande Guerra

Lucilla Smoquina, nel 2019, ha scritto il seguente messaggio allo scrivente: “Qua trascrivo una piccola citazione di Giulio Scala riguardante ancora mio nonno Antonio Smoquina, che mi commuove. Noi, a Fiume, gavevimo ginastica sempre de dopopranzo in Palestra dele elementari in Piaza Cambieri e mi me ricordo che el maestro (che dovevimo ciamarlo Profesor perché lui el gaveva studiado Ginastica (che se ciamava quela volta Educazione Fisica) ala Università de Ginastica dela Farnesina a Roma, che me par che adesso xe el  Ministero dei Afari Esteri, alora el me diseva (i parlava sempre in lingua quela volta i profesori, tuti meno el ‘Tonzo’ el profesor Smoquina che Dio ghe brazi l’anima): ‘Scala, tu sei la vergogna dela classe’, e questo perché mi non ero mai stado bon (gnanche ogi) de rampigarme sule pertiche fino in zima. Restavo impicado in mezarìa, come una gus’ceriza sul muro sul sol («La Voce di Fiume», febbraio 2011)”. Secondo il Dizionario del Samani la gus’ceriza è la lucertola, una parola proveniente dal croato gusterica.

Ancora sul professor Antonio Smoquina

Dopo l’esodo giuliano dalmata, alcuni italiani d’Istria e del Quarnero si ritrovano per un po’ di villeggiatura a Numana (AN), dove vive Lucilla Smoquina, nella casa dei suoi suoceri. Le vacanze degli esuli di Fiume e di Pola e dei loro discendenti nelle Marche si sviluppa per alcuni decenni dalla metà degli anni ’60. È grazie a una certa stabilità economica che, sin dal 1965-1970, tale gruppo di esuli da Fiume sia andato a fare periodi di villeggiatura a Numana, nelle Marche, sulla Riviera del Conero, come ha riferito Florinda Cremonesi, detta Nina, dell’hotel Teresa a mare.

Fiume – Giuseppe Gregorutti e Giuseppina Pabst, genitori di Alfonso Gregorutti, bisnonno di Lucilla Smoquina

“Mio nonno Antonio Smoquina, classe 1882, laureato a Budapest, era professore di Scienze naturali e geografia a Fiume all’Istituto tecnico ‘Leonardo da Vinci’ – ha detto Lucilla Smoquina – e nel 1946 il suo preside, Gino Sirola, gli disse ‘Scampa Tonin finché ti pol’, così si trasferì a Brescia, presso la figlia Arge, che abitava lì, in seguito al matrimonio”. Allora nonno Smoquina si salvò, mentre il preside Gino Sirola è stato arrestato dagli iugoslavi a Trieste il 3 maggio 1945, riportato a Fiume e fucilato a Tersatto nel 1945, in base alla ricerca di Amleto Ballarini e Mihael Sobolevski del 2002.

Il 10 febbraio 1947 il resto della famiglia Smoquina di Fiume riesce a trovare un camion con autista e a caricarlo delle proprie masserizie e bagagli per fuggire verso il resto dell’Italia, con destinazione Brescia, visto che lì c’erano già dei parenti, nonostante ce ne fossero pure a Trieste. “Un fratello e una sorella di mia nonna – ha detto la Smoquina – stavano a Trieste, ma noi ci ritrovammo a Brescia e sin dai primi anni ’50 si andava in vacanza a Chiavari, provincia di Genova, quasi per ordine del medico, per trovare il mare, il sole, per nuotare, per i pasti di pesce, dove pure c’era una colonia di allegri fiumani, come qui a Numana”.

Come si sono conosciuti i suoi familiari con i Conighi e con altri fiumani doc? “Mio papà Alfonso Smoquina era nato a Fiume nel 1915, era un grande sportivo, è stato campione provinciale sui 100 metri – ha aggiunto Lucilla – deve aver conosciuto Enrico Conighi, che era dello stesso anno, nella scuola di ragioneria di Fiume, essendo coetanei, oppure già si conoscevano perché mio nonno Antonio era del Club Alpino Fiumano (CAF), anzi, ricordo che il nonno Antonio era supervisore del rifugio ‘Ernesto Rossi’ e di un altro rifugio; so che pure l’ingegnere Carlo Alessandro Conighi era del CAF  poi, dopo l’esodo, i miei familiari frequentavano molti raduni del CAF sulle Dolomiti”.

In effetti nel volume di Guido Depoli, di 336 pagine, intitolato Guida di Fiume e dei suoi monti, Tipografia P. Battara di Fiume del 1913 si trovano vari collegamenti tra le suddette famiglie. Nella sua Prefazione, l’autore che è vicepresidente del CAF, dopo aver ringraziato una sfilza di fotografi consoci, scrive: “Né a minor gratitudine hanno diritto i signori dott. Silvino Gigante e prof. Antonio Smoquina, ai quali a mia richiesta la Direzione sociale affidò l’incarico di rivedere il manoscritto, per riparare possibilmente alle mende ed omissioni in cui fossi per avventura incorso” (p. 13). All’inizio del suo scritto introduttivo il Depoli, dopo aver descritto l’ingresso di “giovani forze nel Club Alpino Fiumano” sin dal 1903, riporta la seguente frase. “Il nuovo indirizzo, iniziatosi coll’assunzione alla presidenza dell’ing. Carlo Conighi era duplice: coltivare intensamente l’alpinismo quale salutare esercizio del corpo e della mente, e studiare sotto tutti gli aspetti il nostro paese” (p. 11).

Biografia di Silvino Gigante

Silvino Gigante collabora con Antonio Smoquina a rivedere i testi scritti da Guido Depoli sulla Guida di Fiume e dei suoi monti. Non è parente degli Smoquina, ma Silvino Gigante è un personaggio centrale nelle vicende culturali e politiche della città di Fiume nella prima metà del Novecento. Nacque 7 novembre 1878, figlio di Agostino e di Francesca Canarich. Dopo il liceo, frequentò l’Università di Padova. Nella città veneta si laureò dove nel 1901 in Storia con una tesi dal titolo: “Venezia e gli Uscocchi”.

Autore di varie ricerche storiche sulla sua città, si dedicò soprattutto all’insegnamento. Dal 1912 al 1946 fu preside del ginnasio liceo “Dante Alighieri”. Notevole cultore della lingua e della storia ungherese, Gigante divenne uno dei più autorevoli mediatori culturali di Fiume. Si occupò della traduzione di poesie, di canti popolari ungheresi e di romanzieri magiari. Fu colpito dalla tragica fine del fratello Riccardo, senatore del Regno, che fu prelevato da membri dell’OZNA il 4 maggio 1945 e poi fucilato dai titini a Castua.

Le autorità jugoslave destituirono nel 1946 Silvino Gigante dal suo incarico di preside del liceo classico e la sua abitazione fu posta sotto sequestro. Poi le ristrettezze imposte a lui e alla moglie Gisella Saska, lo portano in poco tempo alla morte il 2 settembre 1946, in esilio, forse a Venezia. Il luogo della morte è stato comunicato da Salvatore Samani, della Società di Studi Fiumani, che scrisse una Precisazione nella rubrica Lettere de «Il Piccolo» del 2 settembre 2016. La data della morte è stata riferita il 28 febbraio 2004 nel web in “Elenchi di fiumani” dalla nipote Maria Gigante sposata Sterpa, “profuga Fiumana trasferitasi prima a Siena e poi a Roma”.

Fiume, pagella bilingue di Ottavio Gregorutti, 1906, “incostante”, ma “promosso”

Ritorniamo agli Smoquina

Signora Lucilla Smoquina ci sono altri ricordi? “Mia mamma Nevina Lukež – ha precisato Lucilla – era di Sussak, quindi di etnia croata e mal sopportava i discorsi di sfegatato nazionalismo con offese verso i s’ciavi”. Con la parola “s’ciavo”, in dialetto istro-veneto si intende “schiavo”, nel senso di “slavo, croato”. Deriva dal latino volgare “sclavus”, ossia “slavo”. I veneziani chiamavano “S’ciavoni” o “Schiavoni” i marinai slavi della loro flotta e pure gli abitanti slavi delle isole e della Dalmazia, senza attribuire al termine l’accezione vagamente spregiativa, che ha assunto a Trieste, dopo il 1945: “s’ciavo = schiavo, sottomesso”.

Siete mai ritornati a Fiume, dopo l’esodo? “I miei nonni non sono più tornati a Fiume, dapprima siamo tornati solo io e la mamma, poi anche papà – ha concluso la signora Lucilla – anche perché a Sussak c’erano i parenti della mia mamma e con loro si parlava croato, la prima volta che ci si rivide fu nel 1953 e ci fu una grande tristezza, perché i negozi là erano mezzi vuoti, quasi non c’era da mangiare, poi nel 1964 papà fece la patente e riuscì a comprare un’automobile, così ho trascorso molte estati nel Golfo del Quarnaro, nonostante la città iniziasse a subire grandi cambiamenti edilizi, tanto da non riconoscerla quasi più”. 

Libro per le scuole elementari di Fiume, classe quinta e sesta, stampato a Budapest. Tra gli autori il maestro Leopoldo Smoquina.

Un ricordo di Antonio Smoquina sulla rivista Liburnia

Il brano seguente è stato scritto da Carlo Cosulich su «Liburnia», vol. LII, 1991, pp. 29-30, intitolato ovviamente “Antonio Smoquina”.

Nel rievocare quanti hanno amato la montagna e hanno operato per diffonderne la passione spesso ci si dimentica di altri che, invece, lavorando nella scuola – non sempre gradita ai giovani – della quale si riconoscono i meriti soltanto quando, cessato l’obbligo si vorrebbe tornare indietro nel tempo per colmare le lacune che si rivelano negli anni, ci hanno insegnato a muovere i primi passi sui nostri monti, illustrandoci le bellezze della natura ed esaltando la salute fisica e morale della vita all’aperto. Tra questi benemeriti della scuola, della montagna, della cultura e della vita, silenzioso e modesto ha rivestito un ruolo importante il prof. Antonio Smoquina, ultimo insegnante di Scienze naturali all’Istituto tecnico Leonardo da Vinci di Fiume, che, durante la sua lunga carriera durata 46 anni, ha visto passare almeno tre generazioni di studenti. Antonio Smoquina, fiumano di nascita, ebbe sempre cara la sua Città e questo suo sentimento rendeva manifesto ogni qual volta, scherzosamente, rimproverava qualche suo allievo negligente: “Guarda, mulo, che se non ti studi, i me mandarà a Caltanissetta, lontan de Fiume, e cossa sarà de la mia famiglia?” Oppure: “Se non ti studi, ghe scriverò alla mama granda (nonna, dal tedesco Grossmutter)”. Erano questi i suoi richiami più severi. Negli anni che lo ebbi insegnante, mai l’ho sentito alzare la voce. Aveva sempre con ragazzi e genitori una parola buona, incoraggiante, persuasiva.

Antonio Smoquina è nato a Fiume il 17 gennaio 1882, figlio di un maestro elementare. Laureatosi in Scienze Naturali e Chimica presso l’Università di Budapest, fino al 1907 ha insegnato Scienze Naturali e Geografia al Ginnasio Ungherese di Fiume, poi fino al 1910 Chimica e Merceologia all’Accademia Commerciale, quindi fino al 1918 alla Civica Scuola Reale Italiana e successivamente fino all’esodo, Scienze Naturali e Geografia all’Istituto Tecnico L. da Vinci. Terminò la sua lunga carriera a Brescia presso l’Istituto Tecnico per Geometri Nicolò Tartaglia. Appassionato della natura, cominciò fin da giovane a percorrere le nostre montagne insieme a Egisto Rossi, Giovanni Intihar, Guido Depoli, Diego Corelli, Malatesta e altri. Nel periodo universitario collaborò alla raccolta di materiale floristico dal Carso alla catena del Velebit e alle Alpi Dinariche. I risultati furono pubblicati dal Prof. Arpad Degen di Budapest nell’opera ungherese “Flora Vlebitica”. L’enorme materiale raccolto in tanti anni, comprendente quasi tutte le piante della nostra regione e catalogato in un prezioso erbario, fu da lui donato al nostro Istituto Tecnico L. da Vinci. Negli anni giovanili fu istruttore di ginnastica dei soci della “Giovine Fiume” e ispettore dei rifugi del Club Alpino Fiumano, funzione che mantenne anche presso la Sezione di Fiume del C.A.I.

Nel 1907 fu membro della Commissione agraria comunale e dal 1924 Presidente della Cattedra Ambulante di Agricoltura, nonché membro della Commissione della Pesca del Carnaro. Dal 1925, quale componente della prima Consulta comunale e come tale ufficiale dello stato civile, collaborò alla rete fenologica italiana diretta dal Prof. Michelangelo Mino di Venezia. Perito erborista per la Provincia del Carnaro, dal 1928 tenne ogni anno in provincia due/tre corsi di erboristeria. Sin dai primi anni d’insegnamento si fece promotore di gite scolastiche, portando i giovanissimi in passeggiate istruttive fino a Drenova, Santa Caterina e negli immediati dintorni della città, mentre accompagnava i più grandi alle sorgenti della Recina, Rucavazzo, Monte Maggiore, Lisina, Alpe Grande. Moltissimi suoi allievi, ancora prima di terminare la scuola, si iscrissero al Club Alpino Fiumano, alla Sezione di Fiume del C.A.I. o alla “Carsia”, diventando alpinisti, rocciatori, sciatori, speleologi di vaglia. Esercitò la sua lunga carriera d’insegnante con entusiasmo e passione e innumerevoli furono gli studenti che, lasciando la scuola e congedandosi da lui, dal caro “zio Tonzo”, come gradiva essere chiamato, gli conservarono l’affetto e gli attestarono la loro gratitudine, anche per iscritto, per quanto aveva loro insegnato. Antonio Smoquina morì, lontano dalla sua Fiume, a Brescia, il 15 ottobre 1957, circondato dalle premure dei suoi più cari, lasciando in chi lo conobbe il più sincero cordoglio.

Fonti orali

Ringrazio molto le persone qui elencate, per le gentili testimonianze rilasciate. Le interviste (int.) sono state effettuate da Elio Varutti a Numana (AN), con taccuino, penna e macchina fotografica. La rielaborazione dei testi si è svolta con l’assistenza di Daniela Conighi e di Lucilla Smoquina.

  • Florinda Cremonesi Nina, Numana (AN) 1947, int. del 28-29 maggio 2019.
  • Lucilla Smoquina (Brescia 1948-Numana 12 gennaio 2022), int. del 29 maggio 2019 più vari messaggi web del 3 e 4 giugno 2019.
Concesio (BS), 1947 – Alfonso Smoquina e Nevina Lukež Smoquina, esuli dal Golfo del Quarnero

Documenti originali

Collezione Lucilla Smoquina, Numana (AN), fotografie, libri e documenti anagrafici.

Cenni bibliografici

  • Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski (a cura di / uredili), Le vittime di nazionalità italiana di Fiume e dintorni (1939-1947) / Žrtve talijanske nacionalnosti u Rijeci i okolici (1939.-1947.), Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2002.
  • Carlo Cosulich, “Antonio Smoquina”, «Liburnia», vol. LII, 1991, pp. 29-30.
  • Guido Depoli, Guida di Fiume e dei suoi monti, Tipografia P. Battara, Fiume, 1913.
  • Licia Giadrossi, Gloria Tamaro, “La marineria lussignana”, «Lussino. Foglio della Comunità di Lussinpiccolo», quadrimestre 32, aprile 2010, pp. 1-5.
  • Andrea Molocchi, Sulla scia del dragòn, Milano, Rusconi, 1993.
  • Salvatore Samani, Dizionario del Dialetto Fiumano, a cura dell’Associazione Studi sul dialetto di Fiume, Venezia- Roma, 1978.
  • Cristina Scala, Ricordi Fiumani e ciacolade di Giulio Scala, 2014.

Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e Elio Varutti. Fotografie della Collezione Lucilla Smoquina, Numana (AN), che si ringrazia per la cortese concessione alla pubblicazione e diffusione. Fotografia di Copertina: Antonio Smoquina (a sinistra), Nevina Lukež, Elisabetta Gregorutti e Alfonso Smoquina nel 1947 in esilio a Brescia dal Quarnero.

Il viaggio di Meri. Esodo da Veglia, 1944

Autrice di questo memoriale è Maria Maracich, detta “Meri”. Nata il 25 marzo 1926 a Veglia, nel Regno dei Serbi, dei Croati e Sloveni, dovette scappare dall’Isola del Carnaro un anno dopo il giorno 8 settembre 1943. Maria fa parte di quel gruppo di esuli di Veglia (Krk, in croato) definiti “italiani all’estero”, in quanto nati in un’entità statale diversa dall’Italia, anche se molto vicina territorialmente al Bel Paese.

Centro Raccolta Profughi di Migliarino Pisano, 10.04.1950. Matrimonio in Campo Profughi, Don Mario Maracich. Gli sposi sono Maria Maracich e Gino Beltramini. Fotografia da: Maria Maracich, Il viaggio di Meri, Codroipo, 2013.


Il libro, di 40 pagine, è stato stampato a Codroipo, provincia di Udine, e reca questa indicazione: Edizioni Beltramini. È senza l’anno di stampa, ma ho verificato essere il 2013, considerato che il manoscritto è del 2012. Il volumetto è stato pubblicato solo in una trentina di copie, ad uso dei parenti e conoscenti, perciò è introvabile. Per le mie ricerche sull’esodo giuliano dalmata, ho avuto la fortuna di consultarne una, potendo vedere pure il manoscritto, che gira comunque in fotocopie tra conoscenti, amici e simpatizzanti. Nel mese di aprile 1941 l’Italia di Mussolini dichiarò guerra alla Jugoslavia, che usò tale denominazione dal 1929. Gli italiani di Veglia furono evacuati fino a Verona, per tre settimane. Si trattò di oltre 1.500 individui. Gli optanti alla cittadinanza italiana a Veglia città, nel 1927, erano 1.162. Poi l’isola fu annessa all’Italia, fino al 1943, quando arrivarono i partigiani di Tito.

Sposi Gino Beltramini e Maria Maracich al Campo Profughi di Migliarino Pisano, 10.04.1950. Foto da: Maria Maracich, Il viaggio di Meri, Codroipo, 2013

Dopo l’annessione di Mussolini «Cominciarono i guai – scrive Maria Maracich a pag. 14 – non si trovava niente da mangiare. A mezzogiorno si andava a prendere qualche cosa alla mensa militare. Essendo un’isola non era facile procurarsi il cibo». Si diffuse la borsa nera, soprattutto a Fiume. Col 1943 i soldati italiani «dovettero cedere le armi a un gruppo di ragazzi croati armati». Iniziarono le prime minacce a mano armata dei titini nei confronti degli italiani, per portare via cibarie. «Io avevo una cesta piena di roba e me ne andavo vero casa. – scrive la Maracich a pag. 16 –  Uno di questi ragazzi mi conosceva, mi fermò puntandomi il fucile contro e mi disse: “Metti giù quella roba se no ti sparo”. Io gli risposi: “Spara se hai coraggio, questa è roba italiana e non te la do». Si verificarono poi le prime vendette. «I croati ci odiavano a morte. – scrive Meri Maracich a pag. 17 – I tedeschi chiesero loro la lista dei partigiani, ma loro gli dettero dei nomi italiani». Nel 1944 i nazisti sequestrarono giovani, uomini e donne. «Dovevano portarci in Germania per lavorare. Così dissero. Intervennero le autorità italiane ed il vescovo presso i loro superiori a Fiume, per liberarci».

Campo Profughi di Migliarino Pisano, 10.04.1950 – Sposi Maria Maracich e Gino Beltramini, confetti per i bimbi. Foto da: Maria Maracich, Il viaggio di Meri

La fuga di Maria Maracich avvenne da clandestina, nel maggio 1944, in compagnia della zia Dolores e dei suoi cinque figli. Da Veglia a Fiume viaggiò su un peschereccio di sera, col blando controllo di due militari tedeschi anziani.
La fuga di italiani di Veglia nel mese di maggio 1944 su alcuni pescherecci verso Fiume viene descritta anche da Lauro Giorgolo nel suo Veglia ed i suoi cittadini, del 1997, a pag. 44. I profughi italiani di Veglia scappano dai rastrellamenti tedeschi e dei croati, loro consoci, ma anche dagli imprigionamenti dei partigiani di Tito. All’arrivo dei nazisti, i titini si ritirano, portandosi dietro tutti i prigionieri. Di questi sequestrati in mano titina solo uno riuscirà a fare ritorno (Vedi: L. Giorgolo, a cura di, Veglia ed i suoi cittadini, 1997, a pagg. 44-45). Poi Maria Maracich proseguì con la famiglia in treno fino in Friuli, a Tolmezzo, alla ricerca dello zio che lavorava in posta. Durante il controllo dei militari tedeschi in treno Maria si portò in gabinetto il cugino Pino, istruendolo su cosa dire se fossero passati i tedeschi per controllo. «Vennero a bussare alla porta – scrive Maria Maracich a pag. 18 – io ero nascosta dietro, lui [Pino] aprì la porta e seccato disse: “Ma non vedi che faccio la cacca!” Se ne andarono tranquilli». I partigiani della Carnia rispedirono la comitiva verso Udine, in treno, perché in montagna era troppo pericoloso con tutti quei bambini. Nel capoluogo friulano furono accolti dalla prefettura, che li indirizzò all’asilo notturno, nei pressi del Giardin Grande (poi detta: Piazza I Maggio). «Dopo un mese – aggiunge Maria Maracich a pag. 19 –  il Comune di Udine ci dette una baracca di legno in Via San Rocco, vicino alla caserma». A Udine Maria incontrò il fratello Rino, sposatosi a Pola e sfollato ad Aiello del Friuli. Il fratello la volle con sé nel paesino della bassa friulana. Ad Aiello Maria fu requisita dai tedeschi per lavorare nella TODT. Finalmente la guerra finì e la famiglia era divisa. I genitori stavano ancora a Veglia, sperando di poter vendere la casa e i campi. Il fratello Mario studiava al Seminario di Udine, poi a Venezia. «Nell’estate del 1947 conobbi Gino, dopo quindici giorni partì come emigrante per la Francia». 

Campo Profughi di Migliarino Pisano, 10.04.1950 – In 17 nella baracca del campo per il matrimonio di Maria e Gino, sposati dal fratello di lei don Mario Maracich. Foto da: Maria Maracich, Il viaggio di Meri

Il 19 marzo 1949 Maria rivide i suoi genitori, mentre il fratello Mario studiava al Seminario di Pisa. «Arrivarono a Udine al Campo smistamento profughi. – scrive la Maracich a pag. 26 –  Quello fu il giorno più bello della mia vita». Pochi giorni dopo furono trasferiti al Centro Raccolta Profughi di Migliarino Pisano, dove vissero in baracca per un anno e mezzo».Il 10 aprile 1950 Maria Maracich e Gino Beltramini si sposarono nel Campo Profughi di Migliarino Pisano. Celebrante don Mario Maracich, fratello di Maria. «Prima notte di nozze in baracca. Vestito prestato da un’altra sposa di Aiello, sposatasi quindici giorni prima. I sandali erano miei, vecchi e con i buchi, mia sorella mi tirava giù il vestito, così non se li vedeva. Anche i guanti erano vecchi. Per mio fratello fui la prima sposa». Quanti furono gli invitati? «Eravamo in 17 in una baracca. Il menu era: minestra in brodo, tre polli arrosto regalati dalla gente di Aiello, cavolfiori e piselli, al posto della torta: biscotti. Uno del Campo suonava la fisarmonica [dovrebbe trattarsi di Checo, secondo la testimonianza di Shamira Franceschi, 14.02.2014], c’era un piazzale e ballavamo tutti, tanto non c’era niente per cena! Alle 10 di sera tolsero la luce e… tutti a nanna!». Il viaggio di Meri continua poi a Gorizia, in Francia (1950), Ripafratta, in provincia di Pisa (1953) e in Svizzera (1960), per concludersi, dopo il 1975, a Lonca di Codroipo, in Friuli.

 Maria Maracich requisita ad Aiello del Friuli dalla TODT a scavare fosse anticarro “con la pala e il piccone” nel 1944. Fotografie da: Maria Maracich, Il viaggio di Meri, Codroipo, 2013.

Ho potuto consultare, recensire e riprodurre il libro di Maria Maracich, grazie alla splendida collaborazione di un suo cugino, anch’egli esule da Veglia; è il signor Celso Giuriceo, nato a Veglia nel 1936, “italiano all’estero”.
L’ho intervistato e incontrato più volte a Udine il 10.02.2016 e in giornate successive. «Mi ricordo la fuga da Veglia sul peschereccio nel 1944 – ha detto Celso Giuriceo –  e quando siamo arrivati al porto di Fiume, abbiamo dovuto aspettare che lo aprissero, perché alla notte veniva bloccato con delle catene». Martedì 6 giugno 2016, dopo breve malattia, muore Maria Maracich, detta “Meri”, come mi comunica per telefono suo cugino Celso Giuriceo.

Mi ha colpito la dedica che la signora Maria Maracich ha scritto di pugno al libro “Il viaggio di Meri” donato al cugino Celso Giuriceo. Essa recita:  «Quanto volte abbiamo mangiato a Udine, all’asilo notturno la pasta, facendo la gara chi era più veloce, quanta fame. Con affetto Meri».

La copertina del volume, edito nel 2013


Bibliografia di riferimento
– Anna Maria Fiorentin, Veglia la «Splendidissima Civitas Curictarum», Pisa, Edizioni ETS, 1993.

– Anna Maria Fiorentin, Nel Carnaro. Un’isola. Racconti, Pisa, Edizioni ETS, 1997.

– Shamira Gatta, alias Shamira Franceschi, Così la mia famiglia fuggì dall’Istria per salvarsi dalle foibe“Il Tirreno”, 14.02.2014.


– Shamira Gatta, alias Shamira Franceschi, Il Giorno del Ricordo, 10.02.2014, dal suo blog personale.

– Lauro Giorgolo, a cura di, Veglia ed i suoi cittadini, 1997.

– Maria Maracich, Il Viaggio di Meri, Codroipo, provincia di Udine, Edizioni Beltramini, 2013.

Questo articolo rientrava nelle attività del Centro di ricerca, documentazione e produzione culturale sull’esodo giuliano dalmata, per raccogliere, testi, documenti, interviste e fotografie di quei particolari momenti storici. Il Centro di ricerca è sorto all’interno del Laboratorio di storia dell’Istituto Stringher di Udine, di cui è referente il professor Giancarlo Martina.  È parte del progetto (2015), sostenuto dalla Fondazione Crup, “Storie di donne nel ‘900”, che  ha ottenuto, tra gli altri, il patrocinio di:Provincia di UdineComune di UdineClub UNESCO di UdineSocietà Filologica FriulanaANEDANVGD di Udine.

Revisione giornalistica e attività di Networking (2019) a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

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Donne fucilate a Spalato, 1943

«Mia mamma si chiama Margherita Covacich ed  è nata a Spalato nel 1939 – esordisce così Antonella Mereu nel raccontare una storia dell’esodo dalmata della sua famiglia – sono venuti via nel 1943, era il 28 agosto, c’erano lo zio, mia madre, un cugino, poi c’era la sorella di mia madre, Maddalena e sua madre, ovvero mia nonna, Antonietta Aviani, nata nel 1908 a Milna, sull’Isola di Brazza». Domanda: Come mai sono fuggiti da Spalato?

Risposta: «Sono venuti via perché sparivano le persone – prosegue la testimonianza di Antonella Mereu – e i partigiani di Tito facevano la fucilazione degli italiani. Due donne della mia famiglia sono rimaste lì. “Cosa vuoi che ci facciano?” – dicevano. Hanno fucilato pure una di loro: Romana Covacich. Le donne rimaste erano la mamma e la sorella di mio nonno Antonio». D.: Qual è la prima tappa dell’esodo dalla Dalmazia della sua famiglia italiana di Spalato? R.: «Arrivarono a Trieste – ha detto la Mereu – e furono alloggiati in un albergo, poi furono destinati ad Arta Terme, in provincia di Udine, presso un albergo locale. Poi si spostarono in Veneto, nel Trevigiano». D.: Ricorda altri familiari in fuga da Spalato?R.: «Nel 1944 è riuscito a scappare anche il nonno, Antonio Covacich, che era impiegato al Credito Italiano. Era nato a Spalato nel 1908. È salito su una nave della Croce Rossa; c’erano due navi, quella davanti alla sua è stata affondata, subito dopo la partenza». D.: Altri ricordi riguardo alla partenza? R.: «I miei familiari si ricordano che sono partiti – conclude la testimonianza della Mereu – con una valigia, un materasso e la carrozzina da bimbo».

Da una fonte in Internet si legge la notizia su Romana Covacich, da Spalato, uccisa dopo l’8 settembre 1943; la notizia dell’esecuzione fu data il 28-1-1944.

Immagine da Internet

Un’altra testimonianza su Spalato. Un racconto su Spalato è stato riportato, nel 2005, anche da Mario Blasoni, giornalista del «Messaggero Veneto», che l’ha poi pubblicato in un libro. Il testimone raccolto è Rodolfo de Chmielewski, nato a Udine nel 1931, con lontani avi polacchi. Egli è figlio di un funzionario dell’Intendenza di finanza di Spalato, il ragioniere Giorgio de Chmielewski (1885-1966), esule nel 1921 in Friuli e a Trieste. «Mio padre era di sentimenti italianissimi – ha detto Rodolfo de Chmielewski a Blasoni – un vero irredentista. Nel 1921, quando la Dalmazia è stata assegnata al Regno di Jugoslavia, non ha voluto giurare fedeltà a Re Pietro e ha perso il posto. Ha dovuto optare per l’Italia, andando prima a Trieste e poi a Udine». Questo è il primo esodo per molti italiani di Spalato, Ragusa, Sebenico e Traù. Gli slavi in quel periodo se la prendevano solo con le tombe o coi leoni di San Marco, presi a mazzate per far scomparire ogni traccia storica di italianità. «Per mio padre era stato doloroso dover lasciare la sua amata Spalato – ha raccontato Rodolfo de Chmielewski a Blasoni –. E nel 1941, quando la Dalmazia venne occupata dagli italiani, volle tornarvi con la famiglia». Rodolfo frequenta a Spalato la quinta elementare e la prima media, poi succedono cose truci. «Nel 1943 ci fu il 25 luglio – ha detto il testimone – e poi cominciò la caccia agli italiani, identificati coi fascisti da parte dei croati». Suo padre, Giorgio de Chmielewski, divenuto ragioniere capo dell’Intendenza di finanza di Spalato fu imprigionato dai titini, ma dopo alcuni giorni lo lasciarono tornare a casa. «Un suo fratello, invece, fu ucciso in seguito e in Italia da un komando di partigiani rossi assieme alla moglie incinta di sei mesi – ha concluso Rodolfo de Chmeilewski al giornalista Blasoni –. Sono ricordi orribili».

   
Le bombe su Zara Andiamo ora a sentire un testimone dalmata vivente. Si tratta di Sergio Brcic, nato a Zara nel 1930. Egli è uno storico della Dalmazia, ma di recente, viene contestato il risultato delle sue ricerche storiche orientate soprattutto ai 54 bombardamenti di Zara, enclave italiana sulla costa dalmata dal 1918 al 1943. La contestazione viene da parte degli storici croati di questi decenni. Elio Migliorini nella voce Zara del secondo volume di appendice dell’Enciclopedia Treccani, pubblicato nel 1949, scrive: «oltre l’85% degli edifici fu distrutto o danneggiato; 4000 cittadini ci lasciarono la vita». «La mia Zara non esiste più – afferma in modo stentoreo Sergio Brcic – perché è stata cancellata per volere dei titini con i continui bombardamenti anglo-americani». Domanda: A che punto è il contrasto con gli storici croati sui bombardamenti di Zara italiana? Risposta: «Per i croati di questi anni i morti negli attacchi aerei del 1943-1944 sono stati circa 400 – risponde Brcic – mentre ne abbiamo avuti oltre 2000, si tenga presente poi che le bombe hanno ucciso gli italiani sì, ma hanno perso la vita anche vari croati». D.: Sembra che non ci sia concordanza nemmeno sul numero totale dei bombardamenti. È vero? R.: «Loro hanno scritto che sono stati sei in tutto – spiega Brcic – poi hanno cambiato idea e sono arrivati a conteggiare 30 azioni aeree sulla città di Zara, ma in verità gli attacchi sono stai 54 in tutto e sono stati devastanti, Zara è stata rasa al suolo, non come a Pola che era dotata di tanti rifugi antiaerei nelle cavità naturali».

Un altro zaratino, Antonio Nicolich, ha detto: «Son vegnù via nel 1948, dopo le opzioni, ma non i dava tanti permessi, dopo son andà a Milano e no son mai più tornà a Zara, perché della mia città cossa sarà restà, dopo 54 bombardamenti e coi cambiamenti fatti da quei che xe vegnui dopo».-Anche Bruno Perisutti ricorda la fuga da Zara della sua famiglia: «Siamo scappati da Zara nel 1943 – dice Perisutti – e siamo andati ad Aiello del Friuli da certi parenti, poi dal 1950 si abitò a Udine, in Via delle Fornaci, nelle case Fanfani, vicino al Centro di Smistamento Profughi».

La signora Elvira Dudech, da Zara, andò, con nave, al Centro Raccolta Profughi di Ancona, poi per quattro anni e mezzo al Campo Profughi di Laterina (provincia di Arezzo), in quello di Chiari (provincia di Brescia, e infine a Roma coi familiari. Invece certi suoi cugini, che lei andò a visitare, erano sistemati al Centro di Smistamento Profughi di Udine, in Via Pradamano, verso il 1955. «Gò visto brande e mia cugina che dormiva in campo – ha raccontato la Dudech – jera fioi che i piangeva, i voleva la casa, le mame diseva: no gavemo più casa».

Un’altra figura notevole tra gli zaratini di Udine fu padre Cesario da Rovigo. Egli fu vicino ai profughi del Centro di Smistamento Profughi di Via Pradamano, poiché era un esule “di spirito” essendo stato in servizio a Zara dal 1935 al 1939. Come ha scritto Natale Zaccuri su «La Vita Cattolica» del 2 luglio 2015, a pag. 19: “Fu cappellano a San Servolo di Venezia, al Cimitero di Udine, «Guardiano» a Gorizia (dal 1928 al 1931), a Padova (1932), a Zara (1935) e «Padre spirituale» in Dalmazia”.Dalle mie ricerche personali emerge che Padre Cesario dei Cappuccini fu rettore della Chiesa del Cimitero nel 1954, come risulta dal Libro Storico della Parrocchia della Beata Vergine del Carmine, a p. 267. Dopo l’esodo fu in servizio nella chiesa di Baldasseria, come riportato dal Bollettino Parrocchiale della Beata Vergine del Carmine del 1954. Celebrava la santa Messa pure nel Villaggio Metallico. Cesario Giacomo Finotti, detto Padre Cesario da Rovigo, nacque a Rovigo il 4 luglio 1893 e morì a Udine il 1° luglio 1983.

Duomo di Udine, 18 febbraio 1949 (oppure 1950). S. Messa con gli esuli zaratini in ricordo di S. Simeone, patrono di Zara. Si riconoscono: il celebrante padre Cesario da Rovigo, già in servizio a Zara e don Giovanni Budinich (col breviario). Tra di loro: Rita Bugatto e il signor Bognolo. Da sinistra: le signore Galessi e Cassani. Davanti a lei c’è: Antonio Bugatto (coi calzoncini). Dietro di lui: il signor Giadrini ed Elda Alesani (vicino al frate), con suo figlio Plinio (dietro al prete), accanto a Nina Nagy e sua sorella Emilia (in prima fila, col cappellino). Tra le sorelle Nagy c’è Licia Bulat, zia dei giovani Bugatto. Da destra: la signora Biasutti (volto tagliato) e il dott. Giacinto Bugatto (col lutto), direttore delle Poste di Zara, padre dei tre Bugatto. Dietro di lui: il dott. Hoffmann, vice prefetto di Udine, con sua moglie Raffaella. Dietro ad Hoffmann ci sono: Antonio Usmiani (di tre quarti), i signori Marsan, Boezio e Giuseppe Bugatto (in fondo a tutti).
Collezione famiglia Giuseppe Bugatto, Udine

Molto interessante è pure la biografia di Silvio Cattalini. Nato il 2 giugno 1927 a Zara, quando apparteneva al Regno d’Italia, Silvio Cattalini è figlio di Antonio e di Gisella Vucusa. È presidente del Comitato Provinciale di Udine dell’ANVGD dal 1972 al 2017, quando muore.

Le interviste ai testimoni citati sono a cura di Elio Varutti, che ha operato con taccuino e penna. Si sono svolte a Udine nelle giornate sotto riportate. 1) Sergio Brcic, Zara (1930), int. del 10 febbraio 2016, storico della Dalmazia. 2) Elvira Dudech (Zara 1930 – Udine 2008), int. del 15 febbraio 2007. 3) professoressa Antonella Mereu, Treviso (1966), intervista del 12 febbraio 2016. 4) Antonio Nicolich, Zara (1927), int. del 20 aprile 2007. 5) Bruno Perisutti, Zara (1936), int. del 11 gennaio 2004.

Bibliografia
– Mario Blasoni, “De Chmielewski, autore di teatro e chansonnier”, in M. Blasoni,Cento udinesi raccontano, Udine, La Nuova Base, 2007, volume III, pp. 36-38.
– Oddone Talpo – Sergio Brcic, …Vennero dal cielo : 185 fotografie di Zara distrutta 1943-1944 (1.a edizione: Trieste, Libero comune di Zara in esilio, Delegazione di Trieste, stampa 2000). Associazione Dalmati italiani nel mondo, Campobasso, Palladino, 2.a ediz., 2006.
– Natale Zaccuri, Si ricorda padre Cesario, «La Vita Cattolica» del 2 luglio 2015, Udine, pag. 19.

Questo articolo rientrava nelle attività del Centro di ricerca, documentazione e produzione culturale sull’esodo giuliano dalmata, per raccogliere, testi, documenti, interviste e fotografie di quei particolari momenti storici. Il Centro di ricerca è sorto all’interno del Laboratorio di storia dell’Istituto Stringher di Udine, di cui è referente il professor Giancarlo Martina.  È parte del progetto (del 2015), sostenuto dalla Fondazione Crup, “Storie di donne del ‘900”, che  ha ottenuto, tra gli altri, il patrocinio di: Provincia di UdineComune di UdineClub UNESCO di UdineSocietà Filologica FriulanaANEDANVGD di Udine.

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Esodo da Fiume in Lombardia

«Mia madre era di Fiume – ha riferito Anna Ghersani Durini, nata a Monza – i miei genitori mi parlavano poco o in modo frammentario dell’esodo da Fiume. Nel dopoguerra si spostarono in Lombardia, poi in Friuli. Uno zio, di nome Iti Mini, ha tenuto una sorta di diario degli eventi. Non sono mai passati per i Campi Profughi. Domanda: allora il caso della sua famiglia rientra nel tema del silenzio dei profughi, che non raccontavano l’esodo ai propri figli?

Risposta: Più che un silenzio dei profughi è da dire qualcosa sulla sordità dei discendenti, nel senso che i giovani, per tanti motivi (lavoro, famiglia ed altro), non stavano a sentire i racconti dei vecchi, anche se poi ci si è rammaricati di aver poco ascoltato i propri familiari esuli dalle terre adriatiche».


Memoriale di Iti Mini, Fiume 1939-1950
«Sono nato a Fiume il 19 agosto 1921. Vivevo con i miei e con mio nonno materno che, dopo la morte della nonna aveva abbandonato l’attività di un negozio di abiti con sartoria annessa. A casa mia si parlava soltanto dialetto fiumano. Mio padre era un impiegato d’ordine in una società che commerciava in carbone, molto richiesto, essendo allora Fiume un porto di mare. (…) Due sorelle di mio padre erano andate a lavorare a Milano subito dopo la prima guerra e ivi si erano sposate. Queste parentele saranno utili a me e a mia sorella appena abbandonata Fiume alla fine della guerra [nel 1945]». Nel 1939 scoppia la Seconda guerra mondiale e l’Italia di Mussolini sceglie la non belligeranza. Nel 1940 Mussolini cambia idea, dichiarando guerra a Francia e Gran Bretagna. Iti Mini studia all’Università di Padova.

«La guerra cambia alquanto la situazione. La classe del 1921, leva di terra, viene chiamata alle armi all’inizio del secondo anno di studi mente si salva la leva di mare – alla quale appartenevo essendo stato nei marinaretti e non nei Balilla [organizzazioni giovanili fasciste]. Inspiegabilmente – ma forse qualche grosso gerarca che teneva famiglia e figli lo sapeva – rimane a casa la precedente classe 1920. La conseguenza fu una immediata riduzione delle frequenze alle lezioni e ben quattro fiumani partirono. Uno morì subito silurato. Ritrovai altri due molto indietro con gli esami, quando mi stavo laureando. Qui ha giocato la fortuna a mio favore. Fui chiamato alle armi nel giugno 1942, quasi un anno e mezzo dopo. Riuscii mio malgrado ad essere invischiato nella guerra ugualmente. Fui candidato per l’esame all’Accademia di Livorno ed ammesso al corso di “Armi navali gruppo T (siluri, torpedini e bombe di profondità)”, della durata di quattro mesi e mezzo e non fu lieve. Alla fine del corso fui promosso aspirante ed inviato all’Arsenale di Taranto, quale appartenente ad un corpo tecnico. Verso la primavera del 1943 si cominciarono ad avvertire i primi sintomi di una guerra che andava male, anche se la Marina era meno invischiata dell’Esercito. Non subimmo bombardamenti. A marzo tornai a Fiume in licenza per esami. Ne feci due. Fu l’ultima volta che vidi Fiume italiana. Passeranno oltre 40 anni prima che ci tornassi e in Fiume croata. Il 25 luglio 1943, caduta di Mussolini, ero ancora in arsenale; poco dopo assieme ad altri ufficiali fui spostato alla Difesa, dalla parte opposta della città, per opporci ad un eventuale sbarco. Quivi ero presente all’armistizio dell’8 settembre: vidi partire la flotta verso Malta, sostituita dal 9 settembre da quella anglo americana. L’Ammiraglio comandante della Difesa ci fece subito un discorso per dirci che gli Anglo-americani erano ancora nostri nemici e ciò provocò una repentina fuga di molti elementi, specie fra i marinai. Alcuni giorni dopo altro discorso assembleare per dirci che no, contro ordine, gli Anglo-americani erano nostri amici. Effetti della grave disorganizzazione che imperava (…) ». A Taranto «Ci trovavamo spesso tra Fiumani la sera a mangiare quello che si trovava, spesso rubato agli Americani. Alcuni erano giunti a Taranto col piroscafo Abbazia che apparteneva a mio zio, ma era stato requisito. Un viaggio lungo 1500 chilometri con una nave adatta al lago di Como! Non ho mai chiesto come si fossero riforniti di carburante per un simile viaggio».

«A metà maggio 1945, dopo due mesi passati solo a seguire qualche lezione, partii con mezzi di fortuna, cioè treni e camion verso Padova da cui potei finalmente (…) i miei mi sconsigliarono caldamente di tornare a Fiume occupata dai titini (…). Conobbi a Padova le novità di Fiume occupata dalle bande di Tito interessate alla pulizia etnica. Furono per primi uccisi tutti gli anti-Dannunziani e antifascisti – fautori di “Fiume città libera” come sotto l’Ungheria – (perché politicamente i più pericolosi), per secondi i fascisti e i capi che non erano riusciti a fuggire. Venne poi la sorte dei più ricchi o considerati tali, uccisi o imprigionati. Lo fu anche mio zio che se la cavò con il carcere solo perché aveva settant’anni ed era ammalato di cancro». Nel dopoguerra Iti Mini lavorò all’ACNA di Cesano Maderno, poi a Spinetta Marengo, provincia di Alessandria e a Pieve Vergonte, in Valle d’Ossola. Nel 1949 «a Pieve Vergonte mi trovai subito male. Livello tecnico a terra, tutti pronti a colpi bassi e per completare tutti comunisti, dal direttore agli operai. Quando seppero che ero di Fiume ci fu uno che mi accusò di aver combattuto con gli ustascia, i fascisti croati. Era un fatto pericoloso. (…) dimissioni e ritorno a Milano» vicino alla sorella. Nel 1949 Iti Mini andò a vivere in una casa popolare e nel 1950 si sposò. Nacquero quattro figli. Nei decenni successivi ebbe dieci nipoti.


Iti Mini al Politecnico di Milano

C’è ora una curiosità del curriculum di studi del protagonista del memoriale citato. Si è avuta tale notizia, l’11 maggio 2018, grazie alla solerzia degli archivisti all’opera presso il Politecnico di Milano. Dal fascicolo personale di Iti Mini, profugo di Fiume, esistente presso gli Archivi Storici del Politecnico di Milano, emerge quanto segue. “Mini Iti, di Amedeo, nato a Fiume il 19 agosto del 1921, si iscrive al Politecnico di Milano nel dicembre del 1945 per conseguire la seconda laurea in Ingegneria elettrotecnica; era proveniente dall’Università di Padova, dove aveva conseguito la laurea in Ingegneria chimica nel luglio 1945. Lascia il Politecnico nel 1946 in data non nota”. Detto fascicolo personale è privo di fotografia e di atto di nascita che dovrebbe trovarsi conservato all’Università di Padova.
Il documento datato a Fiume il 18 marzo 1946, giacente presso gli Archivi Storici del Politecnico di Milano, che si pubblica in queste pagine è firmato da Silvino Gigante, preside del Liceo classico “Dante Alighieri” di Fiume.


Osservazioni su Silvino Gigante

Silvino Gigante è un personaggio centrale nelle vicende culturali e politiche della città di Fiume nella prima metà del Novecento. Nacque 7 novembre 1878, figlio di Agostino e di Francesca Canarich. Dopo il liceo, frequentò l’Università di Padova. Nella città veneta si laureò dove nel 1901 in Storia con una tesi dal titolo: “Venezia e gli Uscocchi”. Autore di varie ricerche storiche sulla sua città, si dedicò soprattutto all’insegnamento. Dal 1912 al 1946 fu preside del ginnasio liceo “Dante Alighieri”. Notevole cultore della lingua e della storia ungherese, Gigante divenne uno dei più autorevoli mediatori culturali di Fiume. Si occupò della traduzione di poesie, di canti popolari ungheresi e di romanzieri magiari. Fu colpito dalla tragica fine del fratello Riccardo, senatore del Regno, che fu prelevato da membri dell’OZNA il 4 maggio 1945 e poi fucilato dai titini a Castua. Le autorità jugoslave destituirono nel 1946 Silvino Gigante dal suo incarico di preside del liceo classico e la sua abitazione fu posta sotto sequestro.  Poi le ristrettezze imposte a lui e alla moglie Gisella Saska, lo portano in poco tempo alla morte il 2 settembre 1946, in esilio, forse a Venezia. Il luogo della morte è stato comunicato da Salvatore Samani, della Società di Studi Fiumani, che scrisse una Precisazione nella rubrica Lettere de «Il Piccolo» del 2 settembre 2016. La data della morte è stata riferita il 28 febbraio 2004 nel web in “Elenchi di fiumani” dalla nipote Maria Gigante sposata Sterpa, “profuga Fiumana trasferitasi prima a Siena e poi a Roma”.

Ecco parte della documentazione, giacente presso gli Archivi Storici del Politecnico di Milano, che attesta la grande volontà di studio e di miglioramento di un fiumano, come Iti Mini, pur nelle avversità dell’esodo giuliano dalmata. Scheda di iscrizione alla facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano di Iti Mini, nell’anno accademico 1945-1946, già laureato all’Università di Padova il 30 luglio 1945, in Ingegneria chimica. Si ringrazia per la fotografia Roberta Moro.

Lettera, del 15 marzo 1946, dell’Università di Padova con cui il rettore attesta e conferma la laurea in Ingegneria chimica di Iti Mini, di Fiume, protocollata dal Politecnico di Milano il 20 marzo 1946.  Archivi Storici del Politecnico di Milano. Si ringrazia per la fotografia Roberta Moro.

Ecco il documento più interessante dalla cartella di Iti Mini presso gli Archivi Storici del Politecnico di Milano. Il direttore M. Marchetti, il 9 marzo 1946, chiede conferma al preside del Liceo classico di Fiume circa il diploma di maturità di Iti Mini, nell’anno scolastico 1938-1939. Nonostante gli anni sconvolgenti del dopo guerra, il preside del Liceo “Dante” di Fiume, risponde e conferma, il 18 marzo 1946, la maturità classica del fiumano Iti Mini. La firma è “S. Gigante”, ossia Silvino Gigante. Si ringrazia per la fotografia Roberta Moro.


Bibliografia esclusiva sul Memoriale di Iti Mini ed altro

– Archivi Storici del Politecnico di Milano; dato che nel 2018 ci ha comunicato l’interessante aggiornamento sulla biografia di Iti Mini, un sentito ringraziamento vada a Roberta Moro – Diplomata in Archivistica Paleografia e Diplomatica presso l’Archivio di Stato di Venezia, che lavora per conto di CAeB – Cooperativa archivistica e bibliotecaria di Milano – presso gli Archivi Storici del Politecnico di Milano dal 2013.
– Ilona Fried, Emlékek városa. Fiume, Budapest, Ponte Alapítvány, 2001 (traduzione italiana: Fiume città della memoria. 1868-1945, Del Bianco Editore, 2005).
– Iti Mini, Autobiografia, Moggio, provincia di Lecco, 1994, dattiloscritto, pp. 4, Collezione famiglia Mini, Milano.
– E. Varutti, Il Campo Profughi di Via Pradamano a Udine. Ricerca storico sociologica tra la gente del quartiere e degli adriatici dell’esodo. 1945-2007, Udine, Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia, Comitato Provinciale di Udine, 2007.
– E. Varutti, Italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia esuli in Friuli 1943-1960. Testimonianze di profughi giuliano dalmati a Udine e dintorni, Udine, Provincia di Udine / Provincie di Udin, 2017 (disponibile anche nel web).

Ringraziamenti per le testimonianze

Per la grande disponibilità dimostrata, desidero ringraziare la professoressa Anna Ghersani Durini, Monza, int. del 2 dicembre 2015 e messaggi e-mail del 14 e 17 maggio 2018.


Archivi, biblioteche e collezioni familiari– Collezione famiglia Mini, Milano, dattiloscritto. Per la cartolina di copertina del presente articolo si ringrazia Paolo De Luise, esule da Pirano a Carpi (MO).

Questo articolo rientrava nelle attività del Centro di ricerca, documentazione e produzione culturale sull’esodo giuliano dalmata, per raccogliere, testi, documenti, interviste e fotografie di quei particolari momenti storici. Il Centro di ricerca è sorto all’interno del Laboratorio di storia dell’Istituto Stringher di Udine, di cui è referente il professor Giancarlo Martina. È parte del progetto (2015), sostenuto dalla Fondazione Crup, “Storie di donne del ‘900”, che  ha ottenuto, tra gli altri, il patrocinio di:Provincia di UdineComune di UdineClub UNESCO di UdineSocietà Filologica FriulanaANEDANVGD di Udine.

Servizio giornalistico e di Networking (2019) a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

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