L’Ozna di Tito in Nord Italia tra guerra e dopoguerra

Certi studiosi sostengono che nel Nord Italia e a Roma ci sia stata l’azione di agenti dell’Ozna, la polizia segreta iugoslava (vedi in Sitologia: Marenghi). Le spie di Tito non sono necessariamente tutte iugoslave; ad esempio, tra di loro ci può essere qualche stalinista italiano dal fervente spirito internazionalista, oltre che alla ricerca di protezione per le malefatte commesse sul suolo italico.

Da un rapporto segreto del Ministero dell’Interno italiano, del 1946, l’Ozna era “già riuscita ad infiltrare molti elementi nelle file dei cetnici [ex monarchici serbi], specie tra i profughi giuliani che si trovano a Roma nei campi profughi di Forte Aurelio e Cinecittà”. La stessa organizzazione segreta iugoslava, in base al citato rapporto, ha stretti contatti con i sovietici (vedi: Ozna, in Sitologia).

Le fucilazioni nel Nord Italia

A fine aprile 1945 ci sono decine di fucilazioni da parte di partigiani col fazzoletto rosso nelle prigioni di Pordenone e in quelle di Milano con l’accusa ai prigionieri di essere fascisti. A Trieste alla fine di maggio 1945, durante l’occupazione titina, durata dal 1° maggio al 12 giugno, si verifica un violento fatto strano. Un ordigno esplode a Villa Segre, dove sono acquartierati i partigiani garibaldini italiani, in teoria, filo-titini. Ci sono 5 vittime. È un increscioso incidente, oppure un attentato dell’Ozna contro i partigiani italiani “troppo poco comunisti e sciovinisti”? I partigiani garibaldini friulani sono giunti a Trieste il 20 maggio, come ha scritto Luciano Santin, al comando di Giovanni Padovan, commissario della Divisione Garibaldi e vice del raggruppamento “Friuli”, su 13 carri armati e autoblinde. Così sentenzia il quotidiano titino di Trieste «Il Nostro Avvenire» si tratta delle: “brigate italiane dell’Armata di Tito”. Questi partigiani hanno sì il fazzoletto rosso al collo, ma poco propensi a vedere sventolare solo la bandiera iugoslava nella sfilata in programma. Tito si aspetta un intervento di appoggio alle rivendicazioni slave su Trieste, Gorizia e parti del Friuli, ma Padovan “Vanni” al comizio nulla dice sulla nascente Settima Repubblica della Federativa di Jugoslavia, che nei piani titini avrebbe avuto per capitale Trst (Trieste) e arrivare fino al Tagliamento, compresa Videm (Udine). Ecco i retroscena del sanguinoso attentato di Villa Segre a Trieste.

Nel mese di giugno e nei primi giorni di luglio del 1945 accadono altri gravi fatti di sangue in varie città del Nord Italia, che possono essere riconducibili all’Ozna. Squadre di partigiani comunisti attaccano le carceri col mitra per eliminare i detenuti, uccidendo pure i poliziotti. L’8 giugno si assiste all’attacco armato alle prigioni di Ferrara, che provoca 18 morti (vedi: Bruno Vespa), incluso Costantino Satta, comandante delle carceri giudiziarie, abbattuto a colpi di rivoltella.

Il 15 giugno successivo c’è l’assalto alla prigioni di Carpi, in provincia di Modena, che causa 14 cadaveri. Il bilancio complessivo tra Carpi e Ferrara è di 32 morti e circa 50 feriti, tra i quali ci sono alcuni fascisti, o presunti tali. Nella notte fra il 6 ed il 7 luglio 1945 c’è l’assalto partigiano al carcere di Schio, in provincia di Vicenza, che provoca la morte di 54 individui, comprese varie donne, reputati in blocco o in parte fascisti. Si può individuare un’unica strategia nei repulisti delle varie città italiane menzionate. Gli ordini probabilmente giungono dall’Est e sono condivisi, con spirito internazionalista, dai dirigenti locali del Pci succubi a Tito. Le citate carneficine sono collegabili per gli obiettivi generali cominformisti ad altri massacri, come l’eccidio di Porzùs (1945), in Friuli e la strage di Vergarolla, a Pola, in Istria (1946), pure ordita dall’Ozna. Di Vergarolla si sa il numero esatto dei morti identificati e sepolti, che sono 64, come segnato sulla lapide in San Giusto a Trieste. Nessun morto o ferito si registra fra i filo-iugoslavi a Vergarolla. Si sa con minore precisione il nome delle vittime non identificate e dei numerosi feriti, sui funerali, sul cordoglio e la solidarietà di polesi e di altri.

È il 18 agosto 1946. La guerra è finita da più di un anno ormai. Pola, in Istria, è un’enclave italiana amministrata dagli alleati, mentre gran parte della penisola istriana è stata occupata dalle forze militari titine. Anche Trieste coi suoi dintorni sta per diventare un’entità indipendente; è il Territorio Libero di Trieste, amministrato dagli alleati, fino al 1954, quando la città giuliana ripassa all’Italia. Sulla spiaggia di Vergarolla di Pola, affollata di bagnanti italiani, famigliole e bimbi, c’è chi assiste alle gare di nuoto della coppa Scarioni. Pochi polesani si preoccupano delle numerose mine e delle bombe di profondità ben disinnescate e ammucchiate lì vicino. È un deposito d’esplosivi a cielo aperto. Qualcuno va ad innescarne una, oppure piazza una bomba, per fare saltare “per simpatia” tutto il resto, come direbbe un artificiere. Chi è l’autore dell’efferato gesto? Lo si è scoperto nel 2008, dopo l’apertura degli archivi militari inglesi, come ha riportato «Il Gazzettino» del 18 agosto 2014. La responsabilità del misfatto è da attribuirsi all’Ozna, la polizia segreta di Tito, ma tale conclusione è stata contestata da parte slava. È a Fasana la sede dell’Ozna competente per le operazioni su Pola. Del resto, attentati dinamitardi titini si verificano, nel 1946, anche a Monfalcone e Trieste, come hanno documentato Paolo Radivo, nel 2016, oltre al «Messaggero Veneto» del 1946. “Tra la paura delle foibe e la strage di Vergarolla – dicono gli esuli riparati in Italia, come l’ingegnere Sergio Satti, esule a Udine – da Pola, la mia città, se ne andò il 90 per cento degli abitanti, tutti italiani”.

I temi riguardanti l’etica della Resistenza non sono oggetto di indagini solo di Gampaolo Pansa, che ha iniziato ad indagare sulle eliminazioni nel Triangolo rosso di Reggio Emilia con Il sangue dei vinti (2005), con La Grande bugia (2006) ed altro. Essi sono stati messi sul piatto della bilancia sin dal 1991 da Claudio Pavone, col suo Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Poi, per i ricercatori, è stato come un fiume in piena fino, appunto, al ruolo dell’Ozna negli eccidi dell’Italia del Nord. 

Un passo indietro al 1943

Nelle città italiane, dopo l’8 settembre 1943, operano in armi contro i tedeschi i Gruppi di Azione Patriottica (Gap), appartenenti al Partito Comunista d’Italia. In Friuli c’è la Divisione Garibaldi Natisone e i partigiani garibaldini, dal fazzoletto rosso, sono di orientamento politico soprattutto comunista. Altri partigiani agiscono col fazzoletto verde e sono le Brigate Osoppo Friuli (BOF), di orientamento cattolico, monarchico e laico-socialista. Tutta la resistenza armata dovrebbe dipendere dal Comitato di Liberazione Nazionale (Cln), con esponenti politici della Democrazia Cristiana, Democrazia del Lavoro, del Partito d’Azione, del Partito Repubblicano, del Partito Socialista, del Partito Liberale e del Pci. Il Cln esige che sia fatto un processo prima di ammazzare qualcuno imprigionato con l’accusa di essere fascista, ma certe bande garibaldine filo-titine non seguono tale dettame, oppure intentano processi farsa, senza avvocato difensore o peggio ancora. L’occupazione titina di Trieste dal 1° maggio al 12 giugno 1945 provoca la deportazione di alcune migliaia di italiani o la loro uccisione ed eliminazione nelle foibe limitrofe. L’occupazione slava di Gorizia causa 1.048 deportati, tra i quali oltre 900 risultano scomparsi, eliminati nelle foibe, nelle cave, nelle fosse anticarro o nei campi di concentramento titini (i gulag di Tito), come in quello di Borovnica, tra Idria e Lubiana.

Vari gappisti al termine della guerra fuggono dal Friuli e dal Veneto nella Jugoslavia di Tito, che si annette l’Istria, Fiume e la Dalmazia, ove permangono forti presenze di italofoni, nonostante le violenze titine. Nel 1946 Mario Toffanin “Giacca”, lo stragista di Porzùs, fugge a Capodistria, evitando il carcere successivo alla condanna comminatagli nel 1951 al processo della Corte d’Assise di Lucca. Nell’Istria titina riesce a trovare tutta quell’accoglienza, che sia collegato all’Ozna? Il 7 febbraio 1945 avviene l’eccidio di Porzùs, in Comune di Faedis (UD); è un tragico ammazzamento fra partigiani. Quel giorno, infatti, alle malghe di Porzùs, diciassette partigiani (tra cui una donna, loro ex prigioniera) della Brigata Osoppo Friuli (BOF), sono fucilati da parte di un gruppo di partigiani, in prevalenza giovani gappisti di San Giovanni al Natisone (UD) e dintorni, comandati, o per meglio dire, terrorizzati da “Giacca”. Ciò segna il punto massimo delle tensioni fra partigiani garibaldini (pro-titini sloveni) e le BOF, che invece difendevano l’italianità del territorio, contro l’espansionismo nazionalista iugoslavo. È il signor B.V. a riportarmi in merito certe notizie, il 22 giugno 2015. Si riferiscono a suo padre Antonio (nome di fantasia, per riservatezza). Piuttosto che i ragazzi sotto leva finissero nella Organizzazione TODT (a lavorare per i nazisti), o nella Milizia Difesa Territoriale dei fascisti, o peggio, nelle Waffen SS italiane, i partigiani se li portano dietro in bosco. Il racconto fatto da Antonio, il requisito dai partigiani garibaldini, continua così: “Si sapeva che Giacca voleva fare pulizia, allora, si veve plui pôre di lui che dai todescs (si aveva più paura di lui che dei tedeschi)”. Giacca è il nome di battaglia di Mario Toffanin (Padova 1912 – Sesana, Slovenia 1999), il comandante partigiano che, su mandato del Comando del IX Korpus sloveno e dei dirigenti della Federazione del PCI di Udine, effettuò le uccisioni a Porzùs. Sono loro stessi, i partigiani dal fazzoletto rosso, a parlare di pulizia, un lessico tipico dell’Ozna.

Volantino partigiano della Divisione Garibaldi Natisone inneggiante a Tito, mentre i titini a Trieste dal 1° maggio 1945 deportavano e uccidevano nelle foibe gli italiani

Pure certi gappisti attivi tra Palmanova e Cervignano del Friuli, con l’appellativo di Diavoli Rossi se la svignano in Jugoslavia, primo fra tutti il loro caporione Gelindo Citossi, poi pure Norberto Sguazzin e un certo “Tom”, di Mortegliano; essi “emigrano in Jugoslavia”, come ha scritto Francesca Artico. Alcuni di tali partigiani fuggiti in Istria, come “Giacca”, Mario Abram (partigiano rosso triestino), Nerino Gobbo (noto infoibatore) e Giuseppe Krevatin se la prendono coi preti italiani, minacciandoli e picchiandoli a sangue, come ha riportato il «Giornale di Trieste» del 23 novembre 1951. I Diavoli Rossi, in base a quanto scritto da Elio Bartolini nel romanzo storico Il Ghebo, sono crudeli e con scarsa disciplina (pp. 12 e 34), pronti a rubare camion pieni di roba durante la guerra da portare oltre il Collio, in quella che sarà la Jugoslavia di Tito, per far bella figura coi titini, che li hanno ben posti sotto il Comando militare del IX Korpus. Bartolini, che aveva partecipato alla Resistenza nella zona, spiega che gli slavi vorrebbero annettersi, oltre all’Istria, Fiume e Dalmazia, anche un pezzo di Friuli, fino al Tagliamento (Bartolini, pp. 55, 65 e 102).

Tutti questi partigiani rossi veneti e friulani hanno un’accoglienza fraterna tra i titini che hanno invaso l’Istria, Fiume e Dalmazia, forse perché erano collegati all’Ozna. Li aspetta, tuttavia, una brutta sorpresa. Nel 1948 Tito rompe i patti con Stalin e i titini vogliono fare piazza pulita dei cominformisti, dei comunisti storici e degli stalinisti iugoslavi e italiani, annessi, ospitati, oppure organici dell’Ozna. Ci sono arresti ed uccisioni fra comunisti a Fiume e a Pola. Allora certi partigiani italiani scappati prima nel “paradiso di Tito”, poiché rei di crimini in Italia, svicolano in Cecoslovacchia, perché neanche Tito li vuole più tra i piedi. Quelli che Tito riesce a fare arrestare, li deporta all’Isola Calva, o Goli Otok (Gilas, p. 259); in quel gulag patiscono e muoiono di stenti, come in ogni campo di concentramento delle dittature. Alcuni dei fuggitivi italiani in Cecoslovacchia, forse per la coscienza sporca, cambiano addirittura nome, imbrogliando sui documenti.

La strage al carcere di Schio, luglio 1945

L’eccidio di Schio (VI) è un’operazione stragista perpetrata da 15 partigiani comunisti nella notte fra il 6 ed il 7 luglio 1945. A guerra finita, senza processo alcuno, muoiono nel carcere di Schio 54 detenuti (tra i quali 14 donne), poiché considerati in parte, forse o del tutto fascisti. Dopo i colpi di mitraglia qualcuno chiama i soccorsi. Un primo gruppo di barellieri viene respinto e minacciato e solo successivamente i feriti vengono trasportati all’ospedale. Anche qui medici ed infermieri, dediti alla cura dei sopravvissuti feriti, subiscono continue minacce dai partigiani garibaldini.

Al processo condotto dagli angloamericani, tenutosi a Vicenza nel settembre del 1945, dalle testimonianze degli imputati, ossia cinque partigiani appartenenti al battaglione di polizia ausiliaria “Ramina Bedin” e dai verbali da essi rilasciati e firmati, emergono le responsabilità di comando dell’operazione. In base alle testimonianze dei sottoposti i nomi dei comandanti della strage sono: Igino Piva, detto “Romero”, Nello Pegoraro, “Guido” o “Nello” e Ruggero Maltauro, “Attila”, come ha scritto nel 2020 Giorgio Marenghi, in Eccidio di Schio: le novità. Oltre alla Corte alleata si deve aggiungere l’azione della magistratura italiana che convoca un processo in Corte di Assise a Milano nel 1952. Un solo imputato è in catene; si tratta di Ruggero Maltauro, mentre altri sette si sono già rifugiati all’estero, alcuni di essi in Istria, annessa dal 1947 alla Jugoslavia di Tito.

Tra la fine della guerra e nel dopoguerra l’Ozna è presente in Italia del Nord. I suoi agenti si mimetizzano nei gruppi partigiani comunisti o nelle grandi città; osservano e prendono nota. Il loro obiettivo si lega allo sciovinismo-nazionalista di Tito, allargare l’area territoriale fino a superare Isonzo e Tagliamento, far pesare il ruolo militare dell’Esercito Popolare di Liberazione iugoslavo il più possibile quando sarà il momento di sedersi attorno ad un tavolo della pace, Alleati permettendo.

Quando scoppia la guerra civile spagnola Igino Piva è nelle Brigate Internazionali. Non si risparmia, il suo fisico resta segnato per sempre dalla battaglia di Guadalajara e da quella dell’Ebro. In Spagna conosce e stringe amicizia con una nota figura del comunismo, Vittorio Vidali, un personaggio scomodo, ma anche una testa politica con cui Piva fatica a confrontarsi. A luglio del 1944 Piva diventa comandante dei gruppi GAP nella provincia padovana. Questo impegno lo assorbe fino al dicembre del 1944 quando cambia nuovamente zona. Dal Veneto, su incarico dei vertici del PCI, giunge in Val D’Ossola per una missione partigiana sia militare che d’intelligence. Il caos del mese di aprile 1945 vede il Piva riparare a Milano dove svolge un compito decisamente stragista. Collabora, ma soprattutto dirige decine di fucilazioni con centinaia di morti, tra i prigionieri fascisti e i borghesi in odore di fascismo. Poi, finita la guerra, Piva torna in Veneto divenendo niente meno che dirigente dell’Ufficio investigativo della polizia ausiliaria partigiana, una pulita etichetta che nasconde solo la voglia di spremere notizie ai fascisti incarcerati. È in tal contesto che organizza il cruento assalto alle carceri di Schio del 6 luglio 1945.

La fuga in Istria

Poi, consapevole di ciò che ha comandato, Piva fugge nell’Istria da poco iugoslava. Non è solo un esilio, un approdo per un bisogno immediato di sottrarsi alla cattura degli angloamericani che lo vanno a cercare in Trentino. A Fasana, presso Pola, c’è la sede delle operazioni speciali che l’Ozna prepara per l’Alta Italia e per Roma. In quel mentre Piva incrocia sul suo cammino Vittorio Tinelli, un comunista friulano.

Il 1° agosto 1945 Igino Piva, assieme a Nello Pegoraro, è già a Capodistria e ha incontri con ufficiali del IX Korpus titino. Si noti che il territorio controllato dagli iugoslavi, aldilà del TLT, vede gli italiani in una situazione delicata. Italiano vuol dire esodo dall’Istria verso il TLT e Monfalcone, in Italia. Nel periodo in cui Piva inizia a muoversi in Istria avviene una ristrutturazione importante dei servizi segreti jugoslavi. Gli italiani sono malvisti dai titini. Come mai Piva riceve un’accoglienza coi fiocchi, e addirittura sale al comando, se non è collegato all’Ozna? Egli è accolto a braccia aperte, riverito, onorato e indirizzato a Pirano con il grado di comandante della Difesa Popolare della cittadina dell’Istria, nella Zona B del TLT, sotto controllo slavo. Anche gli altri seguaci vengono inglobati nella stessa struttura, ma per breve tempo. Igino Piva, oltre al Comando della Difesa Popolare di Pirano diventa anche membro del Comitato Distrettuale del Partito Comunista della Regione Giulia (Pcrg). È una costola del PCI che, basandosi dell’appoggio dell’intero Comintern, sosteneva che nel dopoguerra il problema dei confini avrebbe dovuto essere risolto a livello internazionale. Quindi il Pcrg è un partito nuovo che sostiene la fusione della comunità italiana con quella slava per aderire agli ordinamenti politici del comunismo di Tito.

Piva, nel 1945 sceglie la linea di Tito che si basa sull’espulsione graduale dell’elemento italiano, ma la sua gloria non dura molto. Il 3 dicembre 1946, viene espulso dal Pcrg “per aver sposato una donna non adatta, una ragazza piranese di ottima famiglia, dalla quale ebbe una figlia” (Cfr. Marenghi che cita M. Bonifacio, p. 57). Nel 1947 Piva lascia il comando della Difesa Popolare, si trova un lavoro e si prepara a una nuova fuga. Quando nel 1948 il Comintern bolla come “eretico nazionalista” Josip Broz Tito, Igino Piva, aiutato da Vittorio Vidali, comunista triestino, attraversa il confine iugoslavo, passa in Ungheria e poi in Cecoslovacchia. Dell’accordo con l’Ozna non gli rimangono neanche le briciole.

Conclusioni

I fatti dell’esodo giuliano dalmata e dell’uccisione nelle foibe dovevano restare nascosti perché c’era la Cortina di ferro, da Danzica a Trieste. Come disse Winston Churchill, nel marzo 1946, a separare l’Europa in due sfere politiche, una sovietica e l’altra angloamericana c’è la Cortina di ferro. In piena Guerra fredda e con le spie di tutto il mondo che ronzavano tra Trieste, Tarvisio e Gorizia non si doveva scomodare Tito, capo della Federativa Repubblica di Jugoslavia, che si stava staccando politicamente da Mosca e da Stalin, mentre gli agenti dell’Ozna gironzolavano nel Nord Italia e a Roma con i loro obiettivi.

La “Odeljenje za Zaštitu Naroda” (Ozna) è la sigla che significa: Dipartimento per la Sicurezza del Popolo. C’è una seconda versione che così spiega la sigla: “Oddelek za zaščito naroda”; letteralmente: Dipartimento per la protezione del popolo. Era parte dei servizi segreti militari iugoslavi e fu attiva dal 1944 fino al 1952. L’organizzazione titina, programmata da Tito e Milovan Gilas, era dotata di carceri proprie e attuava requisizioni, vessazioni ed addirittura ha programmato la pulizia etnica a Pola contro gli italiani. La pianificazione delle uccisioni di italiani in Istria, Fiume e Dalmazia per mano titina è stata documentata da Orietta Moscarda Oblak nel 2013, a pp. 57-58 di un suo saggio (vedi in Bibliografia). Agenti dei servizi segreti di Tito negli anni ‘50 si infiltrano perfino nei Centri raccolta profughi (CRP) sparsi in Nord Italia per carpire notizie sui rifugiati e per altre operazioni di stampo terroristico nelle città. Dal 1946 al 1991 la polizia segreta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia diviene “Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti” o Udba; letteralmente: “Amministrazione Sicurezza Statale”. Processato e incarcerato da Tito, dal 1954 al 1966, come dissidente lo stesso Milovan Gilas, nel 1991, riguardo all’Istria del 1945-‘46, dichiarò al giornalista Alvaro Ranzoni, del settimanale italiano «Panorama»: “Gli italiani erano la maggioranza solo nei centri abitati e non nei villaggi. Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto”. Gravi dichiarazioni mai smentite quelle di Gilas, che fu segretario del Komunisticna Partija Iugoslavije (Partito comunista iugoslavo); egli ammise inoltre in un suo noto memoriale che in Jugoslavia gli “arresti effettuati al di fuori della legge, come in tempo di guerra, continuavano a essere la pratica corrente” (Gilas, p. 12).

La Società di Studi Fiumani di Roma ha documentato nell’opera bilingue (italiano e croato) – Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni, pubblicata nel 2002 a cura di Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski e presentata a Roma e a Zagabria, come andarono le cose dopo l’avvento della nuova dittatura comunista iugoslava. Sono oltre 580 le persone uccise a Fiume dalla polizia segreta dell’Ozna a guerra finita, senza umana giustizia. L’Ozna operò fino al 1952, assieme all’Udba, che poi prese le redini dei servizi segreti titini. La gente continua a chiamare le spie di Tito: quelli dell’Ozna.

Bibliografia e sitologia

  • Francesca Artico, “Morto ‘Ferro’, partigiano dei Diavoli Rossi”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Cervignano Latisana Bassa, 19 aprile 2020, p. 37.
  • Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski (a cura di / uredili), Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1947) / Žrtve talijanske nacionalnosti u Rijeci i okolici (1939.-1947.), Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per gli Archivi, 2002; anche nel web.
  • Elio Bartolini, Il Ghebo, Udine, La Nuova Base, 1970.
  • Mario Bonifacio, “La seconda resistenza del CLN italiano a Pirano d’Istria 1945-1946”, «Quaderni di Quale Storia» n. 15, Trieste, 2005.
  • “La criminosa impresa organizzata dopo un invito al ‘popolo’ ad agire contro il clero”, «Giornale di Trieste», 23 novembre 1951.
  • István Deák, Europe on Trial. The Story of Collaboration, Resistance, and Retribution During World War II, Boulder, CO, Westview Press, 2015, traduzione ital. di Maria Luisa Bassi: Europa a processo. Collaborazionismo, resistenza e giustizia fra guerra e dopoguerra, Bologna, Il Mulino 2019.
  • Milovan Gilas, Se la memoria non m’inganna… Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962, (ediz. originale: Vlast, London, Naša Reč, 1983), Bologna, Il Mulino, 1987.
  • Orietta Moscarda Oblak, “La presa del potere in Istria e in Jugoslavia. Il ruolo dell’OZNA”, «Quaderni del Centro Ricerche Storiche Rovigno», vol. XXIV, 2013, pp. 29-61.
  • O.Z.N.A.: La mano segreta di Tito, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Della P.S. – Divisione S.I.S., Roma, 19 novembre 1946,  consulenza di Aldo Giannuli, Università di Milano; nel sito web storiaveneta.it
  • Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria. Chi imprigiona la verità sulla guerra civile, Sperling & Kupfer, 2007.
  • Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati-Boringhieri, 1991.
  • Paolo Radivo, La strage di Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive, Libero Comune di Pola in esilio, «L’Arena di Pola», 2016.
  • Alvaro Ranzoni, “Se interviene anche l’Islam”, «Panorama», 21 luglio 1991.
  • Luciano Santin, “Quando i titini se la presero con il capo garibaldino Sciovinista italiano”, «Messaggero Veneto», 19 giugno 2020, p. 38.
  • Bruno Vespa, Vincitori e vinti. Le stagioni dell’odio delle leggi razziali a Prodi a Berlusconi, Milano, Mondadori, 2005.

Messaggi dal web

Giuseppe Ritschl, di Torino, figlio di esuli che vive a Senigallia (AN), il 9 giugno 2020, nel gruppo Anvgd Arezzo di Facebook, ha scritto: “Mio padre mi raccontò che agli inizi degli anni ‘70 componenti dell’Ozna erano presenti nel posto di lavoro a Torino; li riconobbe perché erano compaesani al servizio degli Slavi.

Giorgio Hervato, lo stesso giorno, ha aggiunto: “Dai racconti di mio padre, erano peggio gli stessi paesani italiani dichiarati partecipanti dell’Ozna che gli stessi slavi; sempre dai racconti, la peggior specie erano i comunisti italiani di lingua slava passati alla parte di Tito”.

Servizio giornalistico, di ricerca e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Copertina: La banda dei Diavoli rossi; archivio ANPI Udine. Fotografie da collezioni private e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Massacro gappista del Ghebo, in Friuli e i poliziotti di Udine al lager, 1944-’45

L’uccisione di persone inermi da parte dei partigiani spesso non è passata alla storia. La retorica partigiana del dopoguerra è orientata ad esaltare solo certe vicende, tacendone invece quelle troppo scomode, come hanno scritto Giampaolo Pansa e Andrea Zannini. Questo non è stato un buon servizio alla storia della Resistenza che, a detta di molti autori, ha come principale merito quello di aver contribuito, con gli alleati, alla sconfitta dei nazisti.

La notizia sul massacro gappista del Ghebo risale al 21 novembre 2013. I gappisti sono i Gruppi di Azione Patriottica, appartenenti al Partito Comunista d’Italia. Quel giorno sul «Messaggero Veneto» compare un commento del signor Renzo Piccoli intorno al dibattito apertosi nella Bassa friulana sull’intitolazione di una strada a un capo partigiano. Il titolo del brano è “Quel partigiano tanto osannato sotto Natale ha ucciso mio padre”. Il partigiano da ricordare sarebbe Gelindo Citossi (1913-1977) di San Giorgio di Nogaro, nome di battaglia Romano il Mancino, il cui covo era nel Casale Papais, pare nel Codroipese. Detto Citossi, al comando dei Diavoli rossi, partigiani garibaldini, è celebre per l’assalto al carcere di Udine travestiti da tedeschi, un’arrogante azione che ebbe risonanza fino all’estero. Accadde il 7 febbraio 1945, anche se di scarso profitto bellico, l’operazione fa liberare 73 detenuti, ma vengono uccisi due poliziotti giudiziari. Ciò provoca la rabbiosa rappresaglia nazista con la fucilazione di 23 partigiani e ostaggi sul muro del Cimitero di Udine. I nazisti attuano tale dura rappresaglia, come ci si poteva aspettare avendo un briciolo di tattica militare. Si tenga conto poi che tra i poliziotti di Udine c’è un sentimento badogliano e, addirittura, come riferito da don Emilio De Roja, ci sono questurini che passano ai preti atti di liberazione firmati in bianco, per far uscire proprio i detenuti partigiani, in barba ai tedeschi (vedi in bibliografia: Don Emilio 1992, p. 41). Proprio dei questurini di Udine vicini alla Resistenza ne riparleremo più sotto.

Qualche autore ha rilevato la coincidenza della data scelta da Romano il Manzin, comandante dei Diavoli Rossi. Il 7 febbraio è lo stesso giorno dell’eccidio di Porzùs, Comune di Faedis (UD), anzi sembra fatto apposta per oscurare quel triste ammazzamento fra partigiani. Il 7 febbraio 1945, infatti, alle malghe di Porzùs, diciassette partigiani (tra cui una donna, loro ex prigioniera) della Brigata Osoppo Friuli (BOF), di orientamento cattolico, monarchico e laico-socialista, sono fucilati da parte di un gruppo di partigiani, in prevalenza gappisti di San Giovanni al Natisone (UD) e dintorni. Ciò segna il punto massimo delle tensioni fra partigiani garibaldini (pro-titini sloveni) e le BOF, che invece difendevano l’italianità del territorio, contro l’espansionismo iugoslavo.

Copertina del romanzo di Elio Bartolini

Ritorniamo al massacro del Ghebo, termine dialettale per un canale d’acqua nei pressi di Codroipo (UD). Tale parola è utilizzata sia nella Bassa friulana (vedi: Corso Regeni) che nel vicino Veneto. La notizia della nuova intitolazione stradale al suddetto partigiano “mi ha toccato nel profondo – ha scritto Renzo Piccoli – e più di un pensiero ho rivolto a mia madre e mia sorella, che non ci sono più, per il fatto che questo ‘eroe’ partigiano garibaldino, è stato autore di un episodio per me malvagio, commesso in nome della Resistenza. Dopo settanta anni, lungi da me l’idea di alimentare polemiche, desidero ricordare l’episodio che ha visto protagonista l’eroe che ha sconvolto e distrutto la mia famiglia. Il fatto è avvenuto il 16 dicembre 1944, protagonista quel tale, incensato con una pubblicazione e addirittura con un brano musicale”. Renzo Piccoli è nato a Fiume nel 1937 da Firminio e Vittoria Simeoni “dove mio padre friulano si era recato a lavorare nel locale silurificio negli anni ‘20 e nel 1943 vedendo tempi bui spinse mia madre a rientrare in Friuli a Segnacco di Tarcento con i bambini presso i nonni”.

Firminio Piccoli resta a Fiume e diventa autista personale dell’ingegnere capo del Genio civile dell’Istria e Dalmazia, viene militarizzato con il compito di guidare un camion a gasogeno che fa la spola tra Fiume, il Friuli e il Veneto per trasportare generi alimentari. I prodotti sono destinati alla popolazione civile da distribuirsi con la tessera annonaria, come emerge dal Dossier Firmino Piccoli, fornitomi dallo stesso Renzo Piccoli, nel 2019.

In occasione delle feste natalizie 1944, in viaggio nel Basso Friuli, l’autista Piccoli, in abiti civili, “è stato intercettato dalla banda di partigiani garibaldini sulla strada che da San Martino di Codroipo conduce al paese di Lonca, nei pressi di Villa Manin di Passariano – continua lo scritto di Renzo Piccoli sul «Messaggero Veneto» –. Qui i partigiani, rubato o requisito il carico, considerato un esproprio proletario, hanno ucciso mio padre (36 anni) e il suo aiutante, addetto alla legna nella caldaia del gasogeno, lasciandoli stesi nell’acqua delle Risorgive. Di questo eccidio non si è avuto riscontro nei giornali di allora, ma si trova traccia in una pubblicazione con l’elenco delle vittime della Resistenza. Negli anni ‘60 mi sono attivato per conoscere meglio il fatto e il luogo: sono venuto a sapere da un fattore, che lavorava i terreni di proprietà Kechler, che, giunto primo sul luogo, ha scoperto i cadaveri avvertendo le autorità comunali di Codroipo”.

Renzo Piccoli, oltre ad avere alcune testimonianze di partigiani locali, come l’osovano Marco Cesselli, ha anche un contatto con lo scrittore Elio Bartolini, che aveva partecipato alla Resistenza nella zona. “Bartolini – prosegue lo scritto di Piccoli – nel suo primo libro descrive sia il luogo, chiamato con il titolo ‘Il Ghebo’, sia le gesta del capo partigiano, che chiama ‘Il monco’, crudele, feroce, spietato nelle sue scorrerie con i suoi seguaci, giovani attratti dalla sua personalità e intraprendenza, ma nulla della sorte di mio padre. A me è rimasta l’amarezza per l’episodio: sopprimere a freddo, due vite, due padri di famiglia, per poi festeggiare con i generi alimentari. Mi permetto infine di ricordare, che allora, tre fratelli di mio padre si recarono nel cimitero di Codroipo per ritirare la bara con un triciclo. Impiegarono tre giorni ad arrivare nella casa dei miei nonni. Il funerale si è svolto la vigilia dell’ultimo Natale di guerra. Ricordo ancora bene, io (6 anni) e mia sorella (14 anni), soli, perché la mamma era disperata e sconvolta, dietro la bara di mio padre che era portata a spalle da uomini anziani del paese, arrancando sulla salita al cimitero di Sant’Eufemia. Questa è la tragedia di cui è stato capace tale che alcuni intendono osannare, mentre lui è subito fuggito in Jugoslavia con i suoi rimorsi. Caro direttore, mi creda, per la mia famiglia è stato un dramma. Ringrazio per l’ospitalità. Renzo Piccoli, Udine”.

Si può aggiungere che i tre fratelli Piccoli con la bara del congiunto Firmino sul triciclo nel viaggio di tre giorni da Codroipo a Segnacco di Tarcento hanno rischiato non poco con i cacciabombardieri anglo-americani che dominavano i cieli del Friuli. Si fa solo un cenno conclusivo alla famiglia sconvolta dall’eccidio del Ghebo. La mamma di Renzo, Edda Piccoli, rimasta vedova, mette in collegio i figli e emigra in Svizzera per lavorare in una fabbrica di calze femminili. Renzo Piccoli si diploma geometra all’Istituto “A. Zanon” nel 1956. Lavora presso studi tecnici della città, poi vince un concorso in Provincia e lavora anche all’Istituto Autonomo delle Case Popolari, fino al pensionamento.

Fiume, 1945, esodo. Luciana Stella commenta: “In primo piano, il secondo da destra, mio zio materno Livio Fantini, anche lui se ne sta andando, insieme ad altri esuli fiumani, spingendo un carretto: “Nello spingere quel carretto, non sapevo se ridere o piangere. Ridere perché ero contento di andare via, ovunque, con la speranza di ricominciare una vita nuova, piangere per la paura di non ritornare più nella mia cara Fiume”. Foto tratta dal libro di storia ed emigrazione dal titolo: Per l’Australia, scritto da Julia Church e la collaborazione di Pino Bartolomè. Grazie a Luciana Stella, di Milano, che ha scritto in Facebook il 6 febbraio 2020, tale messaggio.

Le sanguinarie gesta dei Diavoli rossi

Paolo Barbaro, negli anni ’80 del Novecento descrive in una serie di racconti la vita nella pianura veneta tra vari corsi d’acqua (Brenta, Bacchiglione, Zovòn, Ceresone…). Sono storie contadine di famiglie numerose, dove otto di dodici cugini “con la giusta età erano distribuiti fra Albania, Grecia, Croazia Africa e Russia…”. Oltre alle guerre fasciste e ai conseguenti morti lo scrittore non va. Si occupa molto di emigrazione in un clima di umile saga padana. Paolo Barbaro pubblica così Storie di Ronchi nel 1993.

Chissà perché il romanzo storico di Elio Bartolini, ambientato nella primavera del 1945 e intitolato Il Ghebo, sulle gesta dei partigiani gappisti tra Codroipo e Palmanova, scritto nel 1946, invece fu respinto dalla pubblicazione da Elio Vittorini? Trova un editore solo nel 1970 a Udine, lontano dalle piazze culturali nazionali, ancora intente ad incensare i partigiani in base ad una linea unidirezionale, indiscussa ed indiscutibile.

Forse perché Bartolini, partigiano egli stesso nel Basso Friuli, è uno che parla chiaro. Accenna all’eccidio di Porzùs, pur non nominandone il sito (vedi Il Ghebo, pagg. 55 e 88). Descrive egli l’uccisione di partigiani effettuata da altri partigiani, per assecondare l’espansionismo iugoslavo. È troppo politico, come ha rilevato furbescamente Elio Vittorini, dopo aver letto le bozze di una stampa poi da lui stesso bloccata.Ècritico nei confronti di una spietata banda partigiana, quella comandata da Il Monco, facilmente individuabile in Romano il Mancino. Come si muovono costoro e cosa fanno? Nelle 150 pagine del romanzo si nota che detti partigiani sono spesso ubriachi (pp. 10, 37, 38 e 51) sia alla Cartera, sede delle loro operazioni, che in altri luoghi. Sono crudeli e con scarsa disciplina (pp. 12 e 34), ben pronti a fregare camion pieni di roba da portare oltre il Collio, in quella che sarà la Jugoslavia di Tito, per far bella figura coi titini, che li hanno ben posti sotto il Comando militare del IX Corpus. Bartolini spiega che gli slavi volevano annettersi, oltre all’Istria, Fiume e Dalmazia, anche un pezzo di Friuli, fino al Tagliamento (pp. 55, 65 e 102). Spietati e sanguinari, detti partigiani sono pronti a fucilare senza processo dei civili con la presunta accusa di spionaggio, andando contro le disposizione del Comitato di Liberazione Nazionale, il CLN (p. 61) o addirittura i loro stessi compagni  di battaglia fuggiti dopo che il mitragliatore si inceppa (p. 117). È gente pronta a fare la leva obbligatoria tra Palmanova e Codroipo, come gli Sloveni nel Collio (p. 85). Rubano oggetti ai cadaveri (p. 101) e sono pronti nell’accusare gli altri di far borsa nera, mentre loro stessi hanno dei magazzini pieni di ogni ben di dio (pp. 9 e 97). Sono così mal preparati militarmente che nei loro magazzini pieni di roba rubata non sanno nemmeno mettere qualcuno di guardia (p. 139).

Vari gappisti al termine della guerra fuggono nella Jugoslavia di Tito. Nel 1946 anche Mario Toffanin “Giacca”, lo stragista di Porzùs, se la svigna a Capodistria, evitando il carcere successivo alla condanna comminatagli nel 1951 al processo della Corte d’Assise di Lucca. Pure certi Diavoli Rossi se la mocano in Jugoslavia, primo fra tutti il loro caporione Gelindo Citossi, poi pure Norberto Sguazzin e un certo “Tom”, di Mortegliano; “emigrano in Jugoslavia”, come ha scritto Francesca Artico. Alcuni di tali partigiani fuggiti in Istria, come “Giacca”, Mario Abram (partigiano rosso triestino), Nerino Gobbo (noto infoibatore) e Giuseppe Krevatin se la prendono coi preti italiani, minacciandoli e picchiandoli a sangue, come ha riportato il «Giornale di Trieste» del 23 novembre 1951. Poi quando i titini vogliono fare piazza pulita dei cominformisti, dei comunisti storici e degli stalinisti, certi partigiani italiani scappati nel “paradiso di Tito” svicolano in Cecoslovacchia, perché neanche Tito li vuole più tra i piedi. Quelli che riesce a beccare li deporta all’Isola Calva (Goli Otok) dove patiscono e muoiono di stenti, come in ogni campo di concentramento. Alcuni dei fuggitivi in Cecoslovacchia, forse per la coscienza sporca, cambiano addirittura nome, imbrogliando sui documenti.

Ci sono poi comandanti partigiani della Divisione “Garibaldi-Natisone” assassinati dai loro stessi compagni. È successo il 30 aprile 1945 a Leo Scagliarini con un colpo alla nuca a Rizzolo di Reana del Rojale (UD). Pur essendo un democratico libertario, egli si aggrega nel 1944 alla brigata “Picelli”, col nome di battaglia “Ricciotti”, perché erano le unità più robuste per combattere i nazifascisti, ma con la metà di gennaio 1945 finiscono sotto il comando del IX Corpus titino. La spiegazione fornita dai partigiani invece narra di una morte per il fuoco amico di un aereo da caccia inglese che mitraglia una colonna di partigiani e l’autovettura con dentro “Ricciotti” il 29 aprile. Pare che l’assassino sia stato lo stesso “Giacca”, molto ostile a “Ricciotti”, che intendeva liberare Udine il 1° maggio con le bandiere tricolori e non con quelle rosse dei comunisti. Su tale eliminazione non è mai stata aperta un’indagine giudiziaria, come ha scritto Pansa (pp. 291-315).

Mario Savino, vice commissario di Polizia a Udine, 1944. Fotografia famiglia Savino

Mario Savino, vice commissario di polizia a Udine e i suoi colleghi 1944-1945

Parliamo ora di un poliziotto che lavorava a Udine nel 1944-1945. È un milite italiano che “conobbe gli orrori di Dachau, Ebersen e Mauthausen”, come si legge sul quotidiano «Libertà» 13 marzo 1946. Si tratta di Mario Savino, vice commissario di Pubblica Sicurezza a Udine. Catturato dai nazisti con l’accusa di collaborazione col movimento partigiano, fu deportato nei lager dove trovò la morte. “Non piangere, che tanto tornerò” – disse dal vagone bestiame alla fidanzata a Udine, mentre lo stavano portando via, assieme a un gruppo di alcuni suoi colleghi poliziotti. La fidanzata, la signora V., nata nel 1924 a Tarvisio, intendendo la lingua tedesca, venuta a conoscenza su dove si trovasse, non si perse d’animo e volle raggiungerlo, assieme ad una sorella, per portargli un pacco di vestiario e di viveri, come ha raccontato Clelia Savino. Il vice commissario aveva chiesto alla fidanzata un pacco di farina di carrube, forse per avere qualcosa di molto nutritivo, con buone calorie (tra il 50 e il 60% di zucchero) e di facile assimilazione in prigionia.

La signora V. e la sorella giunsero fino al Campo di concentramento di Ebersen, sotto-campo di Mauthausen. Trovato un tizio che lavorava nel campo stesso, furono consigliate di andare via, altrimenti avrebbero preso pure loro. Lasciarono il pacco, ma non seppero più nulla del dottor Mario Savino, cui dal 2005 è dedicata una lapide nel cortile della Questura di Udine, assieme ad altri otto funzionari e poliziotti sterminati nei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald. Mario Savino era nato a Pozzuoli (Napoli) nel 1914 e morì a Mauthausen il 15 marzo 1945.

Lapide nel cortile della Questura di Udine, in viale Venezia in ricordo dei poliziotti deportati e massacrati nei lager nazisti. Fotografia famiglia Savino

Un altro fatto sconvolgente coinvolge la famiglia della signora V., che gestiva l’albergo “Trieste” a Tarvisio, coma ha raccontato Fulvia Zoratto. Il giovane fratello della signora V., essendo stato riformato per problemi cardiaci alla chiamata alle armi, si trova a lavorare dietro il bancone della ditta di famiglia dopo il 1943. Un giorno entrano un gruppo di soldati tedeschi, ai quali il barista tarvisiano risponde gentilmente in lingua tedesca. A un ufficiale non va giù che un giovane così solerte non sia a combattere per il grande Reich, così si mette a canzonare il ragazzo del bar. Ad un certo punto, presa in mano la pistola, l’ufficiale lo minaccia puntandogliela alla tempia. Colto dal panico, il giovane fratello della signora V. muore d’infarto, davanti al bullo, ma esterrefatto ufficiale tedesco. La notizia crea scalpore in tutto il paese, andando a scalfire il buon rapporto che i soldati di Hitler tentavano di instaurare nella Valle tedescofona, oltre che italofona e slovenofona.

Lapidi da correggere

L’ultima notazione riguarda il motivo per cui lo Sicherheitsdienst (SD), servizio segreto delle Waffen SS, il 22 luglio 1944 fa circondare da un plotone di soldati tedeschi la Questura di Udine, che allora ha sede in via Treppo per arrestare circa 30 poliziotti, alcuni dei quali deportati nei lager. Tutto è dovuto al ritrovamento di una lista di dirigenti e poliziotti compromessi con la Resistenza, vergata secondo le informazioni di Guglielmo Iacuzzi, di Sedegliano. Come ha scritto Bruno Bonetti, tale Iacuzzi, già al servizio della SD germanica a Udine, in quanto doppiogiochista passa alle formazioni partigiane. Dal marzo 1944 Iacuzzi è a capo dell’Ufficio SD 1724 di via Lovaria 4, che poi cambia sede in via Montenero 4, disponendo di oltre 15 uomini alle sue dipendenze ed essendo in contatto con altri servizi segreti (Bonetti, p. 68-77). Quindi lo spione, nella veste di partigiano tarocco viene arrestato e fucilato al carcere il 10 dicembre 1944 in via Verdi, assieme ad altri tre patrioti veri. Incredibile che una lapide a ricordo della fucilazione dei quattro detenuti sia ancora lì integra, compreso il nome del doppiogiochista, nonostante si sappia dalla recente ricerca storica che Iacuzzi sia una volgare spia infiltrata tra i partigiani.

Udine, via Verdi, lapide in ricordo di 4 partigiani uccisi dai nazisti, tra i quali c’è ancora il nome di Iacuzzi, spia dello Sicherheitsdienst (SD), il servizio segreto delle Waffen SS

Spari al carcere di Via Spalato a Udine

Tra i luoghi di detenzione a Udine c’era il carcere di Via Spalato, oltre alle celle del tribunale di Via Treppo, davanti al quale furono fucilati quattro partigiani, come il giovane Antonio Friz “Wolf”, di Pontebba, più precisamente “in vie de Roe”, ossia al civico n. 30 di via Verdi, dove scorre la roggia. Sul muro del tribunale fu posta una lapide, che ricorda i quattro partigiani lì fucilati, tra i quali appunto Friz e una spia.

A livello popolare la prigione cittadina era detta “Al Grande Albergo di Via Spalato”, come ha scritto Plinio Palmano, incarcerato nel luglio 1944. Il carcere era per 250 posti, ma erano reclusi centinaia di individui, in attesa di essere trasferiti ai Campi di concentramento nazisti. Palmano cita il maresciallo delle Waffen SS Hans Kitzmüller, che compì il voltafaccia, facendo liberare alcuni reclusi fra i quali “Verdi” [Candido Grassi], “Mario” [Manlio Cencig] e altri (p. 100). Ecco il numero dei detenuti passati per il carcere di Via Spalato a Udine tra l’8 settembre 1943 e la fine di aprile 1945. Vedi la tabella n 1. Per i nomi dei comandanti partigiani si è visto il libro di Primo Cresta.

Tabella n. 1 –  Detenuti entrati al carcere di Udine, 1943-1945

Condannati a morte (sentenza eseguita)                 98

Deportati in Germania                                           7.414

Deportati per lavori dalla TODT                              753

Rimessi in libertà                                                    1.647                

TOTALE                                                                 9.912

Fonte: Plinio Palmano, “Al Grande Albergo di Via Spalato”, «Avanti cul Brun!», 1946, p. 106.

Oltre a via Spalato e al carcere del tribunale di via Treppo, le Waffen SS avevano altre prigioni per interrogatori nelle case requisite agli udinesi. Ad esempio “in una villa sulla strada per Tricesimo da piazzale Osoppo – ha detto Franco Pischiutti – nell’attuale viale Volontari della Libertà [allora viale Principe Umberto], ci fu un comando delle Waffen SS”. Lo stabile è a sinistra dopo i moderni condomini; lì si dice che siano stati torturati e uccisi certi prigionieri dai tedeschi e, forse, sepolti in loco. Ne fa cenno la Carta della Gestapo, pubblicata dall’ANPI di Udine nel 2019; in genere non si sa che il documento originario di tale mappa era nelle mani dell’onorevole Lorenzo Biasutti, dimenticato da qualcuno nella osteria Alla Buona Vite di via Treppo, poi fu consegnata al professor Luigi Raimondi Cominesi, che la studiò a lungo. Che la villa di viale Principe Umberto “della famiglia Agostinelli” fosse un comando tedesco lo scrive Bruna Sibille Sizia, a pag. 125, del suo libro intitolato Diario di una ragazza della Resistenza. Friuli 1943-‘45.

Poi si sa che: “Le Waffen SS avevano un comando a Udine sud – ha aggiunto Franco Pischiutti – so che in via San Martino avevano occupato la villa Elisa, proprietà di ebrei rifugiatisi in Veneto, per sfuggire alle deportazioni naziste. Certi Gentilli si erano rifugiati clandestini a Gemona del Friuli presso la famiglia Cesarino Sabidussi”. Che cosa dicevano i vecchi udinesi dei tedeschi? “Si è saputo che i nazisti a Udine cercavano gli ebrei possidenti per derubarli, prima della deportazione nei lager – secondo le fonti del quartiere – questi gerarchi tedeschi chiedevano agli ebrei di Udine e dintorni se potessero pagare con denaro, gioielli, oro ed altri valori così avrebbero avuto una specie di salvacondotto per salvare la pelle, ma poi li avrebbero comunque fatti deportare nei Campi di concentramento”.

Oltre alle testimonianze, si sa dal libro di Fölkel, che a Udine, in via San Martino, dal mese di dicembre 1943 funziona l’Abteilung R/3, alle dipendenze di Franz Stangl, in collegamento alle Waffen SS ucraine di stanza a campo di concentramento triestino di San Sabba, con servizi anche a Castelnuovo d’Istria. Il gruppo specializzato nella cattura di ebrei nella zona di Fiume è l’Abteilung R/2, sotto il comando di Reichleitner. Ogni comando d’azione Reinhard (Aktion Reinhard) agisce tra Carso, Friuli ed Istria con retate, fucilazioni e impiccagioni. È suddiviso in tre gruppi: a Trieste, San Sabba c’è l’Abteilung R/1, a Fiume l’Abteilung R/2 e a Udine  l’Abteilung R/3 (Fölkel p. 53, 56, 123).

Certe fonti riferiscono che davanti al carcere di via Spalato, dove erano reclusi sospetti partigiani, ebrei e militari italiani in attesa della deportazione, ci fossero dei fascisti in abiti civili che, per intimidire, sparavano alle spalle delle donne che portavano vestiti puliti e cibo ai prigionieri. In carcere tra i partigiani rastrellati, c’è Luigi Barbarino, Matiònow (Resia 1914 – Flossembürg 1945). Era egli un appartenente al “Rozajanski bataljon”, collegato al IX Korpus di Tito dell’Osvobodilna Fronta – Fronte di Liberazione della Jugoslavia, con i capi venuti dalla Slovenia interna. Fu catturato a Resia dai nazisti, per una delazione e morì nel lager, per le ripetute percosse. “Ce lo raccontava sempre la zia Anna Valente – ha detto Lucillo Barbarino – che certi civili le sparavano alle spalle, per farle paura, gridando: ‘partigiana, partigiana’; la zia abitava in via Cisis e portava una gavetta di minestra a mio padre Luigi Barbarino. Lei e mio zio Odorico Valente aiutavano sempre la gente di Resia, che scendeva in treno dal paese in pianura a cercare cibo e aiuti vari. Ricordo che nel dopoguerra, mentre ritornavo a casa a Resia dal collegio di Cividale del Friuli per la domenica, vedevo salire in treno da Tricesimo a Gemona del Friuli le donne resiane, di Chiusaforte e di Pontebba con lo zaino pieno e il sacco di farina; erano andate a chiedere la carità ai friulani dei paesi, oppure scambiavano un po’ di noci, mele, o facevano qualche lavoro nei campi per avere roba da mangiare. C’era tanta fame e la gente dei paesi ci ha aiutato molto”.

Cimeli della Seconda Guerra mondiale. Bustina partigiana (titovka), Collez. di un resiano, elmetto italiano, gavetta italiana (piccola), gavetta di alpino (grande), borraccia americana e tascapane italiano. Coll. private Udine

Documenti originali

Renzo Piccoli, Dossier Firmino Piccoli, Udine, 18 marzo 2019, cc. 5, ms.

Fonti orali

Interviste effettuate da Elio Varutti con penna, taccuino e macchina fotografica a Udine. Lucillo Barbarino, Matjònawa, (Resia 1941), int. telefonica del 23 aprile 2020.

Renzo Piccoli, Fiume 1937, intervista del 18 marzo 2019.

Franco Pischiutti, Gemona del Friuli 1938, int. del 5 febbraio 2020.

Clelia Savino, Udine 1946, int. del 27 ottobre 2016.

Fulvia Zoratto, Udine 1950, int. del 19 marzo 2019.

Collezioni familiari. Lucillo Barbarino, Resia (UD), bustina partigiana 1944.

Giorgio Gorlato, esule da Dignano d’Istria a Udine, fotografia 2019.

Luciana Stella, di Milano, commento alla fotografia dell’esodo da Fiume 1945.

Famiglia Savino, Udine, fotografie, lettere, ritagli di giornali, 1944-2014.

Cenni bibliografici

Francesca Artico, “Morto ‘Ferro’, partigiano dei Diavoli Rossi”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Cervignano Latisana Bassa, 19 aprile 2020, p. 37.

Paolo Barbaro, Storie dei Ronchi, Venezia, Edizioni del Gazzettino, 1993.

Elio Bartolini, Il Ghebo, Udine, La Nuova Base, 1970.

Bruno Bonetti, Manlio Tamburlini e l’albergo nazionale di Udine, Pasian di Prato (UD), L’Orto della Cultura, 2017.

Rosanna Boratto (a cura di), La Carta della Gestapo. Decifrazioni e misteri di un itinerario della memoria, Udine ANPI, 2019.

Primo Cresta, Un partigiano dell’Osoppo al Confine orientale, Udine, Del Bianco, 1969.

“La criminosa impresa organizzata dopo un invito al ‘popolo’ ad agire contro il clero”, «Giornale di Trieste», 23 novembre 1951.

Julia Church, Per l’Australia: the story of Italian migration, Carlton Victoria (Melbourne), Miegunyah Press, in association with the Italian Historical Society (COASIT), 2005.

Maria Teresa Corso Regeni, Vocabolario maranese. Vocabolario fraseologico veneto-italiano varietà di Marano Lagunare (UD), Latisana (UD)-San Michele al Tagliamento (VE), la bassa / vocabolari 2, 1990.

Don Emilio, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1992.

Ferruccio Fölkel, La Risiera di San Sabba. L’Olocausto dimenticato: Trieste e il Litorale Adriatico durante l’occupazione nazista, Milano, Bur, 2000.

Plinio Palmano, “Al Grande Albergo di Via Spalato”, «Avanti cul Brun!», n. 46, 1946, pp. 99-107.

Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria. Chi imprigiona la verità sulla guerra civile, Sperling & Kupfer, 2007.

Bruna Sibille Sizia, Diario di una ragazza della Resistenza: Friuli 1943-’45, Udine, Kappa Vu, 1998.

Andrea Zannini, “Dal linciaggio di Solaro alla strage di Schio: alla fine della guerra scoppia la resa dei conti”, «Messaggero Veneto», 11 maggio 2020, p. 32.

Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Copertina: fotografia di Giorgio Gorlato a Renzo Piccoli durante una gita dell’ANVGD del 2019. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.