Sociologia dell’eccidio in foiba

Il dolore dei parenti di un infoibato è stato così forte da spingerli a cercare notizie sul luogo della sua uccisione e del suo abbandono. Scomparsi i familiari più stretti della vittima, nel Terzo Millennio la ricerca prosegue a cura dei discendenti, spesso senza rancori, col solo desiderio di ricordare e onorare il caduto. È un fatto umano incontrovertibile, ma non sono casi isolati, né di un piccolo gruppo. Gli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia eliminati dai titini, a metà del Novecento, nelle foibe, nelle cave, nelle fosse comuni, nei campi di detenzione o annegati con una pietra al collo sono alcune migliaia (5-12mila). La stima è presumibile e varia a seconda dei diversi istituti di ricerca storica.

Uno dei dolori più laceranti, come hanno riferito alcuni testimoni intervistati da Dino Messina, nel 2019, è non poter portare dei fiori sul sepolcro del parente infoibato, senza sapere con certezza dove egli sia stato massacrato; così hanno riferito Francesco Tromba, Giacomo Crosilla e Piero Tarticchio (Messina, pag. 82; vedi in Bibliografia).

Perché una Sociologia dell’eccidio in foiba?

L’eliminazione nella foiba non fosse altro perché, per certi aspetti, diviene un fatto sociale, va ad interessare la sociologia, che studia i rapporti tra gli uomini ed anche chi tesse detti rapporti con uno scopo ben preciso (Demarchi, p. 9). Che l’eliminazione nella foiba sia un fatto sociale, nel senso che Durkheim ha dato al termine, è riconoscibile nel senso che “il modo di fare è capace di esercitare sull’individuo una costrizione esterna” (Durkheim, p. 33). Gli ufficiali titini dell’Ozna ordinavano di ammazzare e i miliziani eseguivano, anche perché se ci fosse stata una qualche manifestazione individuale di contrarietà, lo stesso milite dubbioso sulla fucilazione veniva passato per le armi.

Il dato pare sconvolgente, ma l’uccisione di partigiani iugoslavi da parte di partigiani titini era una pratica in uso. “C’era un giovane di Cal di Canale, frazione di Canale d’Isonzo – ha detto Stefania Bukovec – in quella che era provincia di Gorizia, dal 1918 al 1947. Oggi è Slovenia, ce lo ricordiamo bene io e i miei familiari, perché lo conoscevamo da bambino si chiamava Valentino Lipicar, era coi partigiani e gli ha sparato un altro che era con lui; è successo così: a Valentino avevano ordinato di sparare su un civile, ma lui si rifiutava di uccidere quell’uomo disarmato, allora l’altro partigiano gli ha sparato. In paese tutti dicevano ‘Come si fa ad ammazzare un ragazzo perché si rifiutava di sparare a un uomo’. A Cal siamo rimasti tutti male, come ricordava pure mio fratello Bozidar”.”.

Denunciata ai confini tra Italia e Slovenia, anche con l’eccidio di Circhina (GO) del 3 febbraio 1944, ordito dai servizi segreti titini facendo sorgere il caso di Giuseppe Baucon salvatosi dalla foiba, tale pratica è rilevata anche nel sud della Jugoslavia durante la Seconda guerra mondiale. Lo ha raccontato, quando poteva parlare liberamente dopo il 2010-2011, Vasko Kostić in un libro riguardante gli italiani della provincia di Cattaro, annessa al Regno d’Italia dal 1941 al 1943. Lo stesso Vasko Kostić (alle pagine 40, 121 e 126) cita un altro autore che è Nedjeljko Zorić, il quale riferisce un diktat dei partigiani titini del Montenegro: “Comunisti che non eseguono l’ordine – pallottola in testa!”. L’enunciato nella sua crudezza criminale è cinicamente assai convincente. Viene eseguito, infatti, con zelante precisione in tutta la Jugoslavia, lasciando sconvolte le truppe italiane presenti dal 1941 in Zona d’occupazione.

L’organizzazione dell’Ozna, programmata da Tito e Milovan Gilas, era dotata di carceri proprie e attuava requisizioni, vessazioni ed addirittura ha programmato le eliminazioni di italiani dell’Istria. Secondo il diario di don Toncetti, gli interrogatori dell’Ozna a Dignano d’Istria avvenivano con dei motori di motocicletta accesi per non far ascoltare le urla dei torturati (Luminoso), secondo l’indicazione dei consiglieri sovietici. Processato e incarcerato da Tito, dal 1954 al 1966, come dissidente Milovan Gilas, nel 1991, riguardo all’Istria del dopo guerra, dichiarò al giornalista Alvaro Ranzoni, del settimanale italiano «Panorama»: “Gli italiani erano la maggioranza solo nei centri abitati e non nei villaggi. Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto”. Si vedano in merito le considerazioni, del 2015, di Rumici e Cristicchi.

La pianificazione delle uccisioni di italiani in Istria, Fiume e Dalmazia per pulizia etnica, è stata documentata da Orietta Moscarda Oblak nel 2013, a pp. 57-58 di un suo saggio. Agenti dei servizi segreti di Tito negli anni ‘50 si infiltravano perfino nei Centri raccolta profughi (CRP) sparsi in Italia per carpire notizie sui rifugiati. Dal 1946 al 1991 la polizia segreta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia diviene “Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti” o Udba; letteralmente: “Amministrazione Sicurezza Statale”. Fino al 1952 operò anche l’Ozna. La gente continua a chiamare le spie di Tito: quelli dell’Ozna.

Francesco Tromba, a sinistra, e Giorgio Gorlato, ambedue col padre prelevato dai titini e poi scomparso; fotografia del 2018 – ANVGD Udine

“Nel 1942-1943 in Istria i slavi iera divisi in tre parti – ha spiegato Sergio Satti – un iera delle Waffen SS o coi fascisti della RSI, un altro iera dei Domobranci o dei Belagardisti e el terso stava coi partigiani”. Nel movimento partigiano del Fronte di Liberazione sloveno (Osvobodilna Fronta) c’erano poi varie tendenze: oltre ai ragazzi del mondo cattolico e delle parrocchie, come Valentino Lipicar, di Cal di Canale (GO), c’erano i monarchici bianchi di re Pietro di Jugoslavia, i comunisti cominformisti e i comunisti titini. Questi ultimi hanno il sopravvento. Dove sono finiti tutti gli altri? Nei campi di concentramento titini (Goli Otok), nelle foibe, nelle caverne, nei varchi anticarro della Todt e nelle fosse comuni.

La parola Belagardisti deriva da “Bela Garda”, che in sloveno significa Guardia Bianca. Era una Milizia Volontaria Anti Comunista (Mvac), o Bande Vac. È la denominazione comune con cui furono chiamate, a iniziare dal 19 giugno 1942, differenti formazioni armate locali croate e slovene collaborazioniste dei nazifascisti. Per quanto riguarda i Domobranci, o domobrani croati c’è da dire che si trattava della Hrvatsko domobranstvo (Guardia Interna Croata) faceva parte delle forze armate dello Stato indipendente croato, 1941-1945, addestrati dalle Waffen SS. I Domobrani furono spesso in rivalità con gli Ustascia, milizie del capo del governo croato Ante Pavelić (nazifascista), ma alla fin fine erano pure essi truppe collaborazioniste del nazifascismo.

“A Visinada d’Istria mio zio militare di quasi diciotto anni, Enea Urbino, fratello di mia mamma era scomparso – ha riferito Patrizia Dal Dosso – i compaesani dicevano che era stato ‘gettato in foiba’, risulta ‘disperso’ il 29 gennaio 1945, poi i miei familiari hanno dovuto lasciare tutto, perché erano italiani e stranieri nella loro terra e poi stranieri in Italia”.

Non ne ammazzano solo nella foiba. Il bersagliere Del Vita Luigi di Montevarchi (AR), classe 1926, della 3^ compagnia è fra i 79 uccisi, dopo la fine della guerra, nella caverna a Tolmino (GO) col colpo alla nuca. Poi i titini minano l’ingresso della grotta e fanno saltare in aria il varco, per cancellare le prove dell’orribile strage. La vicenda è stata riferita da Claudio Ausilio e da Daniela Del Vita. Ecco un’altra fonte: “Il tenente dei bersaglieri Oscar Busatti, nato a Ferrara il 6 o 7 febbraio 1918 è preso prigioniero assieme ad altri italiani dai titini il 5 maggio 1945 – è il racconto di Giordana Marzullo – era comandante della V Compagnia Bersaglieri volontari di stanza a Tolmino, IV reggimento ci hanno detto che fu arrestato (o è caduto in un tranello?) alla fine di aprile, forse il giorno 29, del 1945 a Santa Lucia (GO); non si hanno più notizie dal 5 maggio, giorno in cui fu, quindi, probabilmente giustiziato, io sapevo infoibato, ma da una pagina Facebook ho appreso, invece, della sua possibile morte in una grotta fatta poi saltare”.

Una scena sconvolgente cui assiste Antonio Zappador a Verteneglio si riferisce agli uomini dell’Ozna, il servizio segreto di Tito che, dal 1946, cambia nome. “Mi è capitato di vedere tre agenti dell’Ozna – ha riferito Zappador – accoltellare a morte un compaesano, così in mezzo alla strada, come se niente fosse, davanti al mulino di Cattunar, poi mio padre ha fatto di tutto per tenermi nascosto dato che ero un testimone scomodo; hanno squartato quell’uomo come con i maiali al macello”. Zappador lo scrive pure in un verso di una sua recente raccolta poetica: “Ho rivisto la casa della mia fanciullezza, / pietre senza anima, / profanata dagli uomini dei pugnali” (Zappador, pag. 83).

Il colmo della situazione iugoslava è che ad un certo punto restano traumatizzati gli stessi infoibatori o eliminatori, come emerge da un’intervista. A Rovigno “si diceva che per ogni uccisione ci fosse il parere positivo dell’Ozna, il servizio segreto iugoslavo – ha detto Riccardo Simoni – so che alcuni ragazzi arruolati nell’Ozna sono rimasti poi colpiti per tutta la vita di ciò che è successo”.

Priamo implora Achille di restituirgli il corpo del figlio Ettore

Nella guerra di Troia, leggendo l’Iliade, si sa che il vecchio troiano Priamo implora l’eroe greco Achille di restituirgli il corpo del figlio Ettore, ucciso e trascinato sotto le mura troiane per vendicare la morte dell’amico Patroclo (Iliade, XVII). Dall’inizio dei tempi l’uomo ha desiderato onorare i resti umani di un proprio parente, o di un avo. La vendetta veniva giustificata come un comportamento adeguato rispetto ad un grave torto subito, poi certe religioni introdussero il perdono, quale atto riparatorio pieno di umanità. In antiche comunità c’era il culto dei morti, tanto che il cranio del defunto di rango ripulito era messo in mostra all’interno della casa, per dare la possibilità di fare qualche offerta simbolica ai resti dell’avo.

Nel formulare una sociologia dell’eccidio in foiba si possono individuare due temi d’interesse, che riguardano la vittima e il carnefice, con i rispettivi discendenti. I carnefici puntano alla giustificazione del crimine, quale atto più o meno elaborato di processi psicologici, sociali e culturali, per creare uno schema interpretativo volto a non considerare criminoso l’operato, che la maggioranza di chi ne viene a conoscenza, invece, reputa tale (Gallino, p. 338). Lo schema interpretativo dei titini è fondato sullo spirito di vendetta per i soprusi patiti dagli slavi sotto il fascismo e sulla necessità politica di sbarazzarsi degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia contrari al nuovo potere iugoslavo che andava instaurandosi, ammantato dei principi della lotta di classe.

In alcune società gli antenati sono stati visti quasi come divinità e vengono simboleggiati da certi idoli. Rachele, nella Bibbia, durante l’esodo imminente, porta via gli idoli del padre (Gen 31, 19). Secondo la simbologia dell’Antica Roma, gli dei Penati e i Lari proteggevano la casa, il cibo e la famiglia, fino al termine del paganesimo, perciò venivano custoditi con cura i loro simulacri. C’era  qualcosa, insomma, su cui concentrarsi, ricordare e meditare, per superare un dolore.

Tra gli stessi carnefici, i loro discendenti e la comunità di appartenenza si sviluppa il rimorso per le azioni infami commesse. È un sentimento di dispiacere e di tormento che si sviluppa dalla crescente consapevolezza del male arrecato ad altri. È l’essere assillato dal rimorso che spinge alcune donne di Rovigno, nel 2007, a dire dove era la foiba di Vines, perché lì fu gettato il corpo di Giuseppe Tromba, tipografo. “Uno dei partigiani responsabili era il tale Abbà – ha detto il figlio Francesco Tromba – oggi io sono esule a Bibione, in provincia di Venezia”.

Nazario Cattunar era un milite della difesa territoriale. Era nato il 18 giugno 1908 a Villanova di Verteneglio; fu dichiarato disperso il giorno 1° maggio 1945, poi il figlio Marino seppe che fu ucciso ed infoibato a Vines. Su tali fatti lo scrittore Mauro Tonino ha scritto un romanzo storico molto interessante intitolato “Rossa terra”, condividendo le vicende della famiglia Cattunar e dei suoi discendenti. Prima del 2012, il romanziere assieme al signor Marino Cattunar giunsero a Villanova di Verteneglio, che nei primi anni del Novecento contava il 97 per cento di abitanti italiani. L’incontro con i vecchi istriani fu commovente, dopo cinquanta anni. Poi Marino volle cercare il sepolcro indesiderato di suo padre, ma i paesani di oggi non conoscono quei tragici fatti. Non sapevano nemmeno dove fosse la foiba di Vines. Quando avevano deciso di desistere, fuori da un bar il romanziere spinse Marino a parlare con un vecchio in croato. “Perché vuoi vedere la foiba di Vines?” – disse il vecchio del luogo. La risposta di Marino, che sa il croato, fu semplice e disarmante: “Perché lì c’è mio papà”. Allora il vecchio, che curiosamente si chiama Marino pure lui, decise di accompagnare i visitatori italiani addirittura con la sua autovettura. Chiamò il proprietario del terreno dove si trova la voragine carsica, tale Nando, che portò tutti fino al bordo dell’abisso. “Tanto per dire che le persone buone si trovano in Italia, in Slovenia e in Croazia” – ha commentato il romanziere davanti alla platea che applaudiva durante la presentazione pubblica del libro, avvenuta a Udine nel 2015.

Oltre al rimorso c’è il senso di colpa, con riferimento alla coscienza morale. È un’esperienza assillante collegata a modi comportamentali normalmente vietati a livello sociale (Mattejat, p. 220), come l’ammazzare un individuo inerme e gettarne il corpo nella voragine carsica. Dopo il 2000 qualcosa è cambiato nelle attuali Slovenia e Croazia e certe persone del posto hanno iniziato a parlare con chi chiedeva notizie degli italiani infoibati nel 1943-1945. A Pedena, nel 2020, addirittura è stato inaugurato un Monumento alle Vittime delle Foibe, a cura della popolazione locale. È il primo in tutta la Croazia. Tutto ciò per onorare la memoria dei caduti. La memoria, per gli psicologi, è il magazzino delle informazioni di un organismo, da cui egli può richiamare notizie degli eventi passati. Essa è legata alle cellule ganglionari della corteccia celebrale grigia e alle sottostanti fibre bianche del cervello (Underwood, p. 671). Ci possono essere delle interferenze, persino delle rimozioni, ma non si può cancellare, prima o poi qualcosa viene a galla.

Alcuni autori diffidano delle testimonianze delle fonti orali. A parte che le dichiarazioni delle fonti orali sono da confrontare con i documenti, è chiaro che la testimonianza della famiglia di uno scomparso è prima di tutto tragica e, poi, unica ed esclusiva. Si pensi alle uccisioni nelle foibe, agli annegamenti e alle fucilazioni d’italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia avvenute senza processi documentati, oppure con documenti introvabili o, peggio, fatti artatamente sparire persino nei decenni successivi al dopoguerra. Di quelle uccisioni non rimane che il ricordo delle famiglie e di alcuni compaesani istriani pentiti di avere taciuto per tanto tempo sulle malefatte dei titini. Sono soprattutto alcuni storici accademici a fidarsi poco delle deposizioni che, guarda caso, sono invece ammesse in campo giuridico, dando rilevanza scientifica all’aspetto psicologico-forense. La testimonianza non è un semplice ricordo di azioni vissute, ma una prestazione che riflette tutta la personalità del testimone (Topič, p. 1192). Del resto è stato Max Weber, nel 1904, a osservare che lo storiografo assume inevitabilmente posizioni soggettive nell’esaminare i fatti e non potrà quindi interpretarli in ordine a paradigmi astratti, come ha precisato Franco Demarchi.

Il potere dei titini in Jugoslavia, dal 1943, è di tipo totalizzante, come direbbero Deleuze e Foucault. Il potere è onnipresente, onniavvolgente e onnicomprensivo. L’obiettivo politico diviene mito: sorvegliare e punire; è la perfetta affinità tra potere e sapere. Il mito è di vedere senza essere visto, mediante gli apparati di sicurezza dei servizi segreti. Il potere è senza smagliature, senza pori, senza vuoti. Il potere controlla, sorveglia ed educa ogni soggetto (Foucault, p. 216). Ne fanno le spese gli oppositori, i dissidenti e coloro che non sono fedeli alla linea del partito comunista iugoslavo. Finiscono nei campi di concentramento come quello di Goli Otok (Isola Calva), che procurò molti morti di percosse e patimenti anche tra i 2.000 operai dei cantieri di Monfalcone (GO), che volontariamente andarono a lavorare nel paradiso socialista di Tito. Dopo la rottura con Stalin, del 1948, Tito li fece incarcerare perché, essendo stalinisti, sobillavano gli operai alla protesta nei cantieri di Fiume, deviando dalla nuova linea del partito iugoslavo.

Come osservò Weber, nel 1919, ogni azione politica si divide tra due massime radicalmente divergenti e inconciliabili: l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità (Weber, p. 109). I fattori della convinzione saranno persuasivi; non devono essere violenti, come a Goli Otok o in qualsiasi campo di concentramento. Chi agisce invece sotto l’etica della responsabilità, tiene in considerazione i difetti degli uomini e le conseguenze delle sue azioni saranno imputate solo al suo operato. L’uomo morale è così che si sente responsabile.

Cartolina di Parenzo, mura veneziane con torre rotonda e torre pentagona, anni 1930-1935

È uno storico, comunque, pure di formazione marxista, a fissare i termini della pulizia etnica nell’Europa centrale e balcanica sconvolta dal conflitto nazifascista. Eric Hobsbawm ha scritto, nel 2003:

“Fin dalla Seconda guerra mondiale e anche di più dalla fine dei regimi socialisti europei, la vecchia cultura d’Europa centrale era stata disintegrata da tre sviluppi importanti: espulsione o massacro etnico di massa [come nelle foibe], i connessi trionfi della cultura di massa commercializzata globale e della lingua inglese come indiscusso idioma della comunicazione globale”(p. 107).

Tito, dopo il distacco da Stalin, non si poteva infastidire, secondo l’ottica atlantica, perciò l’Italia uscita perdente dal conflitto fu trattata male, amputandole l’Istria, Fiume e Dalmazia, ma solo gli italiani di dette terre pagarono con la vita dei propri cari e con i loro propri beni i danni di guerra alla trionfante Jugoslavia. Sempre Hobsbawm informa che (p. 102), nel dopoguerra, Tito e il bulgaro Dimitrov formularono seri piani per una federazione balcanica, da anteporre alle manovre politiche cecoslovacche e ungheresi di altri piani sovranazionali di stampo Danubiano, ma tutti questi progetti, nel 1949, furono spazzati via dalla supremazia di Mosca.

Le testimonianze sugli infoibati

Anche lo scrivente ha intervistato l’istriano Francesco Tromba. “Ricordo quel 16 settembre 1943 – ha detto – quando arrivarono in sette titini coi fucili, erano di Rovigno, due restarono di guardia sotto casa, mentre gli altri salirono al secondo piano e col calcio dei fucili abbatterono la porta d’ingresso, poi iniziarono a cercare mio padre per tutta la casa, riuscirono a trovarlo nascosto sotto il lavabo della cucina e lo portano via”. La famiglia non ha mai saputo cosa gli fosse successo. Era un tipografo, Giuseppe Tromba, classe 1899, solo nel 2006 il figlio è venuto a sapere da una signora di Rovigno che il suo babbo fu una delle prime vittime gettate nella foiba di Vines, vicino ad Albona. Nell’ottobre 1943 i tedeschi occuparono Rovigno, scacciando i partigiani iugoslavi. Per i rovignesi fu una sorta di liberazione dalle violenze titine. Il maresciallo dei pompieri di Pola, Arnaldo Harzarich, iniziò a recuperare le salme dalle foibe, scortato dai militari tedeschi e italiani, ma quella di Giuseppe Tromba non fu esumata, in quanto inarrivabile e ormai decomposta.

Non è tutto, perché la madre di Francesco Tromba fu imprigionata il 5 maggio 1945 dai druzi in divisa con le armi spianate e portata nelle carceri di Fiume. Drug, in serbo, significa “compagno”, perciò gli italiani d’Istria chiamavano druzi i partigiani comunisti, impegnati nella pulizia etnica con l’Ozna, il servizio segreto di Tito, attivo dal 1944 fino al 1952. La signora Tromba fu accusata di essere nemica del popolo e imprigionata, perché aveva riferito ai tedeschi il nome di uno di coloro che gli avevano catturato e fatto sparire il marito nel 1943. Lei lavorava alla Manifattura Tabacchi. Francesco Tromba, a dieci anni, restò senza genitori, assieme alle sorelle Luciana, di sedici anni e Eliodora di sette. La mamma dei fratelli Tromba fu liberata dai druzi nel giugno 1946 e, per paura dei carcerieri, fuggì a Trieste, da dove, come dipendente statale, fu inviata alla Manifattura Tabacchi di Bari. Nel frattempo Francesco Tromba fu ospite dell’Orfanotrofio di Sant’Antonio di Pola, da dove il 12 febbraio 1947 con la motonave Pola assieme ai frati e a tutti gli orfanelli partì per Trieste, per essere alloggiati al Campo profughi del Silos. L’ultima tappa dell’esodo di Francesco Tromba, ormai diviso dalla sua famiglia, fu l’Orfanotrofio dei frati di S. Nicolò al Lido di Venezia, dove imparò il mestiere di tipografo. Per qualche anno visse poi a Milano, dove si sposò nel 1960 ed ebbe due figlie. Aprì una sua tipografia a Portogruaro (VE), città della moglie, dove lavorò fino alla fine del secolo. La ricerca dell’infoibato è un cruccio per tutta la famiglia.

Non tutti gli uccisi nella foiba sono ignoti, è ben vero che alcune salme (250 ca.) sono state recuperate dai pompieri di Pola e di Pisino sin dall’autunno del 1943. Sul maresciallo dei pompieri di Pola Arnaldo Harzarich esistono varie fonti documentarie. Fra i vari autori si veda, pur con la presenza di alcuni errori, il volume di padre Flaminio Rocchi, del 1990, che contiene anche le macabre immagini dell’esumazioni delle salme della foiba di Vines, guidate da Harzarich. “Mio papà era l’ingegnere Camillo Maracchi – ha raccontato il signor Costantino Maracchi – lavorava in Municipio e poi fu comandante dei pompieri di Pisino d’Istria, che aiutarono quelli di Pola, comandati dal maresciallo Arnaldo Harzarich, a esumare le salme degli uccisi nelle foibe dal 1943”.

La campana del camion dei pompieri di Pola, del maresciallo Arnaldo Harzarich, fotografata dall’autore a Villa Berlam di Tricesimo (UD) nel 2014, Collezione Marisa Roman

Certi italiani furono eliminati nelle foibe o con altri sistemi dopo la fine del conflitto. È il caso del dottor Giovanni Gorlato, nato nel 1900, notaio di Dignano d’Istria, prelevato di forza da un gruppo di quattro partigiani titini da casa sua la sera del 3 maggio 1945, così come successo con altre persone in vista del paese, tutti italiani. Venne fatto salire su un camion e portato al castello di Pisino. “Mia zia, l’unica presente al momento in casa, intervenne per difendere il fratello e chiedere spiegazioni ai partigiani titini – ha detto Giorgio Gorlato, figlio del notaio – ma per tutta risposta, da parte di uno di costoro, fu colpita al capo col calcio del fucile e rimase tramortita sul marciapiedi davanti a casa. Mia madre, con grande coraggio si recò successivamente al comando dell’Ozna (la polizia politica di Tito) di Fiume per sapere qualcosa di suo marito. Fu trattata in malo modo e non ottenne alcuna informazione. Da allora non si seppe più nulla di mio padre”. La Odeljenje za Zaštitu Naroda (Ozna) è la sigla croata che significa: Dipartimento per la Sicurezza del Popolo. C’è una seconda versione che così spiega la sigla: Oddelek za Zaščito Naroda; letteralmente: Dipartimento per la protezione del popolo. Tale organizzazione era parte dei servizi segreti militari iugoslavi. Dalla testimonianza della sorella del signor Gorlato emerge ancora il tema del silenzio degli esuli. “Dato il dolore che portavo e porto sempre nel cuore, per me l’Istria è stata nel limbo fino al 2009 quando con altri dignanesi esuli in Friuli, sono riuscita finalmente ad affrontare un viaggio nel mio paese natio per riconciliarmi – ha detto Daria Gorlato –. Questo perché mio padre Giovanni, che era notaio a Dignano, fu portato via, senza alcuna spiegazione, dai partigiani titini e nulla fu detto alla mia famiglia. Mia madre, rimasta sola con due bambini piccoli, ha per lungo tempo sperato che tornasse, ma evidentemente mio padre fu fatto scomparire non si sa come e dove, alla stregua di tanti altri poveri italiani innocenti”.

Ci sono poi a Dignano i sette infoibati della famiglia Chialich (italianizzato Chiali e, in grafia croata, Chialić), come ha detto Maria Chialich vedova Pustetto. “Frane, vien un momento via con noi, i gà dito”. Inizia così il triste ricordo del padre infoibato per Onorina Mattini, nata a Pinguente nel 1924. “Erano in due – ha aggiunto la signora Mattini – hanno portato via così mio padre, come in amicizia. Bruti cativi!”. Era il 15 settembre 1943. Per convincerlo hanno usato il diminutivo, vezzeggiativo in lingua croata “Frane”, che sta per “Francesco”. Egli era un addetto dell’impianto pompe dell’acquedotto militare di Pinguente. Francesco Mattini, classe 1895, non era una camicia nera. Non era un militare. Era un impiegato civile. Lo hanno ammassato nella scuola del paese, divenuta per l’occasione Narodni Dom (Casa del Popolo), assieme a tanti altri italiani del posto da eliminare. “Mio papà è stato visto prigioniero dei titini da mio fratello Vittore Mattini, lì in quella scuola – ha concluso Onorina – dove gli ha portato una coperta, dato che le guardie titine lasciavano passare i bambini. Lui gli aveva dato un biglietto da portare alla mamma. Poi è scomparso. Non abbiamo saputo più niente”. Francesco Mattini finì con tutti gli altri italiani prelevati e imprigionati, con tutta probabilità nell’Abisso Bertarelli. “Fu infoibato nei giorni tra il 27 e 30 settembre 1943”, come hanno scritto i figli, Onorina e Vittore, il 27 dicembre 2006, in una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, per ricevere dallo stato italiano un riconoscimento pubblico.

“Mio papà era Giusto Chersi, nato a Parenzo nel 1902 – ha raccontato la signora Mariagioia, esule a Udine – la nostra era una famiglia di panettieri, poco dopo il giorno 8 settembre 1943 fu prelevato dai partigiani titini, assieme a suo fratello Mario, e non li abbiamo più visti”. I fratelli Giusto e Mario Chersi, il primo di 41 anni, impiegato e il secondo di 52 anni, panettiere, sono menzionati a p. 532 da padre Flaminio Rocchi nel suo “L’esodo dei 350 mila giuliani fiumani e dalmati” cit. “Tra il 20 e il 22 settembre 1943 – scrive Rocchi – i partigiani slavi entrano a Parenzo. 94 persone vengono arrestate a Parenzo, a Villanova e a Torre. Senza processo vengono legate con filo di ferro e gettate nelle foibe di Vines, Zupogliano, Cimino e Surani”.

“Mio zio, Carlo Alberto Privileggi, fratello di mia madre – ha detto Marisa Roman – fu fatto prigioniero con altri italiani ‘per accertamenti’, dissero e dalla caserma dei carabinieri di Parenzo i titini lo portarono al castello di Pisino. I titini trasportarono gli italiani da eliminare con una corriera requisita e il testimone è proprio l’autista. Lui vide i partigiani col fucile scortare i prigionieri verso la macchia, dove c’è la foiba di Vines, sentì gli spari e vide tornare solo quelli con i fucili. Mio zio Gino con certi paesani si mise a girare per i paesi dell’Istria, chiedendo ai contadini se sapevano qualcosa e loro gli dissero dell’autista e di quella corriera che faceva vari viaggi da Pisino alla foiba di Vines, profonda 226 metri. Poi furono avvertiti i pompieri, che in ottobre si mossero col camion, al suono della campana con l’effige di S. Barbara. Alcuni corpi erano legati a quattro a quattro col filo di ferro alle mani – ha aggiunto Marisa Roman – qualcuno aveva il colpo alla testa e altri solo fratture, così finirono nella cavità carsica ancora vivi, trascinati dalla vittima che aveva ricevuto il colpo alla nuca”.

Siccome i cadaveri erano nudi e irriconoscibili, come avete individuato lo zio Carlo Alberto? “Mio zio Gino vide una salma che portava un bracciale passatempo di perline, lo prese e lo portò ai familiari ed ebbe la conferma che quello era un regalo ricevuto dallo zio Carlo Alberto quando lavorava in Egitto. Io ero adolescente – ha concluso la Roman – e frequentavo la scuola magistrale di Parenzo e la mia insegnante di italiano era Norma Cossetto, che fu stuprata da 17 aguzzini, gettata nella foiba di Villa Surani e recuperata dai pompieri di Harzarich. Noi compagne di classe restammo sconvolte da quel fatto atroce. Come si fa a fare quelle cose?”

Questi eventi lasciano sgomenti, ma c’è qualcuno che si salvò dalla foiba? “Mio padre si salvò – spiega la Roman – perché un amico d’infanzia, pur di sentimenti slavi, mentre si trovava a Fontane, a 6 chilometri da Parenzo, dove è cresciuta tutta la mia famiglia, gli disse di non stare in casa una certa sera, anzi se lo portò a dormire per qualche giorno a casa sua, così fu salvato dai prelevamenti forzati, invece mio cugino Bruno Roman di Canfanaro, nel 1943, si è dovuto scavar la fossa e fu obbligato dai partigiani a portare un sacco di pietre, con le quali lo lapidarono”.

“Avevo quattro anni – ha detto Vittorina Vanelli – quando siamo venuti via da Montona d’Istria a settembre del 1947 e ho parenti usciti da Montona e da Parenzo che stanno a Trieste. Ero con la mia mamma Vittoria Mladossich e con le mie tre sorelle tutte nate a Montona: Anita nel 1935, Emilia del 1938 e Maria del 1946. Mia nonna è scomparsa nel 1945. Chissà? L’avranno uccisa in una foiba o in una fossa comune – spiega la signora Vittorina Vanelli, con una conferma telefonica della sorella Emilia, impegnata al lavoro – la nonna si chiamava Maria Cramer, aveva un negozio di privativa, tabacchi e albergo. I titini l’hanno accusata di collaborazionismo, perché ha venduto le sigarette a un tedesco, così è sparita, poi ci hanno saccheggiato il negozio. Mi ricordo che mia mamma vedeva certe donne di Montona girare per il paese con addosso i vestiti ristretti di sua madre, che era di taglia forte. Il nonno Francesco Vanelli, il suo cognome di prima è Vesnaver, diceva sempre che Maria, sua moglie, poteva tornare, lui l’aspettava e non si capacitava della sua fine misteriosa”.

“Mio nonno era Antonio Babudri, nato ai primi del ‘900 da un’antica famiglia tedesca, i Babuder di Trieste, poi il cognome venne italianizzato – ha detto Diego Babudri – nonno Antonio era andato a lavorare e a sposarsi a Capodistria, nel paese di Bertocchi, in seguito alla crisi del 1929. Faceva il colono, lavorava bene a Bertocchi e consegnava regolarmente i prodotti al padrone poi nel giugno 1944 è sparito. Ci hanno sempre detto che è stato infoibato. La nonna Pehar ed altri familiari sono stati imprigionati e deportati per sottoporli ad un processo dai partigiani di Tito, con l’accusa di collaborazionismo. Dopo il processo sono state scagionate, la cosa incredibile è che gli stessi partigiani sapevano bene che ad uccidere nonno Antonio nella foiba erano stati due loro compagni, che avevano sbagliato, dissero, insomma i miei avi non erano più collaborazionisti, così proposero a mia nonna di vendicarsi sui due aguzzini del nonno e le dissero: Ti diamo il mitra, ammazzali tu. Mia nonna si è rifiutata di fare questa cosa, non parlava mai di questi fatti, li abbiamo saputi a pezzi, non voleva parlare per il grande dolore che provava, così oggi noi sappiamo ben poco. Soffriva in silenzio da esule”.

“Nella foiba di Vines i titini hanno gettato la gente di Albona – ha detto Bruna Travaglia – come mio nonno, Marco Gobbo, della classe 1882, nato a Brovigne di Albona, poi hanno ammazzato così pure mia zia mia zia Albina Gobbo, di 31 anni, detta “Zora” e pure il cugino di mia mamma, di 25 anni circa, i titini li hanno portati via il 18 maggio 1944 per gettarli nella foiba. Pensate che mia nonna Lucia Viscovi, che abitava a Brovigne non ha voluto venire via perché diceva: Se i torna no i trova nissun. Qualcuno dei prelevati era riuscito a sopravvivere, nascondendosi in un momento di confusione, così raccontò che prima hanno ucciso mia zia e una sua amica buttandole in una foiba piccola, mentre gli uomini li hanno tenuti prigionieri, perché così portavano munizioni e robe pesanti, poi li hanno fatti fuori anche loro”.

Si aggiunge solo che il nome di Albina Gobbo “Zora”, di Brovigne di Albona, non compare nell’elenco di oltre 400 donne uccise dagli slavi e gettate nelle foibe, nei pozzi minerari, nelle cave o nelle fosse comuni, pubblicato nel 2014 da Giuseppina Mellace. La stessa autrice riporta che nel periodo 1943-1945 “ben 10.137 persone [sono] mancanti in seguito a deportazioni, eccidi ed infoibamenti per mano iugoslava” (p. 236).

Alida Gasperini, nata a Parenzo nel 1948 lascia l’Istria con la famiglia il 10 aprile 1949, che ha un dolore straziante di aver perso tre congiunti nella foiba. Dopo una piccola sosta al Centro di smistamento profughi di Udine, vivono per due anni nel Campo profughi di Mantova, in sei in una stanza, e altri cinque anni in quello di Tortona in provincia di Alessandria, in una ex caserma, come si legge su «Il Secolo d’Italia» del 13 febbraio 2014.

Recupero di cadaveri da una foiba istriana, Seconda guerra mondiale

Odio, vendetta e morte

L’odio è un sentimento di repulsione, rifiuto e ripugnanza verso qualcuno, cui augurare ogni male e rovina. L’odio di classe è stato teorizzato dalle dottrine marxiste quale ostilità oggettiva tra gli interessi di capitalisti e dei lavoratori. Il rifiuto violento di qualcuno o di un gruppo sociale (ad esempio gli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia) ha condotto certi iugoslavi, sotto la guida dell’Ozna, ad azioni violente contro tale categoria di persone rifiutate fino alle estreme conseguenze.

La vendetta è un danno morale o materiale inferto ad altri quale ritorsione per insulti o rovine subite in precedenza. A volte la vendetta è intesa come una giusta punizione per dei torti subiti. Certe religioni sostengono che la miglior vendetta sia il perdono.

La tomba è il luogo di culto di ogni famiglia. Nell’analisi sociologica le immagini collettive della morte sono la tomba e il cimitero. La tomba esprime bene il sentimento di partecipazione alla comunione familiare e consente alla condivisione sociale del lutto. È il simbolo della continuità tra il mondo dei vivi e quello dei morti (D’Agostino, Vespasiano, p. 1.314). È con tale spirito che gli inglesi, nel 1947, con del personale italiano vanno ad esumare altre salme dalle foibe istriane. “Mio fratello Ermanno Bertolissi nel 1947 – ha detto Enzo Bertolissi –, dopo essere stato partigiano delle Brigate Osoppo, era in polizia e gli inglesi lo portarono ad esumare corpi dalle foibe istriane e quando si abitava a Prosecco, vicino a Trieste abbiamo visto sparire amici di famiglia, nell’autunno 1944, probabilmente eliminati in foiba perché italiani”.

Chi è senza tomba, poiché i titini gli hanno infoibato il padre, o il parente come può fare?

Fonti orali

Si ringraziano e si ricordano tutti coloro che hanno accettato di raccontare la propria esperienza, anche se atroce e scombussolante. Per alcune di queste persone è molto doloroso, ancor oggi, parlare di quei fatti luttuosi, come aver perso un parente nella foiba. Hanno essi consentito alla diffusione delle vicende vissute nella consapevolezza che anche queste piccole storie siano patrimonio culturale del nostro Paese. Le interviste (int.), con taccuino, penna e macchina fotografica, sono state raccolte a Udine da Elio Varutti, se non altrimenti indicato.

Claudio Ausilio, Fiume 1948, esule a Montevarchi (AR), int. al telefono 26 febbraio 2020.

Diego Babudri, Trieste 1959, int. telefonica del 12 maggio 2016. Ha collaborato la studentessa Ludovica Babudri, della classe 5^ A Sala e vendita dell’Istituto “B. Stringher” di Udine, con la professoressa Sabrina Marangone, insegnante di Storia.

Enzo Bertolissi, Prosecco (TS) 1937, esule a Tarvisio (UD), int, del 6 settembre 2018.

Bozidar Bukovec, Cal di Canale, frazione di Canale d’Isonzo (GO) 1925, int. del 4 maggio 2007 a cura di Stefania Bukovec.

Stefania Bukovec, Cal di Canale, frazione di Canale d’Isonzo 1921– Pradamano (UD) 2015, int. del 4 maggio 2007.

Maria Gioia Chersi, Parenzo 1942, int. del 23 marzo 2015.

Maria Chialich vedova Pustetto, Dignano d’Istria, 1919 – Udine 2010, int. del 27 gennaio 2004. Sulle vicende tragiche di tale famiglia, c’è l’altra fonte orale, Anna Maria L. istriana, Tolmezzo, UD, 1963, che ha vissuto negli anni ‘60 a Pola coi nonni, cugini e zii Chialich rimasti, int. del 15 dicembre 2010.

Patrizia Del Dosso, 1959, Firenze, ora risiede a Mariano del Friuli (GO), int. scolastica di Sara Cumin del 16 febbraio 2013, Istituto “B. Stringher” Udine.

Daniela Del Vita, nipote del bersagliere Luigi Del Vita, Montevarchi (AR), int. del 20 febbraio 2020 a cura di Claudio Ausilio.

Daria Gorlato, Dignano d’Istria 1943, int. del 15 dicembre 2013.

Giorgio Gorlato, Dignano d’Istria 1939, int. del 1° giugno 2013.

Costantino Maracchi, Pisino 1945, int. del 10 febbraio 2016.

Giordana Marzullo, Udine 1966, int. del giorno 11 febbraio 2020 e messaggi e-mail del 20 febbraio 2020 all’Autore.

Onorina Mattini “Là de Maria Osso”, Pinguente 1924, int. del 15 febbraio 2007 e del 30 ottobre 2015.

Vittore Mattini “Là de Maria Osso”, Pinguente 1929, int. del 15 febbraio 2007 e del 3 novembre 2017.

Marisa Roman, Parenzo 1929, int. a Tricesimo (UD) dell’8 luglio 2014.

Sergio Satti, Pola 1934, int. del 10 febbraio 2020.

Riccardo Simoni, Rovigno 1940, trapiantato a San Casciano Val di Pesa (FI),  int. telefonica del 23-25 febbraio 2020.

Bruna Travaglia, Albona 1934, int. del 10 febbraio 2017.

Francesco Tromba, Rovigno 1934, int. del 25 ottobre 2013 a Bibione di S. Michele al Tagliamento, provincia di Venezia.

Emilia Vanelli, Montona d’Istria 1938, int. al telefono del 7 gennaio 2017 a cura di Vittorina Vanelli.

Vittorina Vanelli, Montona d’Istria 1943, int. del 5 e 7 gennaio 2017.

Antonio Zappador, Verteneglio 1939, int. del 23 febbraio 2020 a Fossoli di Carpi (MO).

Bibliografia e sitologia ragionate

  1. Sulla tematica delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata vedi, tra le tante opere:

Milovan Gilas, Se la memoria non m’inganna… Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962, (ediz. originale: Vlast, London, Naša Reč, 1983), Bologna, Il Mulino, 1987.

Vasko Kostić, Storia di un prigioniero degli italiani durante la guerra in Montenegro (1941-1943), Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, Roma, 2014. Titolo originale in lingua serba: Preza koncentracioni logor (Presa, campo di concentramento), 2011, traduzione italiana di Mila Mihajlović, cura delle bozze di Elio Carlo. Opera pubblicata col contributo del Comitato Provinciale di Padova dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD).

Angelo Luminoso, “Orrori in Istria. Memorie di un parroco esiliato da Dignano”, «Il Gazzettino», Edizione di Pordenone, 4 ottobre 2008.

Giuseppina Mellace, Una grande tragedia dimenticata. La vera storia delle foibe, Roma, Newton Compton, 2014.

Dino Messina, Italiani due volte. Dalle foibe all’esodo: una ferita aperta della storia italiana, Milano, Solferino RCS Media Group, 2019.

Orietta Moscarda Oblak, “La presa del potere in Istria e in Jugoslavia. Il ruolo dell’OZNA”, «Quaderni del Centro Ricerche Storiche Rovigno», vol. XXIV, 2013, pp. 29-61.

Andrea Negro, Josip Bavcon. Storia dell’uomo sopravvissuto alla strage di Cerkno nel 1944, Università degli studi di Udine, Corso di laurea in Lettere, relatore prof. Paolo Ferrari, a.a. 2017-2018.

Flaminio Rocchi, L’esodo dei 350 mila giuliani fiumani e dalmati, Roma, Edizioni Difesa Adriatica, 1990.

Guido Rumici, Fratelli d’Istria. Italiani divisi, Milano, Mursia 2001.

G. Rumici, “…bisognava indurli ad andare via con pressioni d’ogni genere”, «Magazzino 18 – Simone Cristicchi Pagina Uff.», Facebook, 2 marzo 2015, nel web.

Mauro Tonino, Rossa terra. Viaggio per mare di un esule istriano con il nipote. Tra emozioni, storia, speranze e futuro, Pasian di Prato (UD), L’Orto della Cultura, 2013.

Francesco Tromba, Pola cara, Istria terra nostra. Storia di uno di noi esuli istriani (1.a edizione a cura dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia-ANVGD, Comitato Provinciale di Gorizia, 2000), Bibione (VE) – Trieste, Europa Tourist Group, 7.a ristampa, 2017.

Elio Varutti, Il Campo profughi di Via Pradamano e l’Associazionismo giuliano dalmata a Udine. Ricerca storico sociologica tra la gente del quartiere e degli adriatici dell’esodo 1945-2007, Udine, Edizioni ANVGD Comitato provinciale di Udine, 2007.

E. Varutti, Giuseppe Baucon, di Gradisca, salvatosi dalla fucilazione titina e dalla foiba a Circhina nel 1944, on line dal 20 settembre 2018.

Antonio Zappador, 29.200 giorni. Una vita piena di tutto… di più, Carpi (MO), stampato in proprio, 2019.

  1. Sugli aspetti sociologici del tema, tra le varie opzioni, si è fatto riferimento a:

Federico D’Agostino, Franco Vespasiano, “Morte”, in F. Demarchi, A. Ellena, B. Cattarinussi (a cura di), Nuovo dizionario di sociologia, Roma , Paoline, 1987.

Franco Demarchi, Paradigmatica ed assiomatica in sociologia, Roma, Paoline, 1975.

Emile Durkheim, Les règles de la méthode sociologique, Paris, Alcan, 1895, traduzione di Fulvia Airoldi Namer, Le regole del metodo sociologico, Milano, Comunità, 1979.

Michel Foucault, Surveiller et punir: Naissance de la prison, 1975, traduz. italiana di Alcesti Tarchetti: Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976.

Luciano Gallino, Dizionario di sociologia (1.a ediz.: 1978), Torino, Utet, 1983.

Eric Hobsbawm, “Destini mitteleuropei”, in Fractured Times, traduz. italiana di L. Clausi, D. Didero e A. Zucchetti: La fine della cultura. Saggio su un secolo in crisi di identità (1.a pubblic.: Parigi 2003), Milano, Rizzoli, 2013.

Fritz Mattejat, “Senso di colpa”, in W. Arnold, H.J. Eysench, R Meili (cur), Lexicon der Psicologie, Freiburg im Breisgau, Heder, 1980, traduz. italiana: Dizionario di psicologia, Roma, Paoline, 2.a ediz., 1982.

Otakar Topič, “Idoneità alla testimonianza”, in W. Arnold, H.J. Eysench, R Meili (cur), Lexicon der Psicologie, cit.

Benton J. Underwood “Memoria”, in W. Arnold, H.J. Eysench, R Meili (cur), Lexicon der Psicologie, cit.

Max Weber, Politik und Beruf, Wissenschaft als Beruf, Berlin, Dunker & Humbolt, traduz. italiana: Il lavoro intellettuale come professione, Torino, Einaudi, 8.a ediz., 1983.

——-

Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin.

Pubblicato da

eliovarutti

Comitato Esecutivo dell'ANVGD di Udine

2 pensieri su “Sociologia dell’eccidio in foiba”

Lascia un commento